Bibliografia

venerdì 12 gennaio 2024

Lo storico del declino: l'importanza odierna di Ludwig von Mises

 

 

di Jeffrey Tucker

[Questo saggio è stato commissionato dall'Hillsdale College e presentato nel campus il 27 ottobre 2023]

È un compito impossibile spiegare quanto sia stata importante la figura di Ludwig von Mises, il quale scrisse 25 opere degne di nota in 70 anni di ricerca e insegnamento. Tenteremo una sintesi basandoci sulle sue opere maggiori, ma con figure storiche così grandi c'è la tentazione di astrarre e separare le loro idee dalla vita dello studioso e dall'influenza del loro tempo. È un grosso errore; comprendere la biografia di Mises significa acquisire una visione molto più ricca delle sue idee.

  1. Il problema delle banche centrali e del denaro fiat. La seguente fu la prima opera importante di Mises datata 1912: The Theory of Money and Credit. Ancora adesso è un'opera straordinaria sulla natura del denaro, sulle sue origini e sul suo valore, sulla sua gestione da parte delle banche e sui problemi con il sistema bancario centrale. Questo libro venne pubblicato proprio all’inizio di un grande esperimento nel settore delle banche centrali, prima in Germania e poi solo un anno dopo la sua pubblicazione negli Stati Uniti. Conteneva tre osservazioni incredibilmente preveggenti: 1) una banca centrale servirà lo stato con deferenza alla richiesta di un abbassamento dei tassi d'interesse, cosa che spingerà detta banca acreare moneta ex novo; 2) tassi artificialmente bassi distorceranno la struttura della produzione, dirottando risorse scarse verso investimenti insostenibili; 3) inflazione dei prezzi.

  2. Il problema del nazionalismo. Dopo essere stato arruolato per prestare servizio nella Grande Guerra, Mises scoprì la pienezza e l’assurdità dello stato in azione, cosa che lo preparò per il successivo periodo di lavoro più politico. Il suo primo libro del dopoguerra fu Nation, State, and Economy (1919), uscito lo stesso anno di Economic Consequences of the Peace di John Maynard Keynes. Mises si occupò direttamente della questione più urgente dell’epoca, ovvero come ridisegnare la mappa dell’Europa dopo il crollo delle monarchie e l’inaugurazione dell'era della democrazia. La sua soluzione era quella d'individuare i gruppi linguistici come base della nazionalità, il che avrebbe reso le nazioni molto più piccole e sostenute dal libero scambio. In quel libro criticò l'idea del socialismo, che secondo lui sarebbe stata impraticabile e incompatibile con le libertà delle persone. La soluzione di Mises, purtroppo, non venne seguita. Mise inoltre in guardia la Germania contro qualsiasi atto di vendetta e contro il risentimento nazionale, tanto meno nuovi tentativi di ricostruire uno stato in stile prussiano. Lanciò un chiaro avvertimento contro un'altra guerra mondiale nel caso in cui la Germania avesse tentato di tornare allo stato prebellico.

  3. Il problema del socialismo. Con il 1920 arrivò un momento importante nella carriera di Mises: la realizzazione che il socialismo non ha senso come sistema economico. Se si pensa all’economia come un sistema di allocazione razionale delle risorse, ciò richiede prezzi che riflettano accuratamente le condizioni di domanda e offerta e richiede mercati non solo di beni di consumo ma anche di capitali, che a loro volta richiedono scambi che dipendono dalla proprietà privata. La proprietà collettiva, quindi, distrugge la possibilità stessa dell’economia. La sua tesi non trovò mai una risposta soddisfacente, sconvolgendo così i suoi rapporti professionali e personali con la parte dominante della cultura intellettuale viennese. Presentò ufficialmente questa tesi nel 1920 e la espanse in un libro due anni dopo. Esso trattava di storia, economia, psicologia, famiglia, sessualità, politica, religione, salute, vita, morte e molto altro ancora. Alla fine dell’intero sistema chiamato socialismo (bolscevico, nazionalista, feudalista, sindacalista, cristiano o altro) non rimaneva più nulla. Si sarebbe potuto supporre che sarebbe stato ricompensato per i suoi risultati, accadde invece il contrario: si assicurò l'esclusione permanente dal mondo accademico viennese.

