lunedì 19 agosto 2024

La competitività della Cina è guidata da una bassa tassazione, non dalla politica industriale

 

 

di Mihai Macovei

L’Occidente è sempre più preoccupato per la capacità di esportazione della Cina, poiché le sue aziende stanno rapidamente guadagnando quote di mercato nei settori green e high-tech. Di recente il segretario al Tesoro americano, Janet Yellen, ha accusato la Cina di eccesso di capacità industriale e ha esortato gli europei a rispondere congiuntamente. Presumibilmente sta inondando i mercati internazionali con prodotti economici soprattutto grazie ai sussidi industriali. Gli Stati Uniti e i loro alleati stanno intensificando le misure protezionistiche come dazi, controlli tecnologici e un rafforzamento delle proprie politiche industriali. E se si sbagliassero e la Cina si limitasse a fornire incentivi migliori a lavoro, risparmio e investimenti?


L’eccesso di capacità sta stimolando le esportazioni cinesi di veicoli elettrici?

Le vendite di veicoli elettrici cinesi in Europa sono salite a circa il 20% nel 2023 e sono destinate a raggiungere circa un quarto di tale mercato nel 2024. Sia gli Stati Uniti che l’UE hanno schiaffeggiato le esportazioni cinesi con dazi elevati, accusando la Cina di eccesso di capacità industriale. Se fosse vero, ciò significherebbe che i produttori cinesi utilizzano prezzi di dumping per vendere la produzione in eccesso all’estero. Ma le cose non stanno così, poiché nel 2023 il prezzo di un’auto elettrica in Cina è stato circa la metà rispetto a quello negli Stati Uniti e in Europa. In realtà, i veicoli elettrici cinesi vengono venduti a prezzi elevati sui mercati occidentali (Tabella 1) ed è probabile che godano di sani margini di profitto anche dopo l’introduzione dei nuovi dazi.

Tabella 1: prezzi dei veicoli elettrici in mercati selezionati. Fonte: EVMarketsReports.com

Si sostiene inoltre che l’eccesso di capacità nel settore dei veicoli elettrici in Cina sia stato alimentato ingiustamento tramite politica industriale e generosi sussidi. Gli analisti criticano i sussidi cinesi agli acquisti (sconti per gli acquirenti ed esenzione dalle imposte sulle vendite), ma gli Stati Uniti e l’UE sono stati più generosi della Cina. I sussidi medi per l’acquisto di veicoli elettrici in Cina sono gradualmente diminuiti da circa €2.300 a €1.300 tra il 2010 e il 2022 e sono stati eliminati nel 2023. Il supporto medio totale per veicolo è sceso a circa $4.600 nel 2023, cifra inferiore al credito d’imposta statunitense di $7.500 e agli incentivi nei Paesi europei.

La Cina ha speso finora circa $230 miliardi per rilanciare il settore dei veicoli elettrici, secondo gli analisti del Center for Strategic and International Studies. Tuttavia sta eliminando gradualmente i sussidi, i quali sono diminuiti sostanzialmente da oltre il 40% delle vendite totali a solo l’11,5% nel 2023. Allo stesso tempo, per recuperare terreno, gli Stati Uniti stanno pianificando di aumentare ulteriormente i propri aiuti al settore dei veicoli elettrici di circa $174 miliardi ai sensi dell’Inflation Reduction Act. Alla fine tutti questi sussidi potrebbero risultare tre volte più alti, con crediti d’imposta per i veicoli elettrici fino a $390 miliardi e sussidi diretti per $130 miliardi. Mentre i sussidi cinesi per i veicoli elettrici sono costantemente additati sulla stampa occidentale, quelli nostrani vengono nascosti sotto il tappeto.


Quanto sono significativi i sussidi industriali?

