mercoledì 7 agosto 2024

Un manuale sul valore — per chi investe e non investe

 

 

di Thorsten Polleit

“Il valore è [...] l’importanza che singoli beni, o quantità di beni, hanno ai nostri occhi, perché siamo consapevoli di dipendere da essi per la soddisfazione dei nostri bisogni.”[1]

Il concetto di “valore” è l’elemento centrale di una teoria generale del comportamento umano, trascende i confini tradizionali della scienza economica.

Il valore è un concetto soggettivo – il che significa: il valore sta negli occhi di chi guarda; non esiste un “valore oggettivo”.

I beni o le cose (libri, mele, computer, ecc.) non hanno valore di per sé. È sempre l'individuo che attribuisce loro valore (o meno).

Il valore non è un concetto inventato artificialmente, è invece una categoria dell'azione umana ed è un concetto prasseologico (o una logica dell'azione umana).

L'azione umana significa, in generale, sostituire uno stato di cose a un altro stato di cose, che si prevede sarà più vantaggioso per l'attore di mercato.

È un fatto primordiale che gli esseri umani agiscano.

E l’affermazione “l’essere umano agisce” non può essere negata senza provocare una contraddizione logica, cioè dire qualcosa di falso.

L’affermazione “l’essere umano agisce” è apoditticamente vera, è un a priori (nel senso kantiano): la negazione di un’affermazione a priori ne presuppone la validità.

Se dite qualcosa del tipo: “Dai, gli esseri umani non agiscono”, allora agite, dimostrando la verità della stessa affermazione che desiderate negare.

Dall’affermazione apoditticamente vera “l’essere umano agisce” possiamo dedurre altre affermazioni vere.

Ad esempio, l'azione umana implica che il comportamento di un attore di mercato abbia uno scopo, che sia diretto verso obiettivi. Anche questa affermazione non può essere negata senza causare una contraddizione logica.

Un attore di mercato deve impiegare i mezzi per raggiungere i suoi fini. L'azione senza mezzi è logicamente impossibile da immaginare.

L'azione umana implica che l'attore di mercato abbia scelto consapevolmente determinati mezzi per raggiungere i suoi obiettivi.

E poiché l'attore di mercato desidera raggiungere questi obiettivi (qualunque essi siano), devono essere preziosi ai suoi occhi e di conseguenza deve avere un set di valori che governa le sue scelte.

Inoltre ogni scopo dell'azione umana dev'essere considerato superiore al suo costo e capace di produrre un profitto (risultato il cui valore è superiore a quello dell'opportunità mancata).

E che ogni azione è anche invariabilmente minacciata dalla possibilità di una perdita se un attore di mercato scopre in retrospettiva che, contrariamente alle sue aspettative, il risultato raggiunto ha un valore inferiore a quello che avrebbe avuto l’alternativa a cui ha rinunciato.

Per ribadire: il valore è un concetto prasseologico e questa affermazione non può essere contestata senza causare una contraddizione logica (e quindi dire qualcosa di falso).

In questo contesto è facile capire cosa succede in uno scambio volontario. Considerate il caso in cui acquistate, ad esempio, 1 Krugerrand per $3.000 l'oncia nel vostro negozio di monete preferito, gestito da Mr. Rich.

In una transazione del genere cederete qualcosa che considerate meno prezioso ($3.000) rispetto a qualcosa che apprezzate di più (1 Krugerrand).

Allo stesso modo Mr. Rich riceve qualcosa che apprezza di più ($3.000) rispetto alla cessione di qualcosa (1 Krugerrand) che apprezza di meno.

Lo scambio volontario avvantaggia voi e Mr. Rich. Non è un gioco a somma zero (ovvero, una persona trae vantaggio a scapito di un’altra). Anzi!

Lo scambio volontario è vantaggioso per entrambe le parti coinvolte, aumentando così il loro stato di soddisfazione rispetto a una situazione in cui non si sarebbe affatto svolto lo scambio volontario.