  4. Il problema dell'interventismo. Per sottolineare il fatto che l’economia razionale richiedeva la libertà sopra ogni altra cosa, nel 1925 iniziò a dimostrare che non esisteva un sistema stabile chiamato economia mista. Ogni intervento crea problemi che chiamo a loro volta altri interventi. Il controllo dei prezzi è un esempio in merito, ma il discorso vale a tutti i livelli. Oggi ci basta pensare alla risposta alla crisi sanitaria, la quale non ha ottenuto nulla in termini di controllo del virus ma ha scatenato enormi perdite di apprendimento, dislocazione economica, sconvolgimento del mercato del lavoro, inflazione dei prezzi, censura, espansione dello stato e perdita di fiducia pubblica in quasi tutti gli argomenti. Successivamente Mises (1944) espanse questo concetto fino a una critica completa della burocrazia, dimostrando che, sebbene forse necessarie, non possono superare il test della razionalità economica.

  5. Il significato del liberalismo. Dopo aver distrutto completamente sia il socialismo che l’interventismo, decise di spiegare più in dettaglio quale sarebbe stata l’alternativa pro-libertà. Il risultato fu il suo possente trattato del 1927 intitolato Liberalism. Fu il primo libro della tradizione liberale a dimostrare che la proprietà non è un optional nella società libera, ma piuttosto il fondamento della libertà stessa. Spiegò che da ciò conseguono tutte le libertà e i diritti civili, la pace e il commercio, la prosperità nonché la libertà di movimento. Tutte le libertà civili del popolo si riconducono a chiare linee di demarcazione dei titoli di proprietà. Spiegò inoltre che un autentico movimento liberale non è legato a un particolare partito politico, ma piuttosto si estende da un ampio impegno culturale nei confronti della razionalità, da un pensiero e uno studio seri e da un sincero impegno per il bene comune.

  6. Il problema del corporativismo e dell'ideologia fascista. Con la fine degli anni Trenta si presentarono altri problemi. Mises aveva lavorato sulle questioni più profonde del metodo scientifico, scrivendo libri che furono tradotti in inglese solo molto più tardi, ma con l’aggravarsi della Grande Depressione, riportò la sua attenzione al denaro e al capitale. Lavorando con F. A. Hayek fondò un istituto sul ciclo economico in cui speravano di spiegare che i cicli del credito non sono insiti nel tessuto delle economie di mercato ma si estendono dalla politica manipolativa del sistema bancario centrale. Inoltre, nel corso degli anni ’30, il mondo vide esattamente ciò che temeva di più: l’ascesa della politica autoritaria negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Europa. A Vienna l’ascesa dell’antisemitismo e dell’ideologia nazista imposero un altro punto di svolta. Nel 1934 partì per Ginevra, in Svizzera, per garantirsi sicurezza personale e la libertà di scrivere; iniziò a lavorare sul suo trattato principale che arriva a 900 pagine. Fu pubblicato nel 1940 ma raggiunse un pubblico molto limitato. Dopo sei anni a Ginevra, partì per gli Stati Uniti dove trovò un posto accademico presso la New York University, ma solo perché finanziato privatamente. Quando emigrò aveva 60 anni, non aveva soldi, documenti e libri. Fu in questo periodo che scrisse le sue memorie, rimpiangendo di aver cercato di essere un riformatore e realizzato invece d'essere diventato solo uno storico del declino.

  7. I problemi della modellizzazione e del trattare le scienze sociali come scienze fisiche. La sua carriera di scrittore riprese vita negli Stati Uniti, quando sviluppò un buon rapporto con la Yale University Press e trovò un sostenitore nell'economista Henry Hazlitt, il quale lavorava per il New York Times. Tre libri uscirono in rapida successione: Bureaucracy, The Anti-Capitalistic Mentality e Omnipotent Government: The Rise of Total State e Total War. Quest'ultimo uscì lo stesso anno di The Road to Serfdom (1944) di Hayek e rappresentò un attacco ancor più sistematico al sistema nazista di razzismo e corporativismo. Fu convinto a tradurre il suo capolavoro del 1940, che venne pubblicato nel 1949 con il titolo Human Action e divenne uno dei più grandi libri di economia mai scritti. Le prime 200 pagine rivisitavano la sua tesi sul perché le scienze sociali (come l'economia) dovessero essere esaminate e comprese in modo diverso dalle scienze fisiche. Non si trattava tanto di un punto nuovo, ma di uno sviluppo ulteriore rispetto al punto di vista degli economisti classici. Mises utilizzò tutti gli strumenti della filosofia continentale dell’epoca per difendere la visione classica contro la meccanizzazione dell’economia nel XX secolo. Secondo il suo modo di pensare, il liberalismo richiedeva chiarezza economica, che a sua volta richiedeva un solido senso metodologico di come funzionano effettivamente le economie: non come macchine, ma come espressioni della scelta umana.

