venerdì 19 dicembre 2025

La prigione delle certezze

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La traduzione in italiano dell'opera scritta da Wendy McElroy esplora Bitcoin a 360°, un compendio della sua storia fino ad adesso e la direzione che molto probabilmente prenderà la sua evoluzione nel futuro prossimo. Si parte dalla teoria, soprattutto quella libertaria e Austriaca, e si sonda come essa interagisce con la realtà. Niente utopie, solo la logica esposizione di una tecnologia che si sviluppa insieme alle azioni degli esseri umani. Per questo motivo vengono inserite nell'analisi diversi punti di vista: sociologico, economico, giudiziario, filosofico, politico, psicologico e altri. Una visione e trattazione di Bitcoin come non l'avete mai vista finora, per un asset che non solo promette di rinnovare l'ambito monetario ma che, soprattutto, apre alla possibilità concreta di avere, per la prima volta nella storia umana, una società profondamente e completamente modificabile dal basso verso l'alto.

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di Joshua Stylman

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/la-prigione-delle-certezze)

Nel saggio, La società degli algoritmi, ho esplorato come l'ordinamento algoritmico e la manipolazione delle informazioni abbiano creato realtà frammentate in cui non condividiamo più una comprensione comune dei fatti. Oggi approfondirò il rovescio della medaglia: perché le nostre menti si aggrappano alle convinzioni nonostante le prove di manipolazione.

Un detto, attribuito a Mark Twain, recita: “È più facile ingannare le persone che convincerle di essere state ingannate”. Vero o no, racchiude in sé una realtà psicologica: una volta che ci siamo affezionati a una convinzione, abbandonarla può sembrare quasi impossibile.

Nei miei lavori precedenti ho esplorato come il nostro panorama informativo sia sistematicamente progettato attraverso la divisione algoritmica (Ingegnerizzare la realtà), le narrazioni istituzionali (Leggere tra le bugie) e il rifiuto sistematico del riconoscimento degli schemi (Non può essere vero). Comprendere questi sistemi esterni è solo la prima metà dell'equazione, l'altra è dentro di noi: i meccanismi psicologici che ci rendono restii a cambiare idea anche di fronte a prove schiaccianti.


Perché sbagliare fa male

Di recente parlavo con un amico di eventi storici che non tornano. Quando gli ho suggerito di prendere in considerazione alcune prove che mettessero in dubbio la narrazione ufficiale sull'11 settembre, si è subito zittito, non perché sia ​​poco intelligente o poco curioso, ma perché “ha perso un amico quel giorno”. Il suo legame emotivo con l'evento ha creato una fortezza psicologica che nessuna prova può penetrare. Allo stesso modo molti di coloro che hanno difeso con zelo le politiche anti-COVID ora riconoscono che “sono stati commessi degli errori”, ma insistono sul fatto che “gli esperti avevano buone intenzioni”. Questa non è una resa dei conti; è una razionalizzazione.

Un articolo dell'Atlantic che ho appena letto, intitolato Perché il giudizio sul COVID è così unilaterale (versione non a pagamento), illustra perfettamente questa resistenza psicologica al cambiamento di convinzioni. Jonathan Chait, l'autore, critica i conservatori, dimostrando al contempo la stessa cecità cognitiva che sto descrivendo: liquidando gli “errori” dei progressisti come semplici errori in buona fede piuttosto che come fallimenti sistematici che hanno devastato vite umane. Da nessuna parte riconosce la censura che ha schiacciato il dissenso.

Questo si collega direttamente a quanto ho scritto sulle realtà parallele. La mia esperienza personale illustra questa divisione: quando mi sono espresso contro gli obblighi di vaccinazione, molti nella mia cerchia personale e professionale non sono riusciti a difendere le proprie posizioni con la scienza o la logica. Invece di impegnarsi hanno smesso di comunicare con me. Ora viviamo in linee temporali separate che ho descritto nel saggio citato all'inizio di questo pezzo. Non sono amareggiato, solo confuso dalla facilità con cui i legami umani si sono fratturati quando le convinzioni sono state messe in discussione. Provo compassione nel cuore, ma non dimenticherò la rapidità con cui le persone hanno rivelato le loro vere priorità quando il conformismo sociale è entrato in conflitto con l'indagine aperta.

Queste reazioni rivelano qualcosa di profondo sulla psicologia umana: ammettere di essere stati manipolati non è semplicemente una questione di elaborazione di nuove informazioni. Richiede di affrontare la possibilità che la nostra comprensione della realtà – e forse la nostra stessa identità – sia stata costruita sulla falsità.


Il costo dell'ammissione 

Si pensi ai vaccini a mRNA. Per i genitori che si sono precipitati a far vaccinare i propri figli, o per i medici che li hanno promossi con entusiasmo ai pazienti, riconoscere i potenziali danni non significa semplicemente aggiornare la propria valutazione del rischio; significherebbe affrontare l'insopportabile possibilità di aver danneggiato le persone che più amavano.

Gli operatori sanitari hanno avuto la priorità nella vaccinazione, coinvolgendoli fin da subito nella narrazione. Una volta somministrata l'iniezione e imposto il vaccino ai pazienti, la vostra identità – giudizio professionale, etica, immagine di voi stessi come medico – dipende dalla sua certezza. Il costo dell'ammissione di un errore diventa psicologicamente proibitivo.

Il costo diventa di gran lunga personale. Diversi amici ora portano i loro figli dai cardiologi per problemi sviluppati dopo la vaccinazione. Solo uno ha confidato in privato di credere che quelle iniezioni abbiano causato la condizione di suo figlio. Per gli altri, riconoscere questa possibilità significherebbe affrontare un senso di colpa insopportabile: quello di aver potuto danneggiare il proprio figlio seguendo quello che ritenevano essere un consiglio medico presumibilmente responsabile.

Questo spiega perché alcuni dei più convinti sostenitori di questi interventi siano spesso gli operatori sanitari che li hanno somministrati. Come hanno dimostrato lo psicologo Leon Festinger e i suoi colleghi nel loro studio del 1957, When Prophecy Fails, quando le prove contraddicono una convinzione fondamentale, molte persone non abbandonano la convinzione, ma la rafforzano, ignorando le prove.


La trappola dell'identità

Gli stessi meccanismi psicologici operano nel dibattito sui giovani transgender. I genitori che hanno supportato la transizione medica dei propri figli si trovano ad affrontare un ostacolo psicologico insormontabile al riconsiderare la propria decisione, indipendentemente dalle prove emergenti sui rischi o sui tassi di rimpianto.

Osservando gli amici che affrontano questo terreno con i propri figli, sono colpito dai parallelismi con altre forme di radicamento delle proprie convinzioni. I genitori che hanno dato il via libera alla transizione dei propri figli si trovano nella stessa trappola: riconsiderare il percorso rischia di comportare l'ammissione di una potenziale catastrofe.

Più pubblico è il loro sostegno, più alta è la posta in gioco. Una volta che avete annunciato con orgoglio la transizione di vostro figlio sui social, testimoniato davanti ai consigli scolastici sull'importanza dell'assistenza che conferma il genere, o siete stati celebrati come un “genitore modello”, la trappola dell'identità si chiude. Cambiare idea non significa semplicemente adattarsi a nuove informazioni: è una forma di suicidio sociale e psicologico.