Va sottolineato che lo scambio volontario non avviene per volontà di armonia da parte vostra e di Mr. Rich. Avviene a causa di scale di valore opposte: voi volevate 1 Krugerrand in cambio di $3.000 mentre Mr. voleva $3.000 in cambio di 1 Krugerrand.

Lo scambio volontario ha portato ad un risultato pacifico e reciprocamente vantaggioso. Non è meraviglioso?

Affrontiamo ora più nel dettaglio la questione del “valore” e dell'”utilità”.

Si assegna valore alle cose perché ne si trae la cosiddetta utilità (possedendole, vedendole, toccandole, mangiandole, ecc.).

Il valore e l’utilità non possono essere misurati.

Potete misurare, ad esempio, una distanza in metri o miglia, o un peso in grammi o libbre, o una temperatura in gradi Celsius o Fahrenheit. In questi casi abbiamo a che fare con grandezze estese e sono aperte ai numeri cardinali.

Valore e utilità, invece, non sono grandezze estensive, ma intensive. Possono essere concettualizzati solo in termini ordinali (ma non in termini cardinali) come “più è meglio che meno” o “mi piace A più di B”.

Un attore che assegna valore alle cose (e ne trae utilità) significa che le classifica in base a una “scala di valori”.

Tutto ciò che un attore di mercato può dire è “mi piace A più di B”, oppure “mi piace C meno di D”. Non può dire “mi piace A due volte più di B”, o “mi piace C cinque volte meno di D”. Dirlo non avrebbe senso.

Inoltre il valore soggettivo non può essere confrontato tra persone diverse.

Come notato in precedenza, il valore e l'utilità associata non possono essere misurati, possono solo essere classificati sulla scala ordinale di un individuo.

In questo contesto è importante ricordare la legge dell’utilità marginale decrescente (anch'essa può essere derivata dalla logica dell’azione umana ed è quindi un a priori).

Cosa dice la legge dell’utilità marginale decrescente? Murray N. Rothbard (1926–1995) ce lo spiega:

Ci sono [...] due leggi dell’utilità, entrambe derivanti dalle condizioni apodittiche dell’azione umana: in primo luogo, data la dimensione di un’unità di bene, l’utilità (marginale) di ciascuna unità diminuisce all’aumentare dell’offerta; in secondo luogo, l’utilità (marginale) di un’unità di dimensioni maggiori è superiore all’utilità (marginale) di un’unità di dimensioni inferiori. La prima è la legge dell’utilità marginale decrescente; la seconda è stata chiamata legge dell’utilità totale crescente. Il rapporto tra le due leggi e tra gli elementi considerati in entrambe è puramente di rango, cioè ordinale.

Per illustrare la spiegazione di Rothard della legge dell'utilità marginale decrescente, si consideri la seguente scala di valori di un attore di mercato (ad esempio, Mr. Schulz):

Scala dei Valori[2]

3 uova

2 uova

1 uovo

2° uovo

3° uovo
Quanto più in alto si trova un elemento in questa scala individuale per le uova, tanto più alto sarà il valore. Per la seconda legge 3 uova hanno un valore più alto di 2 uova e 2 uova hanno un valore più alto di 1 uovo.

Per la prima legge, invece, il 2° uovo sarà classificato sotto il primo uovo sulla scala dei valori[3] e il 3° uovo sotto il 2° uovo.

Non esiste alcuna relazione matematica tra, ad esempio, l'utilità marginale di 3 uova e l'utilità marginale del terzo uovo, tranne per il fatto che la prima è maggiore della seconda.

Diamo una breve occhiata a un altro esempio di scala di valori di un attore di mercato: Mr. Smith ha dieci obiettivi che desidera raggiungere, classificati sulla linea verticale nel grafico qui sotto. Il suo scopo più importante è mostrato in cima alla linea verticale (1) e quello meno importante in basso (10). L'asse orizzontale mostra il numero di mezzi (unità) disponibili per raggiungere i suoi scopi.

