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martedì 16 luglio 2024

La Federal Reserve, ieri

Il pezzo di oggi non deve essere inteso come un mero esercizio di critica fine a sé stesso. Il pezzo di oggi vuole portare all'attenzione del lettore l'obiettivo finale dell'attuale strategia d'uscita da parte di Powell: ritorno della politica monetaria statunitense nelle mani della Federal Reserve e contrazione di quell'interventismo della banca centrale americana che, negli ultimi 20 anni in particolar modo, è diventato onnipresente. È importante notare il momento in cui questo treno è deragliato e, “guarda caso”, è coinciso con l'espansione incontrollata del mercato degli eurodollari. Non solo, tale degenerazione era diventata una manna per i mercati finanziari ogni volta che finivano nei guai. L'abbattimento selettivo dei livelli di leva finanziaria che si sono accumulati nel sistema bancario ombra, cosa che ha fatto schizzare alle stelle le masse monetarie ombra, rappresenta un gigantesco spartiacque nella linea di politica della Federal Reserve, la quale mira a togliersi di dosso l'aura di “ente salvatore del mondo”, obtorto collo, nei momenti di stress economico/finanziario. Per quanto i mercati mondiali abbiano testato la volontà di Powell nel voler perseguire questa strada dopo tutto il 2022 e 2023, la sua campagna “higher for longer” sta sortendo gli effetti desiderati e, soprattutto, sta ridonando credibilità ai mercati dei capitali statunitensi. Detto in parole povere, il ritorno del cosiddetto “tocco leggero” o “guardiano passivo” è il ruolo che Powell vuole ricucire sul vestito sfilacciato della FED a causa di decenni di interventismo progressivo e manipolazione/distorsione/deformazione innaturale dei mercati attraverso gli eurodollari.

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di David Stockman

L’economia americana del dopoguerra se la cavò bene tutto sommato, senza alcun obiettivo riguardo i tasso d'interesse, acquisto di obbligazioni, o aiuto generale nella gestione macroeconomica da parte della FED. L'onnipresente dominio del sistema bancario centrale sul sistema finanziario ed economico era inesistente all'epoca.

Sto parlando dell’intero decennio compreso tra il quarto trimestre del 1951 e il terzo trimestre del 1962, quando il bilancio della FED rimase piatto a soli $51 miliardi (linea nera), ciononostante l’economia statunitense non vacillò per la mancanza di ossigeno monetario. Durante quel periodo il PIL crebbe da $356 miliardi a $609 miliardi, ovvero del 71% (linea viola), una crescita nominale del 5,1% annuo e la maggior parte di essa rappresentava guadagni di produzione reale, non inflazione.

Variazione del bilancio della Federal Reserve rispetto al PIL, dal quarto trimestre del 1951 al terzo trimestre del 1962

Si dà il caso che il sopraccitato arco temporale abbracciasse il periodo immediatamente successivo al cosiddetto Accordo Tesoro-FED del marzo 1951, il quale pose fine all’espediente della Seconda Guerra Mondiale che aveva fissato i titoli del Tesoro statunitensi a breve termine allo 0,375% e quelli a lungo termine al 2,50% al fine di finanziare il flusso di debiti di guerra.

L’effetto di questi ancoraggi fu che la FED fu obbligata ad assorbire tutta l’offerta di titoli del Tesoro statunitensi che il mercato non riequilibrava ai rendimenti target. Non sorprende che il bilancio della FED, $12 miliardi nel 1937, fosse aumentato di 4,3 volte arrivando a $51 miliardi al momento di suddetto Accordo, riflettendo quella che equivaleva a una monetizzazione del debito pubblico giustificata dalla  esigenze della guerra.

Nel periodo post-ancoraggio mostrato di seguito, la FED permise ai tassi d'interesse di trovare i propri livelli di compensazione di mercato. Diversamente da quello che accade oggi, a Wall Street non ci furono continue ipotesi riguardo al livello a cui la FED avrebbe fissato i tassi d'interesse a breve termine. Allora era chiaro che le forze della domanda e dell’offerta nei mercati obbligazionari erano pienamente in grado di scoprire i giusti tassi d'interesse.

La combinazione di crescita elevata, investimenti robusti, salari forti e reddito familiare reale in forte aumento, da un lato, e inflazione ai minimi dall’altro, costituisce la regola aurea di performance per una moderna economia capitalista.

Il tutto avvenne in un sistema “tocco leggero” delle banche centrali che presupponeva che il capitalismo di libero mercato avrebbe trovato la propria strada verso una crescita economica, occupazione, investimenti e prosperità ottimali. Non era necessario nessuno sherpa monetario all'Eccles Building.

