martedì 15 ottobre 2024

Perché Marx si sbagliava su lavoratori e salari

 

 

di Allen Gindler

Uno dei principi fondamentali del marxismo è la teoria del valore-lavoro, la quale afferma che il valore di una merce è determinato dalla quantità di tempo e lavoro socialmente necessario per produrla. In questo contesto il lavoro stesso diventa una merce, qualcosa che può essere acquistato e venduto sul mercato. Marx sostiene che, nel capitalismo, i lavoratori sono costretti a vendere la loro forza lavoro ai capitalisti, sfruttati perché pagati a salari inferiori rispetto al valore pieno prodotto dal loro lavoro. Questa differenza, o “plusvalore”, viene sottratta dal capitalista tramite il profitto. Questa analogia tra lavoro e merci, però, rivela profondi difetti quando esaminata criticamente.

L'idea che il lavoro sia una merce è stata criticata nelle opere di molti importanti economisti, sia della Scuola Austriaca che da altri. Friedrich Hayek, nel suo libro The Road to Serfdom (1944), offre un'ampia critica della pianificazione economica socialista, includendo anche il trattamento marxista del lavoro come merce. La critica di Hayek al marxismo sostiene che esso porta alla centralizzazione del potere, dove lo stato controlla il lavoro e altri aspetti dell'economia. Trattare il lavoro come una merce controllata all'interno di un'economia pianificata mina la libertà individuale e porta a una forma di “servitù della gleba”.

Secondo Hayek la libertà economica, inclusa la libertà di scegliere il proprio lavoro e negoziare i salari, è essenziale per la libertà politica. La sua critica implica che l'approccio marxista al lavoro è fondamentalmente imperfetto e pericoloso per la libertà individuale.

Karl Polanyi, nella sua opera The Great Transformation (1944), introduce il concetto di “merci fittizie” per descrivere cose come lavoro, terra e denaro, trattate come merci in un'economia di mercato ma non veramente tali nel senso tradizionale. Polanyi sostiene che il lavoro è una “merce fittizia”, perché non è prodotta per la vendita ma è un aspetto intrinseco della vita umana.

Critica anche la mercificazione del lavoro, perché riduce gli esseri umani a meri input nel processo di produzione, ignorandone il significato sociale e morale. Sostiene, poi, che trattare il lavoro come una merce è innaturale e dannoso, e porta alla disintegrazione sociale e allo sfruttamento.

Ludwig von Mises, nella sua opera Human Action (1949), critica il concetto marxista del lavoro come merce dal punto di vista della Scuola Austriaca. Egli sostiene che il lavoro non può essere trattato come un qualsiasi altro bene o servizio, perché è intrinsecamente legato alla scelta e all'azione umana. Mises dice che il lavoro è un'espressione di preferenze e valori individuali, e che non possono essere ridotti a un prezzo di mercato. Critica l'economia marxista per non aver riconosciuto la natura soggettiva del valore, sostenendo che il lavoro non è una merce omogenea e varia a seconda dell'individuo e del contesto.

L'enfasi di Mises sulla scelta individuale e sulla teoria soggettiva del valore ci suggerisce che il trattamento del lavoro da parte di Marx come merce è una semplificazione eccessiva, e che ignora la complessità del comportamento umano e delle relazioni economiche.


Lo strano caso del lavoro come merce

Secondo Marx la forza lavoro è trattata come una merce che i lavoratori vendono in cambio di salari, ma questa merce è diversa da qualsiasi altra. Marx stesso riconosce che la forza lavoro è unica, perché è legata direttamente agli esseri umani; non può essere separata dalla persona che la fornisce. Questo legame intrinseco tra lavoro e lavoratore crea diverse contraddizioni nella teoria marxista.

In primo luogo, se la forza lavoro è una merce, è davvero molto strana. Secondo Marx questa merce è sempre venduta al di sotto del suo valore. In altre parole, i lavoratori vendono costantemente la loro capacità di lavorare a un prezzo inferiore rispetto al suo valore, generando plusvalore per il capitalista. Ma questo aspetto solleva una domanda fondamentale: se il lavoro è una merce, perché è l'unica merce che viene costantemente venduta al di sotto del suo costo? In qualsiasi altro mercato vendere una merce al di sotto del suo valore sarebbe considerata una pratica commerciale insostenibile, la cui unica conclusione è la bancarotta. Eppure nella teoria di Marx questo non solo è comune, ma necessario per il funzionamento del capitalismo.