  8. La spinta al distruzionismo. A questo punto della storia, Mises aveva previsto lo svolgersi dell’economia e della politica del secolo con una precisione quasi perfetta: inflazione, guerra, depressione, burocratizzazione, protezionismo, ascesa dello stato e declino della libertà. Ciò che ora vedeva svolgersi davanti ai suoi occhi era ciò che in precedenza aveva definito distruzionismo: l’ideologia che si scaglia contro la realtà del mondo perché non riesce a conformarsi alle folli visioni ideologiche di destra e di sinistra. Invece di correggere gli errori, Mises vide che gli intellettuali li acuivano e iniziavano il processo di smantellamento delle basi della civiltà stessa. Con queste osservazioni ha previsto l’ascesa del pensiero anti-industriale e persino il Grande Reset stesso con la relativa valorizzazione delle filosofie della decrescita, dell’ambientalismo e persino dello spopolamento. In questo momento vediamo un Mises molto maturo che riconosce che, sebbene abbia perso la maggior parte se non tutte le sue battaglie, avrebbe comunque abbracciato la responsabilità morale di dire la verità su dove eravamo diretti.

  9. La struttura della storia. Hegel, Marx, o Hitler non avevano mai convinto Mises che il corso della società e della civiltà fosse predeterminato dalle leggi dell’universo. Vedeva la storia come una conseguenza delle scelte umane: possiamo scegliere la tirannia oppure possiamo scegliere la libertà. Dipende davvero da noi, a seconda dei nostri valori. Il suo straordinario libro Theory and History del 1956 sottolinea il fatto che non esiste un corso determinato della storia, nonostante quello che sostengono innumerevoli eccentrici. In questo senso era un dualista metodologico: la teoria è fissa e universale, ma la storia si forma per scelta.

  10. Il ruolo delle idee. Qui arriviamo alla convinzione fondamentale di Mises e al tema di tutte le sue opere: la storia è il risultato del dispiegarsi delle idee che abbiamo su noi stessi, sugli altri, sul mondo e sulle filosofie che abbiamo riguardo la vita umana. Le idee sono i desiderata di tutti gli eventi, buoni e cattivi. Per questo motivo abbiamo tutte le ragioni per essere audaci nel lavoro che svolgiamo come studenti, studiosi, ricercatori e insegnanti. Infatti questo lavoro è essenziale. Mantenne questa convinzione fino alla sua morte nel 1973.

Dopo aver ripercorso i punti principali della sua biografia e delle sue idee, permettetemi alcune riflessioni.

“Di tanto in tanto nutrivo la speranza che i miei scritti portassero frutti pratici e indirizzassero la politica nella giusta direzione”, scrisse Ludwig von Mises nel 1940, in un manoscritto autobiografico pubblicato solo dopo la sua morte. “Ho sempre cercato prove di un cambiamento ideologico, ma in realtà non mi sono mai fatto illusioni: le mie teorie spiegano, ma non possono rallentare il declino di una grande civiltà. Volevo essere un riformatore, ma sono diventato solo uno storico del declino”.

Queste parole mi colpirono duramente quando le lessi per la prima volta alla fine degli anni ’80. Queste memorie furono scritte mentre arrivava a New York dopo un lungo viaggio da Ginevra, in Svizzera, dove aveva vissuto sin dal 1934, quando fuggì da Vienna con l'ascesa del nazismo. Ebreo e liberale in senso classico, convinto oppositore dello statalismo di ogni tipo, sapeva che sarebbe finito ina una lista di proscrizione e di non avere futuro negli ambienti intellettuali viennesi. Infatti la sua vita era in pericolo e trovò rifugio presso l'Istituto di studi universitari di Ginevra.

Trascorse sei anni a scrivere la sua opera massima, una sintesi di tutto il suo lavoro fino a quel momento della sua vita – un trattato di economia che combinava preoccupazioni filosofiche e metodologiche con la teoria dei prezzi e del capitale, oltre a quella sulla moneta e sui cicli economici, e la sua famosa analisi dell'instabilità dello statalismo e l'impraticabilità del socialismo – e questo libro venne pubblicato nel 1940. La lingua era il tedesco; il mercato per un trattato di grandi dimensioni con un’inclinazione liberale classica era piuttosto limitato in quel momento storico.