L'aspetto del contagio sociale è impressionante. Un'amica mi ha di recente raccontato che nella classe di terza media di sua figlia, in un'esclusiva scuola privata di New York, quasi il 50% delle ragazze si identifica ora in qualcosa di diverso dal genere femminile. Ai miei tempi molte di quelle ragazze si sarebbero semplicemente laccate le unghie di nero e avrebbero detto di essere goth.

Prendendo le distanze dalla narrazione attuale, credo che ciò a cui stiamo assistendo sia una moda passeggera piuttosto che una rivelazione sulla natura umana, rimasta in qualche modo nascosta nel corso della storia fino ad oggi. Questa prospettiva non nega l'esperienza di nessuno, ma la colloca semplicemente nel contesto di come gli adolescenti hanno sempre navigato nelle acque turbolente della scoperta di sé.

Ciò che mi spezza il cuore è vedere questi ragazzi affrontare l'adolescenza, già di per sé difficile, con autentico dolore e confusione. Le loro difficoltà meritano di essere prese sul serio, ma temo che, invece di aiutarli a esplorare l'identità in modi che preservino le opzioni future, ci siamo affrettati a medicalizzare quelle che potrebbero essere fasi di sviluppo normali, spesso portando a interventi irreversibili prima che abbiano pienamente sviluppato il loro senso di sé.

Naturalmente la disforia di genere esiste, e chi ne soffre merita non solo compassione e dignità, ma anche il nostro incrollabile sostegno. La mia preoccupazione non riguarda l'affermazione delle identità, ma la tempistica e la permanenza delle decisioni mediche. Non permettiamo ai ragazzini di farsi tatuaggi, di arruolarsi nell'esercito, o di fare altre scelte che cambiano la vita proprio perché comprendiamo la psicologia dello sviluppo. Eppure, in questo ambito, la cautela ponderata viene etichettata come odio, rendendo quasi impossibili conversazioni significative.


Quando l'autorità acceca

Oltre all'identità, c'è anche la nostra fiducia nell'autorità: si pensi agli esperimenti di Milgram a Yale negli anni '60, i quali rivelarono la preoccupante tendenza dell'umanità a obbedire all'autorità anche quando ciò viola la nostra bussola morale. I partecipanti a quegli esperimenti continuarono a somministrare quelle che ritenevano essere dolorose scosse elettriche perché un tizio in camice da laboratorio li aveva rassicurati che era necessario.

Il nostro parallelo moderno è sorprendente: professionisti istruiti hanno sospeso il loro giudizio e le loro preoccupazioni etiche perché i funzionari della sanità pubblica in posizioni di autorità li hanno rassicurati sulla necessità di misure senza precedenti. Quando gli esperti hanno raccomandato politiche senza precedenti storici, o prove a supporto, molte persone istruite hanno aderito istintivamente, non per attenta valutazione, ma per rispetto verso l'autorità.

“Fidatevi della Scienza™” è diventato l'equivalente moderno de “L'esperimento deve continuare” di Milgram: una frase che mette fine al pensiero, concepita per annullare il giudizio individuale. Questa deferenza non era un segno di comprensione scientifica, ma il suo opposto: la sostituzione dell'autorità alle prove.


Lo scudo dello status

Nel saggio, L'illusione degli esperti, ho esplorato come la nostra classe di professionisti spesso confonda le credenziali con la saggezza. Questa dinamica crea un altro ostacolo al cambiamento delle convinzioni: la protezione dello status.

Per molti professionisti istruiti, il loro status sociale dipende dall'essere percepiti come informati e razionali. Ammettere di essersi sbagliati su questioni importanti minaccia non solo le loro convinzioni, ma anche il loro status. Se avete costruito la vostra identità basandovi sulle “prove”, o sul “seguire la scienza”, riconoscere di essere stati fuorviati mette in discussione il vostro concetto di voi stessi.

Questo spiega la veemenza con cui molti hanno difeso le politiche relative al COVID sempre più incoerenti. Il loro forte attaccamento non era alle politiche in sé, ma alla loro immagine di seguaci razionali di una guida esperta. Cambiare posizione non è stato semplicemente un aggiornamento dei fatti: ha significato perdere la faccia.


Come il nostro cervello combatte la verità

La ricerca in neuroscienze cognitive suggerisce un'intuizione intrigante: il nostro cervello elabora le sfide riguardo le nostre convinzioni fondamentali in modo simile a come elabora le minacce. Quando ci vengono presentate prove che contraddicono opinioni profondamente radicate, le persone spesso sperimentano una risposta fisiologica allo stress, non solo un disaccordo intellettuale. I nostri circuiti neurali sono progettati per proteggere la nostra visione del mondo con la stessa vigilanza della nostra sicurezza fisica.

Questo spiega perché presentare i fatti raramente cambia l'opinione pubblica su questioni cariche di emotività. Quando qualcuno risponde a prove contrarie con rabbia o rifiuto, non è testardo, ma sta vivendo una risposta neurologica di minaccia.

Il nostro cervello si è evoluto per dare priorità all'accettazione sociale rispetto alla verità oggettiva – un vantaggio per la sopravvivenza in contesti tribali, dove il rifiuto poteva significare la morte. Questo crea una vulnerabilità critica: siamo programmati per conformarci alle credenze del nostro gruppo sociale anche quando le prove suggeriscono che sono sbagliate.

Come possiamo quindi superare questo problema primordiale di cablaggio?


Spezzare l'incantesimo 

Se la psicologia umana crea una resistenza così forte al cambiamento delle convinzioni, come possiamo sperare di superarle? Il primo passo è la compassione: capire che questi meccanismi non sono segno di stupidità, ma di umanità.

Quando qualcuno si rifiuta di riconoscere anche prove schiaccianti che contraddicono le sue convinzioni, non è necessariamente disonesto o irrazionale. Si sta proteggendo da un danno psicologico che sembra reale quanto un pericolo fisico.

Per superare queste barriere è necessario:

Creare spazi sicuri per il dubbio: le persone hanno bisogno di ambienti in cui mettere in discussione non significhi un rifiuto immediato. Quanto più è socialmente costoso esprimere dubbi, tanto più le convinzioni diventano radicate.

Preservare la dignità: il cambiamento diventa possibile quando le persone riescono a salvare la faccia. Ciò significa concentrarsi sui sistemi piuttosto che sui fallimenti personali, consentendo alle persone di aggiornare le proprie convinzioni senza sentirsi stupide.

Costruire fiducia attraverso valori condivisi: prima di mettere in discussione le convinzioni di qualcuno, stabilite un terreno comune. Le persone sono più ricettive alle verità difficili provenienti da coloro che percepiscono che possano condividere i loro valori fondamentali.

Pazienza nel processo: il cambiamento di convinzione avviene in genere gradualmente, non con conversioni drastiche. Una persona potrebbe porsi domande in privato molto prima di cambiare posizione pubblicamente.

