Bibliografia

mercoledì 31 luglio 2024

Davvero l'amministrazione Biden ha battuto l'inflazione?

La stampa generalista ci tiene a farci sapere che grazie agli “sforzi” dell'amministrazione Biden, il “mostro” dell'inflazione dei prezzi è stato sconfitto. Ma è davvero così? Oggi vedremo che, dal punto di vista statistico, le cose non stanno affatto così e il proverbiale “cherry picking” è l'esercizio preferito dalle autorità per vendere agli sprovveduti una percezione della realtà diametralmente opposta a quella reale. Quando si ha chiaro il quadro generale, invece, tali manipolazioni ad hoc cadono di conseguenza. Ma non basta, perché è necessario aggiungere ulteriore contesto e attraverso la logica/ragionamento è possibile arrivare a una conclusione coerente che va a spiegare in modo succinto il meccanismo attraverso il quale l'amministrazione Biden è riuscita a barcamenarsi e al contempo ha anche affossato gli Stati Uniti (obiettivo originale). Infatti ha usato la volatilità del petrolio per fare in modo che il prezzo fosse soffocato, mentre si dava fondo alla Strategic Petroleum Reserve e il Brent veniva re-indicizzato. In tal modo è stata venduta la narrativa “l'inflazione è stata contenuta”, narrativa contrastata da Powell attraverso il suo “higher for longer”. La compressione della volatilità è un segno importante che va a denotare l'esaurimento della capacità di una pressione al ribasso sui prezzi del petrolio. Solo un tetto effettivo adesso potrà funzionare... almeno per un po'. Sappiamo benissimo a cosa porterà questa eventuale linea d'azione: carenze e sovrabbondanze, con conseguente esplosione della pressione finora tenuta soffocata.

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di David Stockman

Su tutto ciò che fa la differenza per il costo della vita di Main Street, i prezzi sono aumentati dal 32% al 36% sin dal gennaio 2021. Proprio così. Tra i cinque grandi fattori – servizi, cibo, energia, trasporti e casa – che costituiscono una quota schiacciante del bilancio familiare, il tasso di aumento dei prezzi durante gli ultimi sette anni e mezzo è vicino al 4,0% annuo! E questo tasso di crescits significa che i prezzi raddoppierebbero ogni 18 anni.

Inoltre gli aumenti cumulativi per quei cinque elementi essenziali si concentrano strettamente al 4,0% annuo. Ciò che conta è l’inflazione cumulativa su un periodo di tempo ragionevole e i movimenti mensili nelle principali componenti dell’IPC non sono una guida affidabile per l’andamento a lungo termine del livello generale dei prezzi.

Aumenti annuali della componente IPC da gennaio 2017:

• Servizi meno i servizi energetici: +3,8%

• Alimentari: +3,9%

• Trasporti: +3,9%

• Energia: +4,2%

• Casa: +4,3%

Indice delle principali componenti dell'IPC da gennaio 2017

In passato la missione principale dei banchieri centrali era la stabilità dei prezzi nel tempo, non un gioco statistico basato sul tasso d'inflazione annuo per periodi brevi e scelti arbitrariamente. E l’attenzione si concentrava su un livello generale stabile dei prezzi, non sull’attuale preoccupazione per tutti i tipi di sottocomponenti del deflatore IPC o PCE e sulle variazioni torturate e segate degli indici generali.

Ad esempio, qualche tempo fa andava di gran moda il cosiddetto SuperCore CPI, che copre i servizi meno le case. Ciò significava che oltre il 60% del peso nel paniere dell'IPC veniva cancellato.

Inoltre due anni fa l’indice SuperCore correva ben al di sotto del livello del 9% registrato nell’indice IPC principale e anche nel cosiddetto IPC meno cibo ed energia. Ciò ha quindi suscitato molte chiacchiere speranzose a Wall Street secondo cui l’inflazione era sovrastimata e che la FED era sempre più vicina al nirvana di un altro ciclo di tagli dei tassi.

Durante i festeggiamenti per la vittoria sull’inflazione della scorsa settimana, l'indice SuperCore ha fatto registrare ancora un +5% su base annua. Quindi, per quanto ne sappiamo, non ha ricevuto nemmeno una menzione d'onore dal coro di alleluia degli economisti di Wall Street. Come al solito è toccato a Zero Hedge pubblicare la scomoda verità.