Non era nemmeno necessaria alcuna stampa di denaro. I risultati economici descritti di seguito si sono verificati durante un periodo di 11 anni in cui la FED non acquistò un centesimo di debito del Tesoro statunitense!

Variazione annua, dal quarto trimestre del 1951 al terzo trimestre del 1962

• Vendite finali reali: +3,8%

• Investimenti reali interni: +4,1%

• Crescita della produttività non agricola: +2,5%

• Salario orario reale: +3%

• Reddito familiare medio reale: +2,3%

• Aumento dell’IPC: +1,3%

Passività della Federal Reserve, dal 1937 al 1962

Non c’è assolutamente nulla in tal periodo che renda la performance macroeconomica sopra riassunta aberrante, casuale, o irreplicabile. Infatti il presidente Eisenhower tagliò drasticamente le spese per la difesa ed eliminò completamente il deficit fiscale durante il suo secondo mandato, pertanto l’aumento cumulativo del debito pubblico durante quel periodo di 11 anni fu di appena $30 miliardi, ovvero un esiguo 0,6% del PIL, a causa dei prestiti contratti durante la Guerra di Corea.

Ma anche questo modesto aumento del debito non fu monetizzato dall’acquisto di obbligazioni da parte della FED, invece fu finanziato con i risparmi privati. I rendimenti obbligazionari a lungo termine, quindi, salirono dal livello fissato al 2,5% mostrato di seguito fino al 4%, come dettato dalla domanda e dall’offerta. Tuttavia nel periodo 1959-1962 l’IPC si attestò in media solo all’1,2%, il che significa che i rendimenti reali sfiorarono il +3,0% durante i primi anni ’60.

All’epoca la FED non aveva visto la necessità di spingere i tassi reali a zero e addirittura in territorio negativo, come è avvenuto per gran parte degli ultimi due decenni. Il fatto è che l’economia di Main Street prosperò enormemente e i tassi aggiustati all’inflazione fornirono un solido rendimento a risparmiatori e investitori.

Rendimento dei titoli del Tesoro USA a lungo termine, dal 1942 al 1962

Ciò che pose fine all’economia favorevole dal 1951 al 1962 fu il flagello della finanza di guerra. LBJ (Lyndon B. Johnson) intensificò la guerra del Vietnam dopo il 1963, provocando un’impennata del debito e un aumento del decennale statunitense fino a quasi il 6% all’inizio del 1968. Ma Johnson non era disposto a lasciare che i tassi d'interesse di compensazione finanziassero la sua miserabile impresa di portare la Great Society nel Sud-est asiatico.

Così “persuase” il presidente della FED nel suo ranch in Texas e ordinò di tagliare il tasso di riferimento per far fronte al crescente deficit federale. Quest’ultimo era cresciuto da $4,8 miliardi e -0,8% del PIL nel 1963 a $25,2 miliardi e -2,8% del PIL nel 1968.

Sfortunatamente, dopo aver aumentato costantemente il tasso di riferimento dal 2,9% nel dicembre 1962 al 5,75% nel novembre 1966, mentre crescevano anche i deficit di Johnson, la FED abbassò suddetto tasso di riferimento al 3,8% nel luglio 1967. A sua volta ciò scatenò un’ondata di speculazione e inflazione, con l’indice dei prezzi al consumo che salì dall’1% annuo nell’agosto 1964 a un picco di +6,4% nel febbraio 1970.

Non vi è alcun mistero sul motivo per cui il genio dell’inflazione fosse ormai uscito dalla lampada: tra il terzo trimestre del 1962 e il quarto trimestre del 1970, il bilancio fino ad allora piatto della FED (linea nera) salì alle stelle, passando da $52 miliardi a $85 miliardi nel corso di un periodo di otto anni. Ciò equivaleva a un aumento del 6% annuo, il che significava che il precedente di un’espansione aggressiva del bilancio era ormai saldamente stabilito.

Rendimento del decennale statunitense aggiustato all’inflazione & crescita del bilancio della FED, dal 1962 al 1970

La prima vittima, ovviamente, sono stati i rendimenti obbligazionari aggiustati all’inflazione (linea viola). Come mostrato sopra, il sano rendimento reale al +3% del 1962 scese ad appena il +1% alla fine del 1970.

La FED non fu spinta a questo primo giro di stampa di denaro e monetizzazione del debito sin dal dopoguerra perché l’economia privata era entrata in un misterioso svenimento o modalità di fallimento, e quindi aveva bisogno dell’aiuto della banca centrale.