Iniziare con domande, non con affermazioni: il metodo socratico rimane il più efficace. Le domande che stimolano la riflessione spesso hanno successo laddove le sfide dirette falliscono.


Cosa c'è in gioco

Non si tratta solo di vincere le discussioni politiche o di avere ragione. I meccanismi psicologici che ci impediscono di aggiornare le false credenze creano vulnerabilità che si estendono a ogni aspetto della società.

Una popolazione incapace di riconoscere la manipolazione diventa sempre più suscettibile. Quando non riusciamo ad ammettere di aver sbagliato sulle armi di distruzione di massa dell'Iraq, siamo vulnerabili alla prossima narrazione sulla guerra. Quando non riusciamo a riconsiderare i danni del lockdown, siamo pronti per la prossima risposta alle emergenze. Quando non riusciamo a mettere in discussione l'influenza dell'industria farmaceutica, siamo indifesi contro il prossimo intervento a loro vantaggio.

Come ho esplorato nel saggio, Gesti vuoti, questa resistenza psicologica è all'origine di alcuni dei nostri momenti più bui, periodi in cui persone altrimenti buone partecipano alla persecuzione, perché riconoscere la verità significherebbe confrontarsi con la propria complicità.


La mente compartimentata

L'ostacolo più profondo al cambiamento delle convinzioni potrebbe essere quello che ho descritto come la frammentazione della mente, ovvero la nostra capacità di compartimentare le informazioni in modo così efficace che le contraddizioni possono coesistere senza creare la dissonanza che potrebbe indurre a riconsiderare le cose.

La vera crescita richiede quella che ho definito “mente integra”: la capacità di gestire la complessità senza rifugiarsi in narrazioni semplicistiche, di riconoscere schemi senza soccombere alla paranoia, di mantenere i principi senza demonizzare chi non è d'accordo.

Questa integrità non è solo intellettuale, ma anche emotiva: imparare a tollerare il disagio dell'incertezza e il dolore di ammettere un errore. È una forma di maturità psicologica che il nostro attuale contesto informativo scoraggia attivamente.


Il coraggio di riconsiderare le cose

La questione non è se voi o io siamo stati manipolati: lo siamo stati tutti, in vari modi. Ho sicuramente creduto a narrazioni che poi si sono rivelate false e ho dovuto affrontare lo scomodo processo di riconsiderare posizioni profondamente radicate. La differenza non sta nella nostra immunità all'inganno, ma nella nostra volontà di riconoscerlo quando emergono le prove. Un segno di vera intelligenza non sono le credenziali che si possiedono, o la conoscenza che si possiede, ma la volontà di riconsiderare i propri punti di vista quando nuove informazioni vengono alla luce.

Coloro che sembrano più restii a cambiare idea sono spesso quelli che hanno investito di più nello status quo, sia a livello professionale, sociale, o psicologico. La loro resistenza non è prova di un'intelligenza inferiore, ma di un più profondo investimento nei sistemi che hanno plasmato il loro successo.

Nel frattempo coloro che hanno meno da perdere dal cambiamento del sistema – la classe operaia, gli emarginati, coloro che hanno assistito in prima persona al fallimento del sistema – spesso mostrano uno scetticismo più radicato nei confronti delle narrazioni istituzionali.

Comprendere queste barriere psicologiche non significa abbandonare la ricerca della verità; significa piuttosto avvicinarsi ad essa con maggiore compassione, riconoscendo che dietro ogni strenua difesa di una falsa narrazione si cela una paura profondamente umana di ciò che potrebbe costare cambiare idea.

Siamo stati tutti manipolati: è universale. La differenza sta nel saperci fare i conti. Una società che non ci riesce diventa sempre più vulnerabile. La verità richiede non solo sistemi migliori, ma anche consapevolezza di sé, rendendo la riconsiderazione delle cose un atto di coraggio, non di sconfitta.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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giovedì 18 dicembre 2025

Cosa succederebbe se il prezzo di Bitcoin salisse all'infinito?

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di Joakim Book

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/cosa-succederebbe-se-il-prezzo-di)

C'è chi ce l'ha con Bitcoin.

Non hanno affatto apprezzato questa nuova moneta quando ne hanno sentito parlare per la prima volta. Più la studiano, meno apprezzano il modo in cui sta sfidando i monopoli della moneta fiat e, paradossalmente, ciò peggiora la loro prospettiva. E se siete un economista affermato presso una banca centrale, il vostro evidente conflitto di interessi offusca ancora di più il vostro giudizio.

Nel novembre 2022 Ulrich Bindseil e Jürgen Schaaf della Banca Centrale Europea si sono affrettati a gioire per il calo di Bitcoin. Dal suo massimo storico dell'anno precedente, Bitcoin ha subito quello che ha subito ogni altra classe di asset a causa dell'inasprimento delle condizioni monetarie. Se si aggiungono le esplosioni settoriali degli exchange e degli hedge fund legati alle crittovalute (FTX, Celsius, Three Arrows Capital ecc.), Bitcoin perse il 75% del suo valore rispetto al suo massimo in dollari. Bindseil e Schaaf dichiararono con sicurezza che quella era la fine di Bitcoin, la sua “ultima resistenza”. Era sempre stata una bolla e ora era scoppiata.

Due anni dopo, sono tornati, non con delle scuse, dato che Bitcoin ha raggiunto nuovi massimi storici e ha superato i prezzi pre-FTX, ma con un documento che indaga Le conseguenze distributive di Bitcoin.

Negli ultimi giorni l'articolo ha ricevuto molte critiche immeritate, soprattutto, credo, da parte di persone che hanno letto il titolo, letto velocemente l'abstract e, secondo il datore di lavoro di questi autori (la BCE), hanno concluso che doveva essere spazzatura.

Può anche essere spazzatura, ma non per le ragioni ipotizzate dai commentatori online.

 

Buttate le prime due sezioni fuori dalla finestra

Gli autori tentano – in modo orribile e senza successo – di descrivere cosa sia e cosa faccia Bitcoin. Giocano con i primi scritti di Satoshi Nakamoto e ridefiniscono i termini per discutere della mediazione nelle transazioni PayPal (?!). Citano importanti sostenitori di Bitcoin e cercano di collegarli alle campagne elettorali americane. Il saggio è pieno di errori e puzza di qualcuno che non ha mai effettuato una transazione Bitcoin.

Con aria seria, questi altrimenti stimati studiosi della moneta affermano: “Anche 16 anni dopo la sua nascita, i veri pagamenti in Bitcoin, ovvero ‘on chain’, sono ancora macchinosi, lenti e costosi”.

Una rapida occhiata a mempool.space mentre scrivo (5 sat/vbyte, ovvero circa $0,30 per una transazione standard) – o in qualsiasi momento negli ultimi mesi – avrebbe dissipato questa idea (per non parlare della rete Lightning che consente comodi pagamenti al dettaglio). Nessuno di questi metodi di trasferimento di valore può essere considerato “lento” o “macchinoso” rispetto al vecchio mosaico di pagamenti fiat: $5-25 per i pagamenti Automated Clearing House? Commissioni di bonifico internazionale? Avete provato a inviare denaro dalla banca durante il fine settimana?


