martedì 22 aprile 2025

Guerra commerciale: i dazi servono per sconfiggere il globalismo

Mentre i globalisti e la stampa generalista reagiscono ai dazi americani con la consueta isteria, i produttori americani hanno reagito con sollievo. Sotto la mentalità “America Last” di Joe Biden e Kamala Harris, i Paesi esteri erano liberi di sfruttare le scappatoie della Sezione 232 per inondare l'industria nazionale dell'alluminio e dell'acciaio con prodotti a basso costo. Canada, Messico e Australia si sono alleati con lo Stato profondo per ottenere esclusioni ed esenzioni, a scapito dei lavoratori americani. Le esportazioni di alluminio dall'Australia verso gli Stati Uniti sono aumentate drasticamente e, allo stesso tempo, Cina e Russia hanno sfruttato scappatoie per far passare l'alluminio attraverso Messico e Canada e inondare il mercato americano. A seguito di ciò Alcoa ha annunciato la chiusura definitiva della sua fonderia nello stato di Washington. Tra le altre chiusure figurano lo stabilimento Century Aluminum in Kentucky, che ha interrotto la produzione nel 2022, e Magnitude 7 Metals in Missouri, costretta a chiudere nel 2024. Molti globalisti sostengono che i dazi sull'alluminio aumenteranno i costi per i consumatori. Si tratta della stessa argomentazione che abbiamo sentito durante la prima amministrazione Trump; non era vera allora e non lo è nemmeno oggi. I dazi non hanno avuto alcun impatto sulla quantità di acciaio o alluminio consumata, non hanno indebolito l'economia e non hanno causato ingenti perdite di posti di lavoro. Al contrario l'utilizzo della capacità produttiva per l'alluminio è aumentato durante il primo mandato Trump e ora sono stati annunciati importanti investimenti nell'industria siderurgica. Mentre alcune aziende attaccano i dazi, altre dicono ai loro investitori che “se tutti i Paesi dovessero ricevere un dazio, l'impatto per noi sarebbe nullo”. E mentre alcuni globalisti proprietari di fonderie di alluminio in Canada attaccano i dazi al 25%, la realtà è che Trump è stato eletto per riportare posti di lavoro ben retribuiti nel settore manifatturiero negli USA, e questo è un impegno che intende mantenere come sottoprodotto alla guerra contro la cricca di Davos. Come ha ripetuto più volte, l'America ha smesso di sovvenzionare il Canada e il resto del mondo. Il cuore di tutta questa storia, comunque, è che la produzione di alluminio e acciaio è fondamentale per la base industriale della difesa americana e la continua dipendenza dai fornitori stranieri ha reso vulnerabili gli americani in un modo a dir poco imbarazzante.

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di Brandon Smith

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/guerra-commerciale-i-dazi-servono)

Fin dai tempi di Herbert Hoover e dall'inizio ufficiale della Grande Depressione, il concetto di dazi è stato demonizzato da gran parte del mondo accademico e dalla maggior parte delle ideologie economiche moderne. È in realtà un ambito in cui globalisti ed economisti di libero mercato tendono ad allinearsi (sebbene ogni gruppo abbia motivazioni molto diverse).

I sostenitori della filosofia di libero mercato di Adam Smith o Ludwig Von Mises e la sua Scuola Austriaca hanno le stesse probabilità di opporsi ai piani di Donald Trump di qualsiasi altro globalista presente nelle aule di Davos.

Innanzitutto dobbiamo chiarire cosa sono i dazi: sono tasse sulle imprese internazionali che importano beni da altre nazioni. Queste tasse sono concepite per costringere le imprese a importare da Paesi al di fuori dell'elenco sanzionato o a produrre beni a livello nazionale. I bersagli principali dei dazi sono in realtà le imprese; i bersagli secondari sono i Paesi inclusi nell'elenco dai dazi.

Gli economisti Austriaci, opponendosi ai dazi, partono dal presupposto che le grandi aziende siano entità di “libero mercato”. Presumono anche che la globalizzazione sia un prodotto del libero mercato.

Adam Smith potrebbe aver assistito alla corruzione del mercantilismo, ma non aveva idea della mostruosità del globalismo moderno e di come avrebbe finito per pervertire l'ideale del libero mercato. Lo stesso vale per Mises. Il loro sostegno al commercio globale era condizionato dall'idea che l'interferenza dello stato fosse sempre la radice dei problemi.

Non hanno tenuto conto della sfumatura dei confini tra aziende, stati e ONG, del governo ombra delle multinazionali di Davos e della manipolazione dei mercati in nome del “libero scambio”. Non avrebbero nemmeno potuto immaginare la creazione di organizzazioni come l'FMI, la Banca Mondiale, la BRI, ecc., all'epoca in cui elaborarono le loro teorie economiche.

