mercoledì 18 dicembre 2024

David Hume ci insegna a non perdere la testa

Ricordo a tutti i lettori che su Amazon potete acquistare, o regalare visto che siamo in prossimità del Natale, il mio nuovo libro, “Il Grande Default”: https://www.amazon.it/dp/B0DJK1J4K9 

Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato "fuori controllo" negli ultimi quattro anni in particolare. Questa è una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa è la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso è accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.

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di Barry Brownstein

(Versione audio della traduzione disponibile qui)

La sera delle elezioni l'allora caporedattrice di Scientific American, Laura Helmuth, ha scritto sulla piattaforma BlueSky un post delirante.

La Helmuth non è l'unica ad aver perso la testa. I suoi difetti fin troppo umani mettono ognuno di noi di fronte a un bivio: reagiremo con scherno o impareremo dal suo errore?

Perché la Helmuth, che nel frattempo si è dimessa, ha messo a rischio la sua carriera con un tale scatto di rabbia? Mentre anche altri erano sconvolti, non hanno fatto ricorso a tali estremi.

Immaginatevi David Hume, il filosofo scozzese del XVIII secolo, seduto con la Helmuth. Potrebbe chiederle gentilmente perché fosse iper-concentrata nel difendere la sua identità di odiatrice di Trump; perché desse un'importanza cardinale a un tale flusso di pensieri.

Hume potrebbe chiederle cosa la rende lei. Hume, nonostante i suoi sforzi, non riuscì a scoprire un sé unificato. Ciò che scoprì furono sentimenti e percezioni discreti. Hume si chiese dove fosse il “me” che sperimenta quei sentimenti e quelle percezioni.

Nel suo A Treatise of Human Nature troviamo uno dei suoi passaggi più celebri:

Da parte mia, quando entro più intimamente in ciò che chiamo me stesso, inciampo sempre in una percezione particolare o in un'altra, di caldo o freddo, luce o ombra, amore o odio, dolore o piacere. Non riesco mai a cogliermi in nessun momento senza una percezione, e non riesco mai a osservare niente se non la percezione.

Hume comprese che “la mente è una specie di teatro, dove diverse percezioni compaiono in successione; passano, ripassano, scivolano via e si mescolano in un’infinita varietà di posture e situazioni”.

Con perspicacia, sosteneva che la nostra identità è costruita attraverso i tentativi di unificare le nostre diverse percezioni. Le nostre storie su chi siamo si trasformano in una prigione auto-costruita con confini che limitano notevolmente le nostre scelte. Ad esempio, una persona che prova sentimenti di rabbia associati alle sue percezioni potrebbe definirsi una persona arrabbiata; identificarsi come tale è un modo per eludere la responsabilità delle proprie azioni.

Hume fece dell'auto-indagine una pratica regolare. Un semplice esercizio può attivare la vostra facoltà di metacognizione. Immaginate di essere seduti in un teatro dove il personaggio che chiamate me sta facendo le sue buffonate sul palco. Hume ci indica questo: se possiamo essere consapevoli delle nostre buffonate, pensieri, sentimenti e percezioni, dobbiamo essere più di tutte queste cose.

Istintivamente associamo il personaggio sul palco al nostro vero sé. Hume sfidò questa nozione ponendosi questa domanda: “Cosa ci dà una così grande propensione ad attribuire un'identità a queste percezioni e a supporre di possedere un'esistenza invariabile e ininterrotta per tutto il corso delle nostre vite?”

La risposta è la nostra mente immaginativa e narrativa. Essa è programmata per unificare le nostre diverse percezioni in un concetto di sé. Immaginiamo oggetti e pensieri che accadono in una sequenza ininterrotta. Tutti noi, osservò Hume, “abbiamo un'idea distinta di un oggetto, la quale rimane invariabile e ininterrotta attraverso una presunta variazione del tempo; e questa idea la chiamiamo identità o uguaglianza”.

Per stabilizzare l’identità che creiamo, spiega Hume, “fingiamo l’esistenza continuata delle percezioni dei nostri sensi”.

Anche qui un semplice esercizio di auto-osservazione può convalidare l'intuizione di Hume. Pensate a un risentimento che covate, per mantenerlo vivo dovete tornare coi vostri pensieri a questa emozione. Nel momento in cui ignorate tali pensieri, il risentimento svanisce e smette di definire la vostra identità.