Di cosa parla realmente il documento

Bindseil e Schaaf hanno scritto un'ottima panoramica dello stato della letteratura economica sulle bolle speculative. Ci viene anche offerto un interessante riassunto di due pagine del dibattito “lean” contro “clean” nella politica macroprudenziale.

Ma non è questo il punto. Quello che offrono è un modello semplice e facilmente comprensibile di ciò che accade alla distribuzione dei beni reali quando un asset si apprezza in modo indefinito.

Iniziano col presupporre che Bitcoin sia un asset in continua crescita senza apportare miglioramenti produttivi alla società, ovvero che la sua esistenza e il suo utilizzo non arricchiscano l'economia. In base a questa ipotesi – che ritengono “ragionevole”, a quanto pare insieme alla “maggior parte degli economisti” – un mondo basato su Bitcoin non migliora la situazione economica.

Diversamente dai lettori più attenti che non si erano lasciati scoraggiare dalle obiezioni errate nella prima metà dell'articolo, la maggior parte aveva ormai già smesso di leggere. Dopo anni di cattiva gestione monetaria da parte delle banche centrali, eccessi fiscali, tentativi di censura/de-banking e stampa di moneta che hanno portato l'“inflazione” in cima alle preoccupazioni dei consumatori, liquidare un sistema di politica monetaria non discrezionale e di moneta a offerta fissa e non censurabile come privo di qualsiasi scopo produttivo è un elaborato esercizio di giustificazione del ridicolo.

E basare l'intera tesi su questo presupposto, fa diventare banale anche la conclusione:

• Se il valore (reale) di un asset aumenta in modo permanente;

• se tale asset non migliora in qualche modo il funzionamento produttivo dell'economia;

• se l’autorità monetaria si oppone al vento per mitigare il consumo aggiuntivo alimentato dall’effetto ricchezza mediante il restringimento delle condizioni monetarie (“crowding in”).

La conclusione è chiara: la società ridistribuisce beni e servizi reali dai ritardatari e dai non possessori a coloro che hanno acquisito il bene per primi. Alcune persone vivono una vita agiata a spese di tutti gli altri.

Non abbiamo bisogno di modelli, affiliazioni alla BCE e nemmeno di un diploma di scuola superiore per capirlo. Se queste condizioni valgono per Bitcoin, allora l'apprezzamento del suo tasso di cambio equivale solo a una ridistribuzione della ricchezza.

Naturalmente questa ipotesi non regge: Bitcoin ha sicuramente un impatto positivo e concreto sulla produttività, ovunque, dalla sovranità del consumatore alla gestione della rete elettrica, dall'eliminazione degli addebiti all'eliminazione delle commissioni sulle carte di credito e dei trasferimenti bancari internazionali. Una moneta unificata a livello globale e istantaneamente liquidata che scavalca il mercato più antico del mondo, limita gli eccessi fiscali ed elimina praticamente la cattiva gestione monetaria.

Anche se chiudessi gli occhi, non riuscirei a vedere come tutto ciò non possa avere un impatto produttivo positivo sull'economia mondiale.

Inoltre la logica di questo modello giocattolo è un po' sospetta: come potrebbe, ad esempio, un asset aumentare di valore per sempre senza miglioramenti produttivi nel nostro modo di fare le cose? I ritardatari e i non detentori trasferiscono valore economico acquistando volontariamente l'asset o ricevendolo in pagamento, quindi epistemologicamente devono vedervi una qualche virtù – come minimo servizi monetari.

Cosa questo abbia a che fare specificamente con Bitcoin è un mistero. Gli autori hanno violato esplicitamente quella che ho definito la regola n°4 su come non attaccare Bitcoin (“assicuratevi che la proprietà di Bitcoin che state attaccando non sia peggiore nel sistema attuale”). Se un banchiere centrale ritiene che Bitcoin sia dannoso perché il suo apprezzamento viene ridistribuito da chi non lo possiede ancora a chi lo possiede – senza in qualche modo arricchire produttivamente il resto di noi – il sistema monetario fiat lo fa già su una base di mille miliardi di dollari.

Esempio: i mercati immobiliari disfunzionali nella maggior parte dei Paesi occidentali. Una combinazione di tendenze sociali, stampa di moneta, trattamento fiscale dei debiti e calo dei tassi di interesse sui mutui ha trasformato gli immobili in conti di risparmio della maggior parte delle famiglie. Eppure, per citare una frase di Bindseil e Schaaf su Bitcoin, il mercato immobiliare non “aumenta il potenziale produttivo dell'economia; le conseguenze del continuo aumento di valore sono essenzialmente ridistributive”.

Chi ha ottenuto prestiti a basso costo per accedere in anticipo al mercato immobiliare in continua espansione ha ricevuto un beneficio patrimoniale pagato da chi è arrivato dopo. Nella misura in cui regimi monetari infinitamente elastici e una popolazione mondiale in crescita possono mantenere in vita e in espansione questo premio monetario, ci troviamo ora nella stessa situazione da cui gli autori avevano temerariamente messo in guardia, con la loro ipotetica versione di uno standard Bitcoin.

Se, come sembrano insinuare gli autori, un Bitcoin dal valore reale in costante aumento è moralmente ingiusta – “problematica da una prospettiva sociale” – dovrebbero basarsi su argomentazioni morali anziché economiche. Anche partendo da presupposti inadeguati sul ruolo di Bitcoin nel sistema finanziario attuale e futuro, è difficile capire dove stia il “problema”.

Ciò che Bindseil e Schaaf non includono nella loro analisi è che lo status quo non è neutrale in termini di valore né, per quanto si possa immaginare, ideale. È un peccato che trascurino il caso più interessante (accurato, reale?) in cui Bitcoin ha implicazioni produttive per l'economia.

Capisco che sarebbe difficile per due ricercatori di una banca centrale, comprati e pagati dalla stampante monetaria, guardare oltre la magnificenza di quella creazione orribile.

Se qualcosa aumenta di valore senza migliorare la situazione di tutti noi, la società “cede” beni e servizi reali ai loro proprietari. Questo è banale. Ma se il bene migliora effettivamente il funzionamento delle nostre economie, i primi a beneficiarne sono coloro che c'hanno creduto per primi qualunque sia l'oggetto d'investimento in discussione.

Questa è una buona cosa e, in un certo senso, è così che dovrebbero funzionare le economie di mercato (finanziarie).


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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mercoledì 17 dicembre 2025

Come l'UE paga i media generalisti per promuovere le sue narrazioni

Ricordo a tutti i lettori che su Amazon potete acquistare il mio nuovo libro, “La rivoluzione di Satoshi”: https://www.amazon.it/dp/B0FYH656JK 

La traduzione in italiano dell'opera scritta da Wendy McElroy esplora Bitcoin a 360°, un compendio della sua storia fino ad adesso e la direzione che molto probabilmente prenderà la sua evoluzione nel futuro prossimo. Si parte dalla teoria, soprattutto quella libertaria e Austriaca, e si sonda come essa interagisce con la realtà. Niente utopie, solo la logica esposizione di una tecnologia che si sviluppa insieme alle azioni degli esseri umani. Per questo motivo vengono inserite nell'analisi diversi punti di vista: sociologico, economico, giudiziario, filosofico, politico, psicologico e altri. Una visione e trattazione di Bitcoin come non l'avete mai vista finora, per un asset che non solo promette di rinnovare l'ambito monetario ma che, soprattutto, apre alla possibilità concreta di avere, per la prima volta nella storia umana, una società profondamente e completamente modificabile dal basso verso l'alto.