Dopo la conferenza di Bretton Woods, Mises avrebbe continuato a mettere in discussione le motivazioni del nuovo “ordine globale” e degli accordi commerciali in vigore. Si sarebbe anche opposto ad alcuni aspetti del globalismo prima della sua morte, lasciando gli Austriaci a dibattere sui meriti del “globalismo buono” e del “globalismo cattivo”.

La realtà è che non esiste un “globalismo buono”. Non esiste perché le entità che dettano il commercio globale colludono invece di competere. Non sono realmente interessate al libero mercato, sono interessate al monopolio globale. E le multinazionali sono la chiave di questo monopolio.

Adam Smith criticò l'idea di “società per azioni” (corporation), ma molti Austriaci e anarco-capitalisti difendono le società internazionali come se fossero un'evoluzione del progresso del libero mercato. Non è così. Le multinazionali (e le banche centrali) sono costrutti socialisti, autorizzati dagli stati e dotati di una protezione speciale. La loro immunità alle restrizioni costituzionali serve gli interessi statali e i cavilli legali statali servono gli interessi delle multinazionali.

Questo è l'opposto del libero mercato. Lo ripeto: nelle condizioni attuali i conglomerati globali NON sono organizzazioni di libero mercato. Lo distruggono, invece, utilizzando partnership starali per eliminare la concorrenza.

Il COVID e l'ascesa della propaganda woke negli Stati Uniti sono esempi perfetti della collusione tra aziende e stati per istituire l'ingegneria sociale e cancellare la libera partecipazione economica. Chiunque non sospetti di queste entità dopo tutto quello che è successo, a questo punto è irrecuperabile.

Queste aziende agiscono anche come sifoni di ricchezza: risucchiano denaro dei consumatori in un Paese solo per depositarlo in altri Paesi invece di reinvestire quella ricchezza (dopo la sua spartizione) nell'economia da cui dipendono per le vendite. In altre parole, le multinazionali agiscono come una sorta di macchina di ridistribuzione della ricchezza che sottrae denaro e posti di lavoro agli americani e li distribuisce in tutto il mondo a scapito degli stessi americani.

In qualità di intermediari di questo schema di ridistribuzione della ricchezza, le aziende generano enormi profitti, mentre le persone su entrambe le estremità dello scambio ricevono ben poco in cambio. Il Messico potrebbe sembrare avvantaggiato dagli squilibri commerciali del NAFTA, ma non è così: il popolo messicano e il suo tenore di vita godono di benefici minimi; le aziende che lo sfruttano per la manodopera ne traggono il vantaggio, insieme ad alcuni funzionari statali corrotti.

A sua volta il PIL degli Stati Uniti e la nostra presunta ricchezza nazionale continuano ad aumentare grazie alle multinazionali. Ma la maggior parte di questo aumento di ricchezza non finisce nelle tasche degli americani, bensì in quelle dello 0,0001% delle élite. Più a lungo persiste la globalizzazione, più ampio diventa il divario di ricchezza. Questo è un fatto innegabile e credo che la maggior parte delle persone, sia a sinistra che a destra, concordi su questo punto, ma nessuno vuole prendere decisioni difficili e intervenire.

La sinistra pensa che la soluzione sia un apparato statale più grande e una maggiore regolamentazione. I conservatori pensano che la soluzione sia un apparato statale più piccolo e meno regolamentazione. I conservatori sono più vicini al punto, ma nessuna delle due soluzioni affronta il problema fondamentale della collusione tra stati e conglomerati.

Tenete presente che gli Stati Uniti hanno applicato dazi per centinaia di anni. La parola con la “D” non è diventata una brutta parola fino alla creazione delle società per azioni, del sistema della Federal Reserve e dell'imposta sul reddito.

Quindi concordo con i miei amici economisti della Scuola Austriaca su quasi tutto, ma quando si lamentano dei dazi di Trump, devo ricordare loro che la situazione non è così semplice come rissunto dalla formuletta “l'interferenza statale è dannosa”. Il sistema attuale ha bisogno da tempo di una correzione di rotta e il libertarismo fiscale non la fornirà. Pensano di difendere il libero mercato, ma non è così.

Un altro problema chiave del globalismo è l'interdipendenza forzata. Se ogni nazione produce un'ampia quantità delle proprie risorse necessarie, ha una creazione di posti di lavoro interni resiliente e decide di scambiare beni in eccesso tra di esse, allora i mercati globali hanno senso. Ma cosa succede quando ogni nazione è costretta, attraverso accordi commerciali, a fare affidamento su ogni altra nazione per i bisogni economici fondamentali della propria popolazione?

Allora dobbiamo riesaminare il valore del globalismo in generale.