Fonte: Bloomberg

In ogni caso, quando si riformula il primo grafico qui sopra in base al cambiamento annuo, il vero trend dell’inflazione viene completamente offuscato dalle fluttuazioni a breve termine e dal rumore nei dati. Invece di raggrupparsi attorno al trend dell’inflazione reale al 4% degli ultimi sette anni, i tassi di variazione per il periodo annuo fino a giugno 2024 sono ovunque: tra le stesse cinque componenti principali dell’indice dei prezzi al consumo, i servizi sono ancora in crescita del 5%, mentre l’energia è passata dal +42% annuo fino a giugno 2022 ad appena +0,9% durante il periodo annuo fino a giugno 2024.

In breve, il primo grafico qui sopra è il segnale: i dati annui mostrati di seguito rappresentano il rumore. Infatti individuare e scegliere le istantanee dell’inflazione su base mensile, o addirittura trimestrale, tra componenti e sottoindici che sono sempre in movimento – e raramente in sincronia – è un gioco da ragazzi. Non ci dice nulla, però, sulla tendenza dell’inflazione di fondo, né dell’impatto cumulativo sul potere d’acquisto.

Variazione annua fino a giugno 2024:

• Servizi meno servizi energetici: +5,0%

• Alimentari: +2,2%

• Energia: +0,9%

• Casa: +5,1%

• Trasporti: +1,2%

Variazione annua nelle cinque componenti dell'IPC, da gennaio 2017 a giugno 2024

Il grafico seguente, che illustra l'andamento della variazione annua dell'IPC 16% trimmed mean, ci dice tutto ciò che dobbiamo sapere sulla vera storia dell'inflazione. Negli ultimi 75 mesi la misura più stabile dell’inflazione ha fatto registrare una cifra annua ben al di sopra del 2,00%. Su base cumulativa, infatti, gli aumenti sono stati in media del 3,7% annuo.

A dire il vero l' “obiettivo” stesso di un'inflazione annua al 2,00% non ha senso, ma quando lo si supera abbondantemente, perché mai bisogna cantare vittoria sull’inflazione e acclamare a gran voce il prossimo ciclo di tagli dei tassi e stimoli monetari?

In realtà mantenendo il piede sui freni monetari, la FED potrebbe impedire un’altra esplosione di inflazione, nonostante quella più recente è stata assorbita da risparmiatori, salariati e imprenditori. Infatti dopo sei anni di inflazione elevata, le ragioni per diluirne il trend con un periodo di inflazione bassa o nulla sono schiaccianti. Ad esempio, se l’IPC trimmed mean dovesse attestarsi esattamente al 2,00% annuo per i prossimi tre anni, l’aumento dell’indice da marzo 2018 sarebbe comunque in media  del +3,25% annuo; e anche all’1,0% annuo per altri tre anni, l'aumento cumulativo da marzo 2018 sarebbe +2,81% annuo.

Cosa c'è di così splendido in entrambe queste cifre? E perché la FED non dovrebbe essere obbligata a abbassare la media per un intervallo ancor più prolungato, visto l’impennata dell’inflazione degli ultimi anni?

Variazione annua dell'IPC 16% trimmed mean, da marzo 2018 a giugno 2024

Inutile dire che questo ci porta al difetto fatale del sistema bancario centrale keynesiano: un’inflazione minima al 2,00%. Ed è disposto a rischiare una ripresa dei tassi d'inflazione perché il suo vero obiettivo non è la stabilità dei prezzi basata sul buon senso e un potere d’acquisto stabile, il suo modello equivale a una gestione macroeconomica plenaria basata sull’errata visione secondo cui esiste una curva di Phillips che incarna un compromesso tra crescita macroeconomica e inflazione. E che per ottenere una crescita ottimale, creazione di posti di lavoro e la “piena occupazione”, è necessario un livello modesto d'inflazione; e che quando la macroeconomia minaccia di vacillare o di precipitare in recessione, una discreta quantità di rischio d'inflazione non solo è tollerabile, ma giustificata ed essenziale.

Vale a dire, l'attenzione maniacale sul tasso di variazione annuo di breve periodo (vale a dire il deflatore della PCE) non ha assolutamente nulla a che fare con una moneta sana/onesta o con qualsiasi nozione tradizionale di sistema bancario centrale. Al contrario è pianificazione monetaria centrale che ripetutamente soddisfa Wall Street con scuse per un nuovo ciclo di tagli dei tassi il più spesso e il più presto possibile.

Come mostrato di seguito, da marzo 2018 il deflatore della PCE meno cibo ed energia (linea viola) è salito più lentamente di quasi qualsiasi altra misura disponibile, incluso l’IPC principale (linea rossa), l’IPC 16% trimmed mean (linea nera linea) e l’IPC per tutti i servizi (linea arancione).