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di Robert Williams

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/come-lue-paga-i-media-generalisti)

La leadership non eletta dell'Unione Europea (UE), palesemente corrotta, sta ora pagando i media generalisti per promuovere i programmi delle sue “élite”. Secondo una relazione recente intitolata, Brusells' media machine: European media funding and the shaping of public discourse, di Thomas Fazi e pubblicata sul think tank europeo MCC Brussels, l'UE ha speso fino a €1 miliardo solo nell'ultimo decennio in questo processo.

Presentando i progetti come “lotta alla disinformazione” e “promozione dell'integrazione europea”, l'UE ha stanziato denaro dei contribuenti, stimato in modo prudente a €80 milioni all'anno, per “progetti mediatici”, senza includere i finanziamenti indiretti, come i contratti pubblicitari.

La relazione dimostra inoltre che l'UE gestisce un “complesso mediatico europeo” altamente sofisticato, attraverso il quale riesce a plasmare le narrazioni mediatiche su sé stessa e sui suoi programmi.

Secondo la relazione di Fazi:

La Commissione europea, solo attraverso il suo programma “Partnerariati giornalistici”, con un bilancio cumulativo che ad oggi si avvicina ai €50 milioni, supervisiona un vasto ecosistema di collaborazioni mediatiche nell'UE. Nel corso degli anni queste hanno incluso centinaia di progetti, che spaziano da campagne promozionali pro-UE a discutibili iniziative di “giornalismo investigativo” e ampi sforzi di “anti-fake news”. E questo si aggiunge alle campagne pubbliredazionali finanziate attraverso il programma “Misure di informazione per la politica di coesione dell'UE”, per un totale di €40 milioni finora [...].

Ancora più preoccupante è il ruolo centrale svolto dalle principali emittenti pubbliche europee in questo processo. Questi progetti dimostrano che non si tratta di collaborazioni isolate, ma piuttosto di un rapporto semi-strutturale in evoluzione tra le istituzioni dell'UE e le reti di media pubblici.

A quanto pare la Commissione europea ha letteralmente pagato quasi tutto e tutti nel mondo dei media, il che significa che tutti, dalle agenzie di stampa ai media generalisti, dalle emittenti pubbliche alle altre organizzazioni mediatiche, sono nelle mani della Commissione europea, in misura maggiore o minore.

Alcuni esempi.

Tra le agenzie di stampa, da cui dipendono praticamente tutti i mezzi di informazione per i loro servizi, la Commissione europea ha investito denaro in:

L'Agence France-Presse ha ricevuto €7 milioni dall'UE, l'ANSA (Italia) €5,6 milioni, la Deutsche Presse-Agentur (Germania) €3,2 milioni, l'Agencia EFE (Spagna) €2 milioni, l'Associated Press (AP) €1 milione, l'agenzia di stampa Lusa (Portogallo) €200.000, l'agenzia di stampa polacca €500.000 e l'agenzia di stampa di Atene €600.000.

Anche una selezione di organi di informazione è stata pagata dalla Commissione europea:

Euronews (paneuropeo) €230 milioni, ARTE (Francia) €26 milioni, Euractiv (paneuropeo) €6 milioni, Gazeta Wyborcza (Polonia) €105.000, 444.hu (Ungheria) €1,1 milioni, France TV (Francia) €400.000, GEDI Gruppo Editoriale (Italia) €190.000, ZDF (Germania) €500.000 e Bayerischer Rundfunk (Germania) €600.000.

Le emittenti pubbliche hanno ricevuto quanto segue:

Deutsche Welle (Germania) €35 milioni, France Médias Monde €16,5 milioni, France Télévisions €1 milione, RAI Radiotelevisione italiana (Italia) €2 milioni, RTBF (Belgio) €675.000, RTP (Portogallo) €1,5 milioni, Radiodiffusione pubblica estone ERR €1 milione, RTVE (Spagna) €770.000 e TV2 (Danimarca) €900.000.

Organizzazioni mediatiche come Reporters Without Borders (Francia) e Journalismfund Europe (Belgio) hanno ricevuto rispettivamente €5,7 milioni e €2,6 milioni. Un'organizzazione olandese che si definisce indipendente, Bellingcat, ha ricevuto €440.000.

Questi numerosi esempi di media e organizzazioni giornalistiche sono solo quelli interni all'UE. Quest'ultima, tuttavia, sta conducendo un'operazione di influenza su larga scala anche al di fuori dell'UE, ovviamente sotto la benevola formulazione propagandistica di “sostegno alla libertà e al pluralismo dei media” – come se l'UE sapesse tutto di libertà e pluralismo. I progetti si sono concentrati in particolare sui media in Ucraina, Armenia, Azerbaigian, Georgia, Moldavia, Russia, Bielorussia e nei Balcani occidentali.

Non c'è nulla di trasparente in nessuno di questi finanziamenti.

Secondo la relazione sono opachi e difficili da scoprire.

È logico, tuttavia, che l'UE cerchi di nascondere il più possibile la propria influenza.

La relazione conclude:

Il sistema di finanziamento dei media nell'UE [...] crea dipendenze finanziarie, incentiva il conformismo narrativo e promuove un ecosistema in cui le voci dissenzienti vengono emarginate, il tutto sotto le virtuose insegne di “combattere la disinformazione”, “promuovere i valori europei” e “costruire una sfera pubblica europea”.

La portata dell'interconnessione istituzionale tra gli organi dell'UE e i principali attori nei media – dalle emittenti pubbliche alle agenzie di stampa fino ai canali online – non può essere liquidata come innocua o accidentale. Costituisce un conflitto di interessi sistemico che compromette la capacità dei media di funzionare come pilastro indipendente della democrazia. Anche in assenza di un'interferenza editoriale diretta, la dipendenza strutturale da sovvenzioni e contratti dell'UE è sufficiente a esercitare un effetto dissuasivo sul giornalismo critico e a incoraggiare un allineamento di riflesso con le posizioni ufficiali dell'UE.

Purtroppo l'UE appare come un regime profondamente corrotto e antidemocratico, che si aggrappa disperatamente al potere attraverso il traffico di influenze e l'imposizione di una censura pesante.

Centinaia di milioni di europei continuano a subire queste tattiche. Quando si sveglieranno finalmente?


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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martedì 16 dicembre 2025

Trump potrebbe finire per innescare il “Grande Reset”?