La scala di valori di Mr. Smith (dieci scopi, sei mezzi)

Se Mr. Smith ottiene, diciamo, sei unità di mezzo (ad esempio, unità monetarie) per soddisfare i suoi scopi, allora i primi 6 fini possono essere soddisfatti mentre quelli classificati da 7 a 10 rimangono insoddisfatti.

La prima unità dei suoi mezzi va a soddisfare il fine 1, la seconda unità il fine 2, ecc. La sesta unità viene utilizzata per soddisfare il fine 6.

Il diagramma illustra ciò che dice la legge dell'utilità marginale decrescente: l'utilità (valore) di più unità è maggiore dell'utilità di meno unità (poiché più unità aiutano a raggiungere più obiettivi) e l'utilità di ciascuna unità successiva diminuisce all'aumentare della loro quantità.

Supponiamo ora che Mr. Smith debba rinunciare a un'unità dei suoi mezzi. Con 5 unità può soddisfare solo 5 dei suoi 10 scopi. Data l'intercambiabilità (presunta in questo esempio) delle unità, rinuncia a soddisfare il 6° fine classificato e continua a soddisfare i fini più importanti dall'1 al 5.

La cosa importante è: l'attore di mercato rinuncia al bisogno di rango più basso che lo stock originale (in questo caso sei unità) era in grado di soddisfare.

Questa è chiamata unità marginale, o unità al margine. Questo fine meno importante raggiunto dalle azioni è noto come la soddisfazione fornita dall’unità marginale, o l’utilità dell’unità marginale. Nel grafico sopra l'utilità marginale è classificata al 6° posto tra i fini.

Finora abbiamo preso in considerazione i beni di consumo, ma che dire dei cosiddetti beni di produzione – beni che vengono prodotti e poi utilizzati per produrre beni di consumo e/o altri beni di produzione?

I beni di produzione (quei fattori che cooperano alla produzione di beni di consumo) non hanno alcuna connessione immediata con la soddisfazione dei bisogni umani. Tuttavia attraverso il processo di produzione incidono indirettamente sul processo di soddisfazione di tali bisogni.

L'imprenditore tenterà di impiegare un bene/fattore di produzione al prezzo che sarà inferiore al suo prodotto a valore marginale. Quest'ultimo è il ricavo monetario che può essere attribuito, o “imputato”, a un’unità del bene di produzione.

Il punto importante è: il valore di un bene di consumo (dal punto di vista dei consumatori) è imputato ai beni di produzione impiegati nella sua creazione, perché questi ultimi sono una causa necessaria, anche se indiretta, della soddisfazione che è direttamente attribuibile alla quantità di beni di consumo.

Supponiamo, ad esempio, che un’impresa combini i fattori nel modo seguente:

4X + 10Y + 2Z → 100 once d'oro

Quattro unità di X più 10 unità di Y più due unità di Z producono un prodotto che può essere venduto per 100 once d'oro.

Supponiamo ora che l’imprenditore stimi che quanto segue accadrebbe se un’unità di X venisse eliminata:

3X + 10Y + 2Z → 80 once d'oro

La perdita di un'unità di X, a parità di altri fattori, comporta la perdita di 20 once d'oro di entrate lorde.

Questo, quindi, è il prodotto a valore marginale dell'unità in questa posizione e con questo utilizzo.

Possiamo anche invertire questo processo. Supponiamo che l'impresa produca nelle ultime proporzioni e raccolga 80 once d'oro. Se aggiunge una quarta unità di X alla sua combinazione, mantenendo costanti le altre quantità, guadagna 20 once d'oro in più. Quindi anche in questo caso il prodotto a valore marginale di questa unità è di 20 once d'oro.

In quest'ultimo esempio, un produttore sarebbe disposto a pagare fino a 20 once d’oro per un’unità di X, ovvero il prodotto a valore marginale di X.

Passiamo ora al denaro e chiediamoci: e il valore del denaro?

Il denaro è un bene come un altro. È “speciale” solo nel senso che ha la massima commerciabilità/liquidità.