Peggio ancora, il deflatore della PCE non è nemmeno un paniere fisso di elementi che funge da proxy per il livello generale dei prezzi da un punto all’altro nel tempo. Viene continuamente rivalutato mensilmente, il che significa che quando i consumatori in difficoltà sostituiscono il pollo con la bistecca, il deflatore della PCE segnala un'inflazione inferiore a quella che sarebbe altrimenti.

Inutile dire che questa tecnica può avere senso dal punto di vista statistico quando si tenta di misurare il livello di produzione in dollari costanti nell’economia totale, ma non misura “l’inflazione” generale dei prezzi incorporata in un paniere fisso di beni e servizi.

Indici dell'inflazione, da marzo 2018 a maggio 2024

Inutile dire che, quando questa propensione viene estesa per periodi di tempo più lunghi, la differenza è decisamente più marcata. Ad esempio, dal gennaio 2000 il deflatore della PCE meno cibo ed energia è aumentato solo del 64% rispetto all’83% dell’IPC 16% trimmed mean, all’85% dell’IPC principale e al 109% dell’IPC relativo a tutti i servizi.

Indici dell'inflazione, da gennaio 2000 a maggio 2024

In ogni caso, Wall Street ama le linee di politica pro-inflazione e gli incessanti sforzi per fingere che gli enormi aumenti cumulativi nel livello dei prezzi mostrati nel grafico qui sopra avvengano in conformità con le leggi dell'economia. Gary Cohn, il tipico agente tra Wall Street e Washington, ha sostanzialmente fatto uscire il genio dalla lampada in un commento sulla relazione dell'IPC di giugno.

“Il presidente Powell non dovrebbe farsi trovare in ritardo nel tagliare i tassi”, ha detto alla CNBC l'ex-funzionario di Goldman Sachs e Trump, Gary Cohn. “Soprattutto dopo che tutti lo abbiamo accusato di aver tardato a rialzare i tassi”.

Per dirla tutta, l’idea stessa di “presto” e “tardi” nel gioco arbitrario di armeggiare con i quadranti dei tassi d'interesse è assurda. Lo squilibrio tra il tasso d'interesse su ciò che equivale a fiches da gioco a Wall Street (cioè i fondi overnight) e la macroeconomia nazionale e globale è così grande da rendere le istantanee sull’inflazione a breve termine equivalenti a rumore di fondo.

L’economia statunitense è stata così rifornita di liquidità in eccesso a causa delle massicce misure di stimolo durante il periodo pandemico che i rialzi dei tassi hanno a malapena intaccato il ritmo della spesa e dell’attività a breve termine. E per lo stesso motivo l’economia americana è ora talmente sommersa dal debito – $99.000 miliardi nei bilanci pubblici e privati ​​messi insieme – che 100 o anche 240 punti base di tagli non stimoleranno molto un’indebitamento incrementale, la spesa, il PIL e l’occupazione.

Durante il periodo di massimo splendore della teoria keynesiana, negli anni ‘60 e ‘70, il debito totale pubblico e privato negli Stati Uniti ammontava in media a circa il 150% del PIL, una cifra che era rimasta in gran parte costante durante i precedenti 100 anni di massiccia crescita industriale e di costante aumento della qualità della vita negli Stati Uniti.

Anche se non ha mai avuto senso che l’aumento del rapporto di leva finanziaria potesse generare PIL incrementale, posti di lavoro e ricchezza nel lungo periodo, nel breve periodo i tassi d'interesse a buon mercato tendevano a stimolare ulteriori prestiti da parte delle famiglie e delle imprese, aumentando così temporaneamente il PIL, anche se in un modo che in realtà equivaleva a rubare al futuro.

Ma sin dalla Grande Crisi Finanziaria il rapporto debito/PILè rimasto bloccato nella stratosfera macroeconomica: 350% del PIL. Questi due giri aggiuntivi di debito rispetto al reddito nazionale fanno sì che il debito totale in circolazione sia attualmente pari a $99.000 miliardi rispetto a quelli che sarebbero stati $42.000 miliardi con il vecchio rapporto di leva finanziaria nazionale al 150%.

Oserei dire che in un’economia sommersa dal debito come quella raffigurata di seguito – dove i settori produttivi si trascinano dietro $57.000 miliardi in più di debito – è probabile che il taglio dei tassi d'interesse non avrà quasi alcuna spinta macroeconomica.

Quindi il nocciolo della questione è chiaro come il sole: l’obiettivo d'inflazione al 2,00% è insensato e irraggiungibile attraverso il goffo meccanismo di aggiustamento del tasso di finanziamento overnight, mentre un’altra tornata di tagli dei tassi non farà nulla per la piena occupazione, rischiando invece l'ennesima sciagura per risparmiatori e salariati.

Indice della leva finanziaria dell’economia statunitense, dal 1960 al 2024


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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