Al contrario, si trattò di un allontanamento, guidato da Washington, da una sana attività bancaria centrale; da lì in poi si è partiti per la tangente.

Una volta uscito dalla lampada il genio dell’inflazione, con l’indice dei prezzi al consumo che raggiunse il 6% nell’autunno del 1970, la FED lottò per più di un decennio per riportarlo dentro. Di conseguenza qualsiasi attenzione allo stimolo della crescita, dell’occupazione, dell’edilizia abitativa e degli investimenti fu rara e decisamente secondaria rispetto alla lotta all’inflazione.

È importante notare che, nonostante quattro recessioni (1970, 1975, 1980 e 1981) e pochissimo aiuto a favore della crescita da parte di quella che era ormai diventata una FED ossessionata dall’inflazione, l’economia statunitense si espanse a un ritmo decente durante l’intervallo tra il quarto trimestre del 1969 e il secondo trimestre del 1987.

Il tasso di crescita economica (base reale delle vendite finali) fu in media di un solido +3,1% annuo, ma ciò avvenne grazie alle propensioni alla crescita insite nel capitalismo e nonostante gli ostacoli periodici durante le contrazioni monetaria. Infatti tre presidenti della FED prestarono servizio durante quell’intervallo di 17,5 anni – Burns, Miller e Volcker – e con vari gradi di successo il loro obiettivo fu prevalentemente quello di sopprimere l’inflazione, non di stimolare la crescita.

I tassi di crescita dell’occupazione, della produttività e del reddito familiare medio reale durante suddetto periodo non furono particolarmente eccezionali, malgrado ciò questi stessi parametri non sprofondarono nemmeno in un buco nero.

Questi risultati furono opera del capitalismo di mercato, non del sistema bancario centrale. Quest’ultimo si oppose fortemente all’inflazione per gran parte di quel periodo, quindi l'assenza di “aiuto” da parte della banca centrale fu solo un’ulteriore prova del fatto che lo stimolo monetario non è necessario per una crescita solida e la prosperità.

Variazione annua, dal quarto trimestre 1969 al secondo trimestre 1987

• Vendite finali reali del prodotto interno: +3,1%

• Ore lavoro impiegate: +1,5%

• Produttività non agricola: +1,8%

• Reddito familiare medio reale: +1,2%

A scanso di equivoci, ecco il percorso del tasso di riferimento mentre si stava svolgendo la performance macroeconomica di cui sopra. In altre parole, le ricorrenti iniziative anti-inflazione della FED fecero sì che suddetto tasso saltasse in alto come una sorta di fagiolo saltatore. Nel periodo precedente a ciascuna delle quattro recessioni indicate dalle aree ombreggiate nel grafico, l’aumento del tasso di riferimento della FED è stato il seguente:

• 1970: +340 punti base

• 1974: +960 punti base

• 1980: +1290 punti base

• 1981: +440 punti base

Inutile dire che queste successive campagne di rialzo dei tassi ammontarono a colpi di martello per l’economia di Main Street. Non è possibile che queste violente oscillazioni dei tassi d'interesse e il conseguente avvio e arresto dei cicli economici – quattro recessioni in soli 17 anni – siano stati un tonico per la crescita durante quest’era di inflazione elevata.

Infatti la performance macroeconomica ragionevolmente solida sopra quantificata rappresenta una sorta di minimo del libero mercato. Riflette la spinta incessante di lavoratori, consumatori, imprenditori, uomini d’affari, investitori, risparmiatori e speculatori a migliorare la propria situazione economica, anche di fronte agli ostacoli inflazionistici e alla manipolazione finanziaria anti-inflazione da parte della banca centrale.

Tasso di riferimento, da agosto 1968 a giugno 1987

Naturalmente, gli ostacoli all’inflazione erano enormi e ben al di là di qualsiasi precedente esperienza in tempo di pace. Rispetto all’inflazione media dell’1,3% nel periodo 1951-1962, l’IPC salì al 5,6% nel periodo quarto trimestre del 1969 e secondo trimestre del 1987.

E ciò includeva il beneficio del forte calo dell’inflazione progettato da Paul Volcker durante gli ultimi quattro anni di suddetto periodo. Pertanto durante il decennio degli anni ’70, fino al picco di inflazione annuo del 14,6% nell’aprile 1980, l’IPC salì in media del 7,7% annuo.