L'interdipendenza economica internazionale è una forma di schiavitù, soprattutto quando sono coinvolte aziende e intermediari delle ONG. Solo la ridondanza delle risorse e il localismo promuovono veri mercati liberi e libertà individuale. I dazi possono contribuire a stimolare la produzione e il commercio locali e a rendere le comunità più autosufficienti. Detto questo, ci sarà un costo.

I paragoni tra Donald Trump e Herbert Hoover sono dilaganti e risalgono al 2016. Durante il primo mandato di Trump, avevo lanciato l'allarme: l'accelerazione del declino fiscale e la crescente stagflazione avrebbero potuto essere scaricati sulle sue spalle e attribuiti alle linee di politica dei conservatori. In altre parole, l'anti-globalizzazione sarebbe stata ritenuta responsabile della distruzione finanziaria causata dai globalisti. Continuo a credere che questo programma sia ancora in atto.

Hoover fu accusato di aver aggravato la Grande Depressione con i suoi dazi Smoot-Hawley. In realtà, la Grande Depressione si diffuse a causa di una serie di decisioni politiche delle principali banche e di aumenti dei tassi da parte della Federal Reserve (l'ex-presidente della FED, Ben Bernanke, lo ammise apertamente nel 2002). All'epoca non importava chi ne fosse la causa: Hoover era presidente e quindi era il capro espiatorio.

La stessa situazione potrebbe verificarsi per Trump se non sta attento, e tutti i conservatori ne saranno incolpati per estensione. È importante ricordare che la produzione statunitense è stata indebolita da decenni di interferenze statali a sostegno della globalizzazione, insieme a un potere aziendale incontrastato. Limitare le aziende con i dazi non sarà sufficiente: devono anche esserci incentivi per invertire i danni causati da decenni di corruzione statale.

Non riesco a pensare ad altro modo per ricostruire la base produttiva americana abbastanza rapidamente da contrastare gli inevitabili aumenti di prezzo che deriveranno dai dazi. Sconfiggere l'inflazione richiederebbe uno sforzo nazionale senza precedenti per rilanciare la produzione manifatturiera, specificatamente per i beni di prima necessità. I ​​dazi da soli non basteranno a farlo.

Abbiamo bisogno di beni di consumo, energia e immobili ORA, non tra diversi anni. Altrimenti, a lungo termine, i dazi non faranno che peggiorare la situazione. I libertari hanno ragione a mettere in guardia dagli effetti negativi sui consumatori americani, ma la soluzione non è lasciare che le aziende facciano ciò che vogliono e che il globalismo continui incontrastato. La soluzione è spezzare il globalismo e tornare a un modello di indipendenza nazionale.

Infine c'è la questione del dollaro e del suo status di valuta di riserva mondiale. Dopo Bretton Woods, il tacito accordo prevedeva che l'America avrebbe agito come pilastro militare del mondo occidentale (e a quanto pare come la vacca da mungere da parte dei consumatori del mondo). In cambio gli Stati Uniti avrebbero goduto dei vantaggi derivanti dal possedere la valuta di riserva mondiale.

Quali vantaggi? In particolare il dollaro avrebbe potuto essere stampato ben oltre qualsiasi altra valuta per decenni senza subire gli effetti immediati dell'iperinflazione, poiché la maggior parte di quei dollari sarebbe stata detenuta all'estero. Lo scioglimento della NATO e una guerra commerciale potrebbero innescare la fine di questo accordo. Ciò significa che tutti quei dollari detenuti in banche estere potrebbero riversarsi negli Stati Uniti e causare un'inflazione.

Lo status di riserva è stato a lungo il tallone d'Achille degli Stati Uniti e prima o poi dovrà finire. Basti pensare che i globalisti si stanno preparando a questo cambiamento almeno dal 2008 con i DSP e le CBDC. La scorsa settimana l'UE ha annunciato che distribuirà CBDC al dettaglio entro la fine dell'anno. Sanno cosa sta per succedere. Una guerra commerciale richiederà non solo all'amministrazione Trump di agevolare l'aumento della produzione interna, ma anche di promuovere un nuovo sistema monetario basato sulle materie prime per proteggersi dalla caduta del dollaro.

Nel frattempo i singoli cittadini e comunità dovranno prepararsi al crollo della globalizzazione. Ciò significa produzione locale di beni, commercianti al dettaglio che cercano fornitori locali, persone che scambiano beni e servizi attraverso reti di baratto, ecc. I leader politici dovrebbero valutare l'introduzione di titoli garantiti da materie prime per compensare qualsiasi potenziale danno al dollaro. Dovrebbero anche sfruttare maggiori risorse naturali per migliorare l'industria locale.

C'è molto da fare e poco tempo per farlo.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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