Ricordo a tutti i lettori che su Amazon potete acquistare il mio nuovo libro, “La rivoluzione di Satoshi”: https://www.amazon.it/dp/B0FYH656JK 

La traduzione in italiano dell'opera scritta da Wendy McElroy esplora Bitcoin a 360°, un compendio della sua storia fino ad adesso e la direzione che molto probabilmente prenderà la sua evoluzione nel futuro prossimo. Si parte dalla teoria, soprattutto quella libertaria e Austriaca, e si sonda come essa interagisce con la realtà. Niente utopie, solo la logica esposizione di una tecnologia che si sviluppa insieme alle azioni degli esseri umani. Per questo motivo vengono inserite nell'analisi diversi punti di vista: sociologico, economico, giudiziario, filosofico, politico, psicologico e altri. Una visione e trattazione di Bitcoin come non l'avete mai vista finora, per un asset che non solo promette di rinnovare l'ambito monetario ma che, soprattutto, apre alla possibilità concreta di avere, per la prima volta nella storia umana, una società profondamente e completamente modificabile dal basso verso l'alto.

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di Brandon Smith

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/trump-potrebbe-finire-per-innescare)

I notiziari sono stati in fermento durante l'incontro tra Russia, Cina e India nella città portuale cinese di Tianjin. Vladimir Putin, Xi Jinping e Narendra Modi si sono assicurati di presentare un fronte unito all'evento, almeno in termini economici, ed è chiaro che i legami militari tra Cina e Russia si stanno consolidando. Lo Shanghai Cooperation Gathering viene trattato dai media come un monito agli Stati Uniti di fronte all'acuirsi delle tensioni commerciali.

I giornalisti occidentali sembrano piuttosto euforici di fronte alla notizia, insinuando che le politiche tariffarie di Donald Trump stiano unendo i nemici dell'America e formando un asse anti-USA. La sinistra odia Trump a tal punto che non mi sorprenderei di vederla tifare per Putin e i BRICS tra un anno o due.

Notizia dell'ultimo minuto per chi non lo sapesse: i BRICS hanno formato la loro alleanza fin dall'era Obama. Non è una novità e non ha nulla a che fare con Trump.

Ho seguito la formazione dell'alleanza BRICS sin dal 2009 e la motivazione principale del blocco economico (in apparenza) è sempre stata quella di rompere con il dollaro come valuta di riserva mondiale. I leader dei BRICS chiedono da anni la fine del dollaro e l'introduzione di un nuovo sistema monetario globale. Tuttavia il piano non è incentrato sull'Oriente come molti pensano. In altre parole, se sperate che i BRICS “pongano fine alla globalizzazione” vi sbagliate di grosso.

Infatti nel 2009 sia la Russia che la Cina hanno proposto l'idea di una moneta globale gestita dall'FMI, un'organizzazione che molti ritengono controllata dagli Stati Uniti. La realtà è che è controllata dai globalisti e i globalisti non hanno alcuna lealtà verso alcuno stato nazionale; sono fedeli solo ai propri interessi.

Qualcuno potrebbe sostenere che la situazione sia cambiata radicalmente dal 2009, ma non sono d'accordo. La Cina è ormai inesorabilmente legata al paniere DSP dell'FMI e la Russia rimane un membro attivo dell'FMI nonostante la guerra in Ucraina. È importante capire che ci sono sempre due linee temporali diverse quando si tratta di eventi mondiali: c'è il teatro internazionale più pubblicizzato e poi ci sono le operazioni delle istituzioni globaliste che esistono al di fuori della geopolitica.

A mio avviso, i globalisti non sono necessariamente gli “ingegneri” dietro ogni conflitto o crisi, ma si posizionano per trarne vantaggio ogni volta che è possibile. E giocano su entrambi i fronti di ogni conflitto per trarne il massimo beneficio. In altre parole, gruppi come l'FMI, la Banca Mondiale, la BRI, il WEF e conglomerati da migliaia di miliardi di dollari come BlackRock e Vanguard corteggeranno i BRICS tanto quanto corteggiano l'Occidente quando si tratta di realizzare un'economia mondiale centralizzata.

Non è un segreto come dovrebbe apparire questo “nuovo ordine mondiale”. I partecipanti a Davos hanno discusso apertamente delle loro visioni per anni e durante la pandemia si sono tolti la maschera e si sono crogiolati nell'“inevitabile” attuazione del loro “Grande Reset”. In sintesi, ecco cosa vogliono le élite per l'economia futura: un sistema globale senza denaro contante; una valuta digitale mondiale costruita attorno a un paniere di CBDC; monitoraggio con l'IA di tutti i registri finanziari; una “sharing economy” in cui ogni proprietà privata è abolita; l'uso del “de-banking” per controllare il dibattito pubblico – il che significa che potete dire quello che volete, ma potreste perdere l'accesso ai vostri conti e forse persino al mercato del lavoro; controllo e riduzione della popolazione; neo-feudalesimo in cui le nazioni pagano tasse ai globalisti per “fermare il cambiamento climatico causato dall'essere umano” (che non esiste).

Queste tasse vengono poi ridistribuite tra le varie nazioni per incentivarne la cooperazione. E, in ultima analisi, l'introduzione del Reddito di Cittadinanza Universale come mezzo per rendere ogni individuo dipendente dal governo centralizzato per il proprio sostentamento, in modo che non pensiate mai di ribellarvi.

Questo è ciò che l'élite di Davos intende quando parla di “Grande Reset”. Tuttavia in articoli recenti ho notato che i globalisti sono rimasti stranamente in silenzio nell'ultimo anno. Non sono più così audaci nei loro discorsi come lo erano durante la pandemia e i loro piani sembrano davvero arenarsi.

Ho visto i media, diversi banchieri centrali e leader politici riferirsi a questo problema come al “reset economico” di Donald Trump e trovo questa narrazione intrigante. Di cosa stanno parlando esattamente? Sono in atto reset concorrenti e, in tal caso, significa che l'agenda globalista è stata fatta deragliare?


Il reset di Trump e la fine di Bretton Woods

Il reset di Trump, se così possiamo chiamarlo, sembra affondare le sue radici nell'inversione di tendenza degli accordi di Bretton Woods del secondo dopoguerra, in base ai quali gli Stati Uniti divennero di fatto il motore finanziario dell'economia globale. Fu allora che si consolidò lo status del dollaro come valuta di riserva mondiale, che l'America divenne il polo dei consumi per l'Occidente e che fu fondata la NATO.

Sembrava un affare allettante per gli americani, ma ricoprire questo ruolo è costoso. Sta lentamente ma inesorabilmente distruggendo la nostra economia attraverso debito e inflazione.

Molti presidenti hanno utilizzato dazi mirati sin dalla Seconda guerra mondiale, ma nessuno ha imposto dazi drastici come Trump. Spesso paragonati ai dazi Smoot-Hawley di Herbert Hoover, erroneamente attribuiti all'innesco della Grande Depressione (in realtà furono le banche internazionali e la Federal Reserve a causarla), i dazi sulle importazioni di Trump mettono i bastoni tra le ruote al commercio post-Bretton Woods e soffocano il globalismo, costringendo le grandi aziende a ridurre le esternalizzazioni all'estero.