Ciononostante alcune persone sono riluttanti a rinunciare ai rancori che sono stati incorporati nella loro identità. Si aggrappano a essi per tutta la loro vita, perché non riescono a immaginare chi sarebbero senza di essi.

L'intuizione di Hume non è applicabile solo ai torti, ma anche a qualsiasi disturbo mentale su cui indugiamo ripetutamente. Allenare la nostra mente ad andare oltre i limiti della rigida identità che creiamo è una pratica saggia.

In tutte le sue auto-indagini Hume scoprì che “non esiste un'impressione costante e invariabile. Dolore e piacere, afflizione e gioia, passioni e sensazioni si susseguono, e non esistono mai tutti contemporaneamente”.

Il consiglio di Hume per Helmuth e il resto di noi potrebbe essere di uscire, fare una passeggiata, godersi il partner, i figli, gli amici e i vicini. Scoprirete che il vostro risentimento è sparito.

Quest'ultimo riapparirà solo quando sceglieremo di ripensarci. La nostra convinzione è una fabbricazione; la nostra libertà emotiva sta nel riconoscere che possiamo lasciar andare i nostri risentimenti. Non è forse un sollievo?

Purtroppo la libertà emotiva potrebbe non essere alla nostra portata. Nonostante gli errori che possiamo riportare alla mente, raddoppiamo la posta. Hume ci fornisce una metafora chiara per l'arroganza intellettuale: 

Mi sembra di essere come un uomo che, dopo essersi imbattuto in molte secche ed essere scampato per un pelo al naufragio passando davanti a un piccolo porto, ha tuttavia la temerarietà di prendere il largo con la stessa nave malconcia e rovinata dalle intemperie, e spinge persino la sua ambizione al punto di pensare di fare il giro del globo in queste circostanze sfavorevoli.

Hume non ci stava prendendo in giro quando scrisse: “Quando rivolgo lo sguardo all'interno, non trovo altro che dubbio e ignoranza”. Non solo, ma si chiese: “Con quale fiducia posso avventurarmi in imprese così audaci quando oltre alle innumerevoli infermità peculiari a me stesso, ne trovo altrettante che sono comuni alla natura umana?”

Non sorprende che Hume fosse un uomo umile. Di sé stesso scrisse: “Il ricordo dei miei errori e delle mie perplessità passate mi rende diffidente nei confronti del futuro. La condizione miserabile, la debolezza e il disordine delle facoltà che devo impiegare nelle mie indagini accrescono le mie apprensioni”.

“Se acconsentiamo a ogni banale suggerimento della fantasia, essi sono spesso contrari tra loro; ci conducono in talmente tanti errori, assurdità e oscurità che alla fine dovremo vergognarci della nostra credulità”.

Quanto siamo creduloni a credere al nostro flusso di pensieri? Quanto saremmo imbarazzati se gli altri potessero leggere nella nostra mente e vedere che stiamo difendendo un concetto di noi stessi nato dalla fede nell'accuratezza delle nostre percezioni?

Le impressioni passeggere possono condurci fuori strada. La guida di cui abbiamo bisogno si trova nei principi e nei valori. Hume era giunto alla conclusione di trovarsi “a disagio nel pensare di approvare un oggetto e disapprovarne un altro; chiamare una cosa bella e un'altra deforme; decidere sulla verità e la falsità, la ragione e la follia, senza sapere su quali principi procedere”.

Hume era notevolmente avanti di 250 anni rispetto alla scienza. Il neuropsicologo e professore Chris Niebauer scrive: “Scambiare la voce nella nostra testa per una cosa ed etichettarla come 'io' ci porta in conflitto con le prove neuropsicologiche che dimostrano che non esiste una cosa del genere”.

Se permettiamo ai nostri pensieri di definirci, la voce nella nostra testa ci dominerà come un sovrano oppressivo. Niebauer continua: “Potremmo arrabbiarci, offenderci, eccitarci sessualmente, essere felici o spaventati, e non metteremo in dubbio l'autenticità di questi pensieri ed esperienze”.

Hume ci aiuta a realizzare che “non esiste un'impressione costante e invariabile”, perché potremmo non interpretare correttamente il nostro mondo. Con questa comprensione, possiamo raggiungere la libertà interiore ed evitare di essere travolti da impulsi irrazionali.

Se le persone capissero che ogni loro pensiero fantasioso non è un invito all'azione, la febbre del Paese non diminuirebbe?


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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