Essendo un bene come qualsiasi altro, il valore della moneta (dal punto di vista individuale) rientra nella legge dell'utilità marginale decrescente (la legge economica delineata in precedenza).

Tenendo presente questo punto, possiamo capire cosa succede se il numero di unità monetarie nelle mani di un singolo attore di mercato aumenta: l’utilità marginale dell’unità monetaria diminuisce.

E cosa succede se si verifica un aumento della quantità di moneta nell’economia nel suo complesso? Ludwig von Mises (1881–1973) ci dà la risposta:

Un aumento dello stock di moneta in una determinata comunità significa sempre un aumento della quantità di moneta detenuta da un certo numero di agenti economici, siano essi coloro che emettono la moneta fiat, o il credito, o i produttori della sostanza di cui è fatta la moneta-merce. Per queste persone il rapporto tra la domanda di moneta e la sua disponibilità è alterato; hanno una eccedenza di denaro e una carenza di altri beni economici. La conseguenza immediata di entrambe le circostanze è che per loro l’utilità marginale dell’unità monetaria diminuisce. Ciò influenza necessariamente il loro comportamento sul mercato. Sono in una posizione più forte come acquirenti. Esprimeranno sul mercato la loro domanda per gli oggetti che desiderano in modo più intenso di prima; sono in grado di offrire più denaro per le merci che desiderano acquistare. La conseguenza evidente sarà che i prezzi delle merci in questione aumenteranno e che, al confronto, il valore di scambio oggettivo del denaro diminuirà. Ma questo aumento dei prezzi non sarà in alcun modo limitato al mercato dei beni desiderati da coloro che originariamente hanno a disposizione la nuova moneta. Inoltre coloro che hanno portato questi beni sul mercato vedranno aumentare i loro redditi e le loro scorte di moneta e, a loro volta, saranno in grado di domandare più intensamente i beni che desiderano, in modo che anche questi ultimi aumenteranno in termini di prezzo. L'aumento dei prezzi continua così con effetto decrescente finché esso non raggiunge tutte le merci, alcune in misura maggiore, altre in misura minore. L’aumento della quantità di moneta non significa un aumento del reddito per tutti gli individui. Al contrario, quelle fasce della comunità che sono le ultime ad essere raggiunte dalla quantità addizionale di moneta vedono ridurre i loro redditi, come conseguenza della diminuzione del valore della moneta provocata dall’aumento della sua quantità [...]. La riduzione del reddito di queste classi avvia una controtendenza che si oppone alla tendenza originale di diminuzione del valore del denaro.[4]

Ricorrendo alla legge del valore marginale decrescente, Mises spiega che:

  1. un aumento della quantità di moneta riduce il valore di scambio dell'unità monetaria;
  2. colpisce i diversi attori di mercato in modo diverso, arricchendone alcuni a scapito di altri;
  3. provoca distruzione nel processo economico (e finanziario) innescando cicli di boom/bust.[5]

Infine va notato che il valore soggettivo della moneta è condizionato dal suo valore di scambio, o potere d'acquisto: “Per quanto riguarda la moneta il valore d'uso soggettivo e il valore di scambio soggettivo coincidono”.[6] Il denaro non ha utilità per l'attore di mercato, o valore, se non quello che deriva dalla possibilità di scambiarlo con altri oggetti vendibili.

Passiamo ora alla prossima domanda: che dire del valore dell'impresa o del prezzo delle azioni di un'impresa?

Come abbiamo visto, quando un bene viene valutato soggettivamente, qualcuno lo classifica in relazione ad altri beni in base alla sua scala di valori.

Tuttavia quando un bene viene “valutato” nel senso di determinarne il suo “valore di mercato”, il valutatore stima il prezzo in termini di denaro (in futuro) in cui il bene potrebbe essere venduto.

Questo tipo di attività è nota come valutazione e dev'essere distinta dalla valutazione soggettiva.

Se X dice: “Potrò vendere queste azioni la prossima settimana a $250”, egli “valuta” il potere d’acquisto delle azioni, o il suo prezzo in denaro, a $250.