A sua volta ciò introdusse per la prima volta le classi salariate nella routine dei tassi salariali nominali in forte aumento, quasi interamente consumati dal forte aumento dei prezzi al consumo. Pertanto durante il decennio terminato con il picco inflazionistico nel secondo trimestre del 1980, la retribuzione oraria media in termini nominali salì del 7,6% annuo, ma, ahimè, ciò che rimase impresso sui conti bancari dei lavoratori fu un guadagno di solo l’1,1% annuo nello stesso periodo. Tutto il resto fu divorato dall’inflazione.

Variazione annua dell'indice dei prezzi al consumo, dal 1960 al 1987

Se l’effetto tapis roulant salari/prezzi introdotto dopo il 1969 fosse tutto, l’impatto avremmo potuto considerarlo tollerabile. La resilienza del capitalismo di mercato si è dimostrata sufficientemente forte da superare gran parte degli ostacoli inflazionistici, insieme ai cicli punitivi di stretta anti-inflazione della FED.

Sfortunatamente, però, ciò che si materializzò negli anni ’70 furono due corollari estremamente dannosi.

Il primo era l’idea che il compito della banca centrale fosse quello di gestire il tasso di variazione del livello generale dei prezzi piuttosto che il mandato originario, molto più modesto. Quest’ultimo presupponeva la presenza di una moneta non inflazionistica coperta dall’oro, quindi la gestione dell’inflazione sarebbe stata un ossimoro. Di conseguenza il mandato statutario della FED era semplicemente quello di fornire liquidità e riserve al sistema bancario sulla base dei tassi d'interesse di mercato. I capi della FED non avevano bisogno di conoscere l'IPC, il deflatore PCE, o qualsiasi altro metro di misurazione moderno dell'inflazione che ancora non era stato inventato.

In realtà, la gestione del ritmo di breve periodo con cui il livello generale dei prezzi sale ha rappresentato un passaggio fatale verso il sistema bancario centrale statalista e la gestione plenaria della macroeconomia in cui gli indici dell'inflazione sono inestricabilmente integrati. Alla fine il figlio bastardo di questa apertura a un potere statale ampliato si è materializzato come il feticcio dell’inflazione al 2%.

Ecco il punto: fino a quando il dollaro coperto dall’oro non fu stroncato da Nixon nell’agosto del 1971 e la possibilità di un’inflazione crescente e persistente in tempo di pace non si materializzò negli anni ’70, l’idea di una gestione del tasso d'inflazione da parte della banca centrale non era neanche lontanamente contemplata. Questo perché la stabilità dei prezzi in tempo di pace era la condizione predefinita del mondo durante il gold standard. Infatti dalle guerre napoleoniche in poi “inflazione” e tempo di guerra furono praticamente sinonimi, perché la moneta fiat era quasi invariabilmente un espediente temporaneo in tempo di guerra.

L’altra eredità degli anni ’70 è stata l’esplosione dei costi unitari del lavoro nell’economia statunitense. Questa deformazione economica inutile, ma pervasiva, alla fine ha portato alla massiccia delocalizzazione dell’economia industriale statunitense.

L’implicazione in tutto ciò è che sarebbe stato molto meglio restare fedeli all’epoca d’oro di William McChesney Martin, caratterizzata da una crescita elevata, una bassa inflazione, un bilancio piatto della Federal Reserve e tassi d'interesse guidati dalle forze della domanda e dell’offerta nei mercati finanziari. Purtroppo il bilancio della FED durante il decennio di alta inflazione era tutt’altro che piatto.

Durante la presidenza dei tre governatori successivi a Martin, il bilancio della FED crebbe ai seguenti ritmi annuali composti:

• Arthur Burns (dal febbraio 1970 al marzo 1978): +6,9%

• William Miller (dal marzo 1978 ad agosto 1979): +9,5%

• Paul Volcker (dall'agosto 1979 ad agosto 1987): +6,8%

Crescita del bilancio della Federal Reserve, dal primo trimestre del 1970 al secondo trimestre del 1987

In poche parole, Volcker rallentò bruscamente la crescita travolgente del bilancio della FED che si era verificata sotto la presidenza di William Miller, lo sfortunato ex-amministratore delegato di un conglomerato che produceva golf cart, motoslitte e aerei Cessna. Ma alla fine anche Volcker continuò a pompare nuova moneta nell’economia a un ritmo appena inferiore a quello di Arthur Burns. E Burns, ovviamente, era lo smidollato che aveva ignominiosamente ceduto alle suppliche di Nixon a sostegno della sua campagna di rielezione nel 1972.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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