Lo stesso vale per il sostegno pubblico all'intera attività industriale. Uno studio del CSIS stima che i sussidi della Cina siano pari a circa $248 miliardi, circa l’1,7% del prodotto interno lordo nel 2019, ovvero da due a tre volte di più rispetto a quelli delle economie chiave (Grafico 1). In termini nominali, anche negli Stati Uniti i sussidi da $84 miliardi (0,4% del PIL) non sono banali; senza dimenticare i $262 miliardi (1,7% del PIL) nell’intera UE, quasi allo stesso livello di quelli in Cina.

Grafico 1: Spesa per le politiche industriali nelle principali economie, 2019. Fonte: Centro Studi Strategici e Internazionali

Secondo lo studio del CSIS, la maggior parte degli aiuti in Cina (sussidi diretti e credito agevolato) finisce nelle imprese pubbliche, ciononostante esse rappresentano solo circa il 10% delle esportazioni, il che significa che il contributo diretto dei sussidi industriali alla competitività della Cina non è il fattore determinante. Gli esperti mainstream esagerano sia la dimensione che il ruolo dei sussidi cinesi per sostenere una maggiore politica industriale in Occidente. Infatti la politica industriale è tornata di moda in tutto il mondo, con un forte aumento degli interventi statali negli ultimi anni. I Paesi ad alto reddito, che dispongono di maggiori risorse fiscali, sono in prima linea in questa tendenza. L’amministrazione Biden ha lanciato diversi programmi onerosi, che superano i $2.000 miliardi, per rilanciare la produzione verde e high-tech. In Europa Mario Draghi vuole maggiori investimenti pubblici e un  “accordo industriale” dell’UE per rilanciare la crescita della produttività.


La politica industriale è la mossa giusta?

Esistono forti argomenti contro la politica industriale, come la mancanza di conoscenza del mercato da parte dei decisori burocratici, l’appropriazione delle decisioni da parte di gruppi con interessi specifici e gli alti costi visibili e invisibili, insieme a un’esperienza storica deludente piena di fallimenti. Tuttavia questi aspetti vengono ora messi da parte, poiché si sostiene che le precedenti politiche industriali non erano ben mirate. La Cina viene pubblicizzata come il  “vero esempio”  di politica industriale, senza un’adeguata comprensione delle sue specificità.

Secondo García-Herrero e Schindowski, la politica industriale della Cina differisce da quella di un’economia di mercato a causa dei significativi interventi statali attraverso il settore delle imprese pubbliche. Le aziende private sono state svantaggiate rispetto a quelle pubbliche a causa di dazi arbitrari, multe ed estorsioni, nonché di credito più costoso. La politica industriale è principalmente uno strumento per alleviare questo svantaggio e indirizzare il capitale privato verso gli obiettivi strategici del governo centrale. Inoltre la politica industriale non ha favorito la crescita della produttività, in quanto favorisce il clientelismo e i legami pervasivi tra funzionari pubblici e grandi imprese a scapito delle piccole e medie imprese più produttive ma non politicamente connesse. Altri documenti sottolineano inoltre che l’esperienza della Cina in materia di politica industriale è, nella migliore delle ipotesi, controversa, mentre i sussidi statali hanno portato a numerosi fallimenti.

Allo stesso tempo la Cina riesce a dominare non solo il nascente mercato globale dei veicoli elettrici, ma anche l’intero settore manifatturiero delle tecnologie pulite, comprese le turbine eoliche, i pannelli solari e le batterie per automobili. Tutti questi settori sono stati di recente messi sotto esame per dumping sui prezzi e sussidi, finendo nello stesso calderone di quelli più tradizionali come il settore dell’acciaio, dell’alluminio e quello della costruzione navale. Secondo una recente ricerca, la Cina detiene una posizione dominante in quasi 600 prodotti su 5.000 nei mercati di esportazione globali, principalmente nei settori dell’elettronica, del tessile/abbigliamento, delle calzature e dei macchinari. Questa posizione non ha eguali in nessun altro Paese. Una volta acquisite, le posizioni dominanti persistono nel tempo, il che significa che le industrie rimangono altamente competitive anche dopo la sospensione dei sussidi. È ovvio che sono in gioco fattori più importanti piuttosto che un enorme schema di sovvenzioni incrociate della politica industriale come sostenuto dagli esperti mainstream. Con la quota della retribuzione del lavoro nel PIL all’incirca allo stesso livello di quella degli Stati Uniti, anche le ragioni a favore del dumping si dimostrano deboli.