Arrivò poi il momento in cui dovette lasciare Ginevra. Trovò un lavoro a New York City, finanziato da alcuni industriali che erano diventati suoi fan perché il New York Times aveva recensito i suoi libri in modo favorevole. Quando arrivò a New York, aveva 60 anni; non aveva soldi e i suoi libri e le sue carte erano scomparsi da tempo, inscatolati dagli eserciti tedeschi invasori e messi in deposito. Incredibilmente questi documenti furono successivamente trasferiti a Mosca dopo la guerra.

Grazie ad altri benefattori, venne messo in contatto con la Yale University Press che gli commissionò tre libri e la successiva traduzione del suo possente trattato in inglese. Il risultato fu Human Action, una delle opere di economia più influenti della seconda metà del XX secolo. Quando il libro venne classificato come un bestseller, erano passati 32 anni da quando aveva iniziato a scriverlo e la scrittura includeva periodi di disastro politico, sconvolgimenti professionali e guerre.

Mises nacque nel 1881, nel pieno della Belle Époque, prima che la Grande Guerra sconvolgesse l’Europa. Prestò servizio in quella guerra e sicuramente ebbe un effetto enorme sul suo pensiero. Poco prima della guerra scrisse un trattato monetario ampiamente celebrato in cui metteva in guardia contro la proliferazione delle banche centrali, prevedendo che queste avrebbero portato all’inflazione e ai cicli economici. Ciononostante non aveva ancora elaborato un orientamento politico; la situazione cambiò dopo la guerra con il suo libro del 1919 Nation, State, and Economy, che sosteneva la devoluzione degli stati in territori definiti dalla lingua.

Questo fu un punto di svolta nella sua carriera. Le idee idilliache ed emancipazioniste della sua giovinezza furono distrutte dallo scoppio di una terribile guerra che a sua volta portò al trionfo di varie forme di totalitarismo nel XX secolo. Mises spiegò il contrasto tra il vecchio e il nuovo mondo nelle sue memorie del 1940:

I liberali del diciottesimo secolo erano pieni di un ottimismo secondo cui l’umanità è razionale e quindi le idee giuste alla fine trionferanno. La luce sostituirà l’oscurità; gli sforzi dei bigotti per mantenere le persone in uno stato di ignoranza affinché possano governarle più facilmente non possono impedire il progresso. Illuminata dalla ragione, l'umanità si muove verso una perfezione sempre maggiore.

La democrazia, con la sua libertà di pensiero, di parola e di stampa, garantisce il successo della giusta dottrina: lasciamo che siano le masse a decidere; faranno la scelta più appropriata.

Non condividiamo più questo ottimismo. Il conflitto delle dottrine economiche impone alla nostra capacità di esprimere giudizi più marcati rispetto ai conflitti incontrati durante il periodo dell’Illuminismo: superstizione e scienze naturali, tirannia e libertà, privilegio e uguaglianza davanti alla legge. Il popolo deve decidere. È infatti dovere degli economisti informare i propri concittadini.

In ciò vediamo l’essenza del suo spirito instancabile. Come G. K. Chesterton, arrivò a rifiutare sia l’ottimismo che il pessimismo e abbracciò invece l’idea che la storia è costruita a partire dalle idee: quelle che poteva influenzare e quelle che invece non poteva.

Il modo in cui si affronta una catastrofe inevitabile è una questione di temperamento. Al liceo, come era consuetudine, avevo scelto un verso di Virgilio come motto: Tu ne cede malis sed contra audentior ito (“Non cedere alle avversità, ma procedi coraggiosamente contro di esse”). Ricordo queste parole durante le ore più buie della guerra. Più e più volte mi ero imbattuto in situazioni dalle quali la ragione non trovava vie di fuga; ma poi è intervenuto l’imprevisto e con esso è arrivata la salvezza. Non cederei allo sconforto nemmeno adesso. Ho voluto fare tutto ciò che un economista può fare, senza stancarmi di dire quello che sapevo essere vero. Ho quindi deciso di scrivere un libro sul socialismo. Ci avevo pensato anche prima dell'inizio della guerra, ma ora è giunto il momento di realizzarlo.

Ricordo solo di aver desiderato che Mises fosse vissuto abbastanza da vedere la fine dell’Unione Sovietica e il crollo del socialismo nell’Europa orientale. Allora avrebbe visto che le sue idee avevano avuto un effetto enorme sulla civiltà. Il senso di disperazione che provò nel 1940 si sarebbe trasformato in un più luminoso ottimismo. Forse si sarebbe sentito vendicato; sicuramente si sarebbe sentito gratificato di aver vissuto quegli anni.

Per coloro che non hanno vissuto gli anni 1989-90, è impossibile descrivere il senso di euforia