Come ho già sottolineato più volte, le multinazionali NON sono entità di libero mercato, ma entità socialiste, costituite dai governi e protette da speciali privilegi giuridici ed economici. Se un'azienda è “troppo grande per fallire” e ha quindi diritto al denaro dei contribuenti attraverso salvataggi e QE, allora non è un meccanismo di libero mercato. Pertanto non dovremmo preoccuparci se vengono tassate tramite dazi.

Francamente, penso che il globalismo aziendale e l'interdipendenza economica dovrebbero essere aboliti, anche con la forza, se necessario.


Decentralizzazione legittima o caos controllato?

I dazi di Trump, insieme ai tagli ai sussidi esteri e ad altre politiche economiche, potrebbero, nel giro di pochi anni, sconvolgere completamente il globalismo così come lo conosciamo. Quindi, in un certo senso, si tratta effettivamente di una sorta di “reset economico”. Ma ecco il problema: gli sforzi di Trump potrebbero finire per accelerare il reset globalista anziché contrastarlo?

Come accennato in precedenza, la creazione di stretti legami tra i Paesi BRICS è in corso sin dal 2009 e il loro obiettivo principale è stato quello di porre fine alle strutture create dagli accordi di Bretton Woods. In passato hanno dichiarato di volere un nuovo sistema monetario gestito dall'FMI. Che i BRICS ne siano consapevoli o meno, i loro sforzi per sviluppare le CBDC e spodestare gli Stati Uniti si inseriscono direttamente nel piano globalista.

L'FMI e la BRI hanno lavorato diligentemente (e silenziosamente) per costruire un quadro transfrontaliero per le CBDC e l'FMI ha pianificato la propria valuta digitale globale basata sul paniere dei DSP. La BRI a volte si riferisce a questo sistema come “registro unificato”.

Le élite bancarie stanno elaborando un'alternativa al dollaro in preparazione di un imminente scontro tra Stati Uniti e BRICS? E il “reset” di Trump è un catalizzatore di questa crisi?

Sostengo i dazi di Trump per una serie di ragioni. Credo che il globalismo debba finire; credo che la produzione nazionale debba tornare negli Stati Uniti e che le aziende debbano pagare un prezzo per la loro esternalizzazione. Non credo che gli americani debbano fungere da principale polo di consumo per il mondo intero e non credo che sia nostro compito sovvenzionare il pianeta. Credo anche che nulla cambierà se non verranno adottate misure drastiche nel breve termine.

Ma comprendo anche la realtà: se gli Stati Uniti smettessero di svolgere il ruolo che hanno svolto sin dalla Seconda Guerra Mondiale, la maggior parte delle nazioni del pianeta si troverebbe ad affrontare una sconvolgente crisi. Gli Stati Uniti rappresentano circa il 30% del consumo globale, forniamo la stragrande maggioranza degli aiuti esteri globali (circa $70-100 miliardi all'anno), su cui molti Paesi hanno imparato a fare affidamento, siamo il principale mercato di esportazione per il mondo e non esiste un sostituto realistico, il dollaro e il sistema SWIFT sono i principali motori del commercio globale.

Il reset di Trump costringerebbe davvero la maggior parte delle nazioni a una situazione disperata? Una situazione che le costringerebbe a cercare una soluzione alternativa che altrimenti non accetterebbero? I globalisti sono in agguato per offrire quella soluzione sotto forma di un loro “Grande Reset” e di un sistema monetario digitale mondiale?

In un modo o nell'altro l'attuale interdipendenza economica deve scomparire. Le multinazionali devono fare i conti dopo decenni di protezione e trattamento speciale, la produzione deve tornare negli Stati Uniti, gli americani devono smettere di pagare per il resto del mondo attraverso gli aiuti esteri. Ma se intendiamo intraprendere questa strada, dobbiamo anche smantellare tutte le organizzazioni globaliste.

Credo che queste istituzioni intendano sfruttare l'instabilità causata dalla rottura degli Stati Uniti con gli accordi di Bretton Woods; credo che si siano posizionate, come sempre, per trarre vantaggio da qualsiasi potenziale conflitto che potrebbe derivarne. Non si può permettere loro di usare le nostre necessarie riforme come trampolino di lancio per realizzare i mali del loro Grande Reset.

Un vero “reset” richiederà che la distruzione delle istituzioni globaliste diventi una priorità. Altrimenti qualsiasi azione economica da noi intrapresa potrebbe in ultima analisi favorire la loro agenda.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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lunedì 15 dicembre 2025

Il caos nel governo francese segnala un crescente rischio per l'Eurozona

L'oro che sale di prezzo non è solo il ripudio del dollaro come valuta fiat. Per anni non è stato in un bull market primario perché faceva nuovi massimi in rapporto alla rupia, al rublo, al dong, al pèso... ma non alla valuta di riferimento mondiale. Quando l'oro rompe al rialzo rispetto al dollaro e a tutte le altre valute allora è una cosa diversa; in questo scenario possiamo avere sia l'oro che il DXY che salgono in tandem. Quindi, sì, il mondo sta correndo verso l'oro e i motivi, a mio giudizio, sono due. Sicuramente non è per l'inflazione, visto che gli USA si trovano in un ambiente in cui il credito si sta contraendo (l'IA non compenserà questo assetto). No, si tratta di rischio geopolitico e istituzionale. Le valute fiat stanno mostrando crepe strutturali, i mercati obbligazionari stanno mostrando crepe strutturali, la capacità di emettere nuovo debito in base al bacino fiscale sta mostrando crepe strutturali. Ci stiamo allontanando da un mondo globalizzato dove il commercio sarà propriamente valutato, scevro dalle distorsioni protezionistiche e monetarie alimentate da un sistema estorsivo/estrattivo piuttosto che produttivo. Più in profondità, lo spostamento dalla “consensus politics” di matrice anglo-francese alla “power politics” di matrice sino-russa-statunitense. Lo Stato profondo italiano è di gran lunga peggiore di quello americano dato che è più vecchio. La mera sopravvivenza politica della Meloni in questo ambiente, con colpi al cerchio e alle botte, è di per sé una vittoria. In questo caso particolare potremmo dire che l'Italia è un proxy di quello che si potrà vedere negli USA dove l'oro verrà rivalutato ai prezzi correnti (inizialmente) spostando finalmente il cartellino del prezzo dai ridicoli $42 l'oncia. Infatti così come Milei e l'Argentina sono stati un esperimento anticipato per quanto riguarda tagli e ridimensionamento dello stato nell'economia, la Meloni e l'Italia potrebbero essere l'esperimento in materia di aumento dell'equity. Per l'UE e la BCE è un anatema: sia dal punto di vista di bilancio che di credibilità dell'unione (a livello di facciata). L'incalzante censura europea altro non è che l'anticamera di un processo più ampio volto a impedire che i capitali (rimanenti) in Europa lascino il continente, soprattutto quando dovrà arrivare l'haircut sui debiti insostenibili europei. Potremmo definire la mossa sull'oro della Meloni come un messaggio mafioso indiretto degli USA all'UE. Soprattutto in chiave risolutiva del conflitto tra Russia e Ucraina. Comunque non bisogna farsi illusioni: sia l'amministrazione Trump che di riflesso quella Meloni non riusciranno a risolvere decenni di sconquassi durante i loro attuali termini di governo. Siamo ancora sulla soglia di una trasformazione, la quale richiederà come minimo 10 anni per essere portata a termine. E comunque meglio questa di prospettiva che il mondo distopico e tirannico della cricca di Davos & Co.