Le tasse basse e il rapido accumulo di capitale sono fondamentali

La Cina ha ottenuto risultati economici impressionanti dall’accelerazione delle riforme orientate al mercato e dall’adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. La sua economia rappresenta oggi un terzo della produzione manifatturiera lorda globale, da meno del 10% nel 2003, e domina numerosi settori nelle tecnologie avanzate. Ciò è stato possibile grazie al rapido accumulo di capitale alimentato da tassi di risparmio e investimento molto elevati, questi ultimi superiori al 40% del PIL per circa due decenni (rispetto al 25% della media mondiale del PIL).

Alcuni investimenti sono stati potenzialmente mal allocati a causa del settore delle grandi imprese pubbliche, dei fallimenti della politica industriale, o della bolla immobiliare. Tuttavia quelli produttivi sono stati sufficienti a garantire un notevole aumento dello stock di capitale, come si evince dall’impennata dell’automazione e della densità dei robot, con la Cina che ha recuperato terreno rispetto a Stati Uniti, Giappone e Germania (Grafico 2). Insieme ai costanti progressi nell’innovazione, dove la Cina ha superato il Giappone e sta gradualmente colmando il divario con l’UE, questi investimenti rafforzano l’elevata crescita della produttività e le esportazioni di manufatti a basso costo.

Grafico  2: Densità dei robot nel 2016 e nel 2022. Fonte: Federazione internazionale dei robot

Ciò è principalmente il risultato di uno stato sociale limitato, a cui la Cina destina circa l’8% del PIL, una frazione del livello degli Stati Uniti (20%) e della Germania (25%). Sebbene la Cina abbia sradicato la povertà estrema, non cerca di assorbire i ricchi e la classe media attraverso la ridistribuzione dei redditi elevati. A differenza dell’Occidente, il basso carico fiscale e la limitata progressività del sistema fiscale incoraggiano una forte partecipazione alla forza lavoro, orari di lavoro lunghi e risparmi elevati. I cinesi lavorano in media circa 2.170 ore all’anno (circa il 25% in più rispetto agli Stati Uniti e il 50% rispetto alla Germania).

Nel complesso la Cina ridistribuisce solo circa il 28% del PIL nella spesa pubblica rispetto a una media esagerata del 42% nei Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e al 50% del PIL nell’Europa occidentale. È esattamente questo che spiega il successo economico della Cina e non il magro 0,5-1% del PIL che potrebbe spendere in più per la politica industriale. Le economie occidentali hanno sviluppato una predilezione per la tassazione progressiva dei redditi, penalizzando i membri più intraprendenti e laboriosi della società, riducendo gli incentivi al lavoro e scoraggiando il risparmio e gli investimenti. Anche in presenza di generosi sussidi industriali, come per il nascente settore delle batterie per auto, i produttori nazionali non riescono ancora a competere con i più agili concorrenti asiatici.

In conclusione, la tesi della politica industriale è solo una cortina di fumo messa in atto dagli economisti socialisti per coprire le inefficienze della ben più ampia ridistribuzione statale in Occidente. Quest’ultima viene utilizzata per sovvenzionare non solo le aziende, ma anche i privati, attraverso un vasto sistema di welfare e un’ampia gamma di servizi pubblici. Ancora peggio, gran parte della spesa pubblica è finanziata dal crescente debito e dalla stampa di denaro. Replicare le politiche industriali della Cina non aiuterà a risolvere questo enorme problema, bensì potrebbe addirittura peggiorarlo.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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