Questa nozione implica che i lavoratori siano degli “imprenditori stupidi”, i quali vendono ogni giorno la loro merce, il lavoro, in perdita. Questa caratterizzazione non è solo degradante, ma anche illogica. È difficile concepire una qualsiasi persona razionale, per non parlare di un’intera classe di esse, che si impegna costantemente in una pratica economica talmente controproducente.

In altre parole, se accettiamo la premessa che la forza lavoro è una merce, allora dobbiamo anche accettare che i lavoratori accolgono sistematicamente un valore inferiore a quello di mercato per il loro prodotto. Ciò va contro i principi economici di base, in cui i venditori cercano di massimizzare il prezzo che ricevono per i loro beni o servizi. L'idea che un'intera classe di persone venderebbe volontariamente il proprio lavoro al di sotto del suo valore sfida la logica e mina la credibilità della teoria marxista.

Per illustrare l'assurdità del lavoro-merce, si consideri l'esempio di un idraulico. Egli possiede i propri strumenti e opera in modo indipendente, non vende la propria forza lavoro a un capitalista. Fornisce un servizio direttamente ai clienti e addebita una tariffa per il proprio lavoro. In questo scenario l'idraulico è sia il proprietario dei mezzi di produzione (i propri strumenti e competenze) sia il fornitore del servizio; controlla il prezzo della propria manodopera e le condizioni in cui lavora.

Tuttavia, secondo la teoria marxista, questo idraulico venderebbe la propria forza lavoro al di sotto del suo valore, anche se stabilisse le proprie tariffe e condizioni di lavoro. Non ha molto senso. L'idraulico, agendo come “capitalista” di sé, cercherebbe di applicare un prezzo che copra i propri costi e fornisca un margine di profitto. Non c'è ragione per cui la propria forza lavoro debba essere venduta al di sotto del suo valore, e il concetto di plusvalore diventa irrilevante in questo contesto. L'idraulico non è un “imprenditore”, ma un attore di mercato razionale che stabilisce i prezzi in base al valore del proprio lavoro.


L'esperienza socialista: manodopera sottocosto

I marxisti sostengono che lo sfruttamento del lavoro è insito nel capitalismo e che il socialismo lo correggerebbe abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione. Tuttavia l'esperienza dei regimi socialisti, come l'Unione Sovietica, la Cina sotto Mao e Cuba, racconta una storia diversa.

Anche in queste società marxiste i lavoratori continuavano a vendere la loro forza lavoro in cambio di salari. Lo stato, piuttosto che i capitalisti, controllava i mezzi di produzione e determinava la distribuzione del plusvalore. Tuttavia ciò non eliminò la critica marxista secondo cui il lavoro veniva venduto al di sotto del suo valore. Infatti i marxisti sostenevano che lo sfruttamento da loro denunciato andava avanti, con lo stato che agiva come capitalista e appropriandosi del plusvalore dei lavoratori.

Se i lavoratori in un ambiente socialista continuano a vendere il loro lavoro al di sotto del suo valore, allora il marxismo è un fallimento non solo come critica al capitalismo, ma anche come guida per costruire una società senza classi. La persistenza di questa dinamica anche col socialismo suggerisce che il marxismo è profondamente fallace, sia nella teoria che nella pratica.


Il marxismo come sofisma

L'intero quadro marxista si basa sulla premessa che il lavoro è una merce. Se il lavoro non è una merce, la coerenza logica del marxismo crolla perché i suoi concetti chiave (plusvalore, sfruttamento, contraddizioni del capitalismo e inevitabilità della rivoluzione socialista) perdono il loro fondamento.

Se il lavoro non è una merce, allora:

Il plusvalore non può essere calcolato nel modo descritto da Marx, il che indebolisce il concetto di sfruttamento capitalista;

Lo sfruttamento dei lavoratori, come lo definì Marx, non può aver luogo se dal lavoro non viene estratto alcun plusvalore;

La contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione potrebbe non esistere nella forma teorizzata da Marx, eliminando la forza trainante dietro il cosiddetto crollo del capitalismo;

La giustificazione di una rivoluzione socialista risulta indebolita, poiché il proletariato non subisce lo sfruttamento cronico che, secondo Marx, porta a un cambiamento rivoluzionario.

L'affidamento del marxismo alla premessa fallace del lavoro-merce lo priva delle sue fondamenta. Dati i difetti teorici e pratici del marxismo, è ragionevole concludere che esso funziona come una forma di sofisma nella teoria socio-economica. Il sofisma si riferisce a un argomento che appare plausibile in superficie, ma è fondamentalmente fuorviante e in ultima analisi inattuabile. Il marxismo si adatta bene a questa definizione.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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