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di Thomas Kolbe

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/il-caos-nel-governo-francese-segnala)

Il Primo Ministro francese François Bayrou non ha ottenuto la fiducia del Parlamento a settembre, ponendo fine al suo governo. Sebbene i mercati siano rimasti sostanzialmente calmi, ciò non significa che la crisi del debito francese sia stata rinviata.

Dopo soli nove mesi di mandato, il quarto governo del presidente Emmanuel Macron è crollato. Il Primo ministro, François Bayrou, ha perso il voto di fiducia sul suo bilancio incentrato sull'austerità con 364 voti a favore e 194 contrari. Bayrou ha poi annunciato le sue dimissioni.


Bayrou ha riconosciuto la gravità della situazione

Bayrou si era assunto la responsabilità della grave situazione delle finanze pubbliche francesi e ha tentato di imporre un programma di risanamento fiscale. Con un debito pubblico al 114% del PIL e una previsione di indebitamento netto del 5,4% per quest'anno, il piano includeva tagli alla spesa per €44 miliardi, il congelamento delle pensioni e la riduzione di due festività nazionali: misure pensate come un'ancora di salvezza per l'economia in difficoltà.

Sia la maggioranza parlamentare che ampi settori della società francese si sono opposti al programma di riforme. Gli scioperi generali sono fioccati.

Con le dimissioni di Bayrou, l'indeciso Emmanuel Macron si è ritrovato ad affrontare il compito di nominare un quinto Primo ministro in due anni. Fino alle prossime elezioni dell'aprile 2027 qualsiasi governo, indipendentemente dalla sua composizione, si troverà ad affrontare gli stessi problemi. Qualsiasi forma di consolidamento fiscale sarà affossata da fazioni politiche radicate. La Francia è bloccata in una situazione di stallo politico, cosa che rende il consolidamento del debito apparentemente impossibile.

 

La strada verso il disastro 

Questa bizzarra situazione rivela che l'élite politica francese – e sempre più in tutti gli stati dell'UE sotto pressione dei propri debiti – non riesce più a far prevalere le necessità economiche sulle divisioni ideologiche. Il mancato voto di fiducia è stato l'ennesimo chiodo nella bara dell'UE e presto si manifesterà sui mercati come un problema per l'Eurozona, man mano che gli investitori si renderanno conto dell'impotenza politica della Francia.

Prima delle sue dimissioni Bayrou ha apertamente criticato lo stile di vita francese, individuando nello Stato sociale un problema critico. Ora sperimenta in prima persona che chiunque metta in discussione i numerosi privilegi del sistema di welfare viene punito senza pietà dal punto di vista politico. La Francia difende la sua società fondata ormai sui trasferimenti sociali come una vacca sacra, anche se questa posizione conduce direttamente alla catastrofe fiscale.


Il rischio di contagio in Europa

Per i mercati finanziari gli eventi di Parigi non sono una buona notizia. Gli “OAT” francesi, i titoli del Tesoro, hanno mostrato scarsa reazione immediata al crollo del governo. Poi, però, sono stati sottoposti a crescenti pressioni a causa della crisi sovrana incombente. I rendimenti sono aumentati e lo spread rispetto ai Bund tedeschi, il benchmark europeo, si è ampliato fino a 90 punti base, segnalando un rischio crescente.

I titoli di Stato francesi sono ora scambiati con un premio di rischio significativo, molto simile al debito britannico. Il rischio di contagio incombe sull'Eurozona se i mercati si rivolgessero ad altre nazioni ad alto debito come Spagna, Italia, o Grecia, innescando una reazione a catena che ricorderebbe la precedente crisi del debito sovrano.

La Francia rimane in subbuglio e la attende un altro test cruciale: Fitch pubblicherà la sua valutazione del rating creditizio.

Sebbene un declassamento immediato sia improbabile – la Francia si attesta già su AA- con outlook negativo – un rientro nella categoria A è ora una possibilità concreta. Ciò costringerebbe gli investitori istituzionali a vendere obbligazioni francesi, aumentando ulteriormente i costi di rifinanziamento e aggravando la spirale del debito francese. Il Paese perderebbe gradualmente il suo status di benchmark “quasi privo di rischio” nell'Euroarea.

 

Valutazione dei rischi

Un andamento simile è emerso sui mercati monetari, dove l'euro ha addirittura guadagnato leggermente rispetto al dollaro. Segnali dell'imminente crisi del debito sovrano potrebbero provenire anche dai metalli preziosi: oro e argento hanno temporaneamente raggiunto massimi storici, confermando una costante tendenza al rialzo sostenuta dalla domanda delle banche centrali in tutto il mondo.

Gli investitori privati ​​e gli operatori istituzionali dovrebbero prendere nota: la consapevolezza delle imminenti crisi sovrane è aumentata dopo i gravi shock di mercato diciotto mesi fa. L'oro offre un rifugio sicuro senza rischio di controparte.

La BCE si trova di fronte a un difficile equilibrio: in caso di un nuovo intervento, dovrà bilanciare il controllo dell'inflazione con la stabilità finanziaria. L'aumento degli spread può distorcere la trasmissione della politica monetaria, costringendo a misure mirate di liquidità senza abbandonare del tutto la stretta monetaria. I commentatori di mercato avvertono di un “inverno nervoso” per gli spread dell'Eurozona.


Scontro inevitabile

La Banca Centrale Europea, ultimo baluardo dell'Eurozona in caso di vendite obbligazionarie dettate dal panico, è rimasta invisibile durante il caos francese. La calma degli scambi dopo il fallimento del voto di fiducia e i rendimenti stabili dei titoli di stato francesi e dell'euro suggeriscono che la BCE potrebbe essere intervenuta silenziosamente con acquisti di supporto selettivi. La conferma arriverà con il prossimo rapporto del TCI, che rivelerà le transazioni delle banche centrali.

Fino ad allora, le speculazioni continueranno, a meno che le fughe di notizie non vengano a galla prematuramente.

I cinici potrebbero sostenere che i mercati si sono abituati al dramma francese e stanno semplicemente aspettando il capitolo successivo, cosa che potrebbe riguardare problemi di liquidità. Nel complesso la graduale svendita del debito pubblico a lungo termine sui mercati globali continua. La Francia rimane sotto stretta osservazione a causa delle continue turbolenze politiche e delle sfide fiscali irrisolte.

La grande resa dei conti sul mercato obbligazionario incombe come una nube oscura e l'incessante accumulo di debito pubblico scatenerà prima o poi violente tempeste. L'architettura finanziaria globale poggia su fondamenta fragili: un sistema monetario fiat basato su debito sovrano che per essere “gestito” ha bisogno di dosi crescenti di inflazione.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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