Non classifica le azioni e il dollaro sulla propria scala di valori, ma valuta il prezzo monetario delle azioni in un determinato momento futuro.

Potreste chiedervi: come fa X a formulare la sua stima di $250 per le azioni?

Ebbene, potrebbe avere un “modello” in mente – come, ad esempio, il modello dei flussi di cassa (secondo il quale un’azienda “vale” il valore attuale di tutti i suoi flussi di cassa futuri, attualizzati al giorno d’oggi); oppure può moltiplicare il profitto annuale di un'impresa per un multiplo; oppure ha semplicemente avuto una sensazione viscerale.

La valutazione (di un bene come un'azione, una merce) implica un'azione individuale e una valutazione di successo richiede spirito imprenditoriale, talento e acume: alcune persone sono brave in questa attività (in termini di comprensione del prezzo di mercato futuro di un'azione), mentre altri falliscono.

Detto questo, non c'è da meravigliarsi se nel mondo reale ci siano grandi differenze di opinione riguardo il valore stimato di un'azienda, e quindi il valore stimato di ciascuna delle azioni di tale azienda.

Se X giunge alla conclusione che il prezzo di mercato di un titolo dovrebbe essere, diciamo, $250, mentre esso attualmente viene scambiato a, diciamo, $500, potrebbe voler venderlo (impedendogli così una perdita di capitale).

Ma torniamo alla questione del valore soggettivo non appena X vende le sue azioni sul mercato per, diciamo, $250. Ciò dimostra che egli valuta le azioni, in base alla sua scala di valori personale, meno della quantità di dollari che riceve in cambio delle stesse (allo stesso modo l’acquirente valuta l’azione più dei $250 che cede).

Concludiamo questo saggio sul valore con una citazione istruttiva di Carl Menger:

Il valore non è quindi nulla di inerente ai beni, nessuna proprietà di essi, né una cosa indipendente esistente di per sé. È un giudizio che gli esseri umani danno all'importanza dei beni a loro disposizione per il mantenimento della loro vita e del loro benessere. Il valore non esiste al di fuori della coscienza degli esseri umani. È quindi del tutto errato chiamare “valore” un bene che ha valore per gli individui, o che gli economisti parlino dei “valori” come di cose reali indipendenti e li oggettivizzino. Infatti gli enti che esistono oggettivamente sono sempre solo cose particolari o quantità di cose, e il loro valore è qualcosa di fondamentalmente diverso dalle cose stesse; è un giudizio espresso dagli individui sull'importanza che il loro controllo sulle cose ha per il mantenimento della loro vita e del loro benessere. L’oggettivazione del valore dei beni, che è di natura del tutto soggettiva, ha contribuito moltissimo alla confusione sui principi fondamentali della nostra scienza.[7]


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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Note

[1] Menger (1871), Principles of Economics, p. 115 – Secondo Menger il valore è una relazione bilaterale tra l'individuo e il bene economico. Per Mises, invece, come sottolinea anche Hülsmann (2003, pp. xxxvi–xxxvii), il valore è una relazione trilaterale che coinvolge l'attore di mercato e due beni economici: il valore del bene è determinato dalla preferenza dall'attore di mercato in quanto egli valuta un bene (come minimo) rispetto a un altro e sottoposto alla stessa scelta; in tal contesto vi basti pensare alla situazione in cui un attore di mercato riflette se spendere la sua banconota da $1 (primo bene) per una mela (secondo bene) o no.

[2] Si veda Hoppe (1999), Murray N. Rothbard: Economics, Science, And Liberty, pp. 227–8.

[3] Si veda Rothbard (2009), Man, Economy, and State, pp. 21–33, esp. p. 25 ff.

[4] Si veda Mises (1953), The Theory of Credit and Money, p. 139–140.

[5] Ciò sarebbe particolarmente vero se l’aumento della quantità di denaro avvenisse attraverso i mercati del credito.

[6] Si veda Mises (1953), The Theory of Credit and Money, p. 97.

[7] Si veda Menger (2007), Principles of Economics, pp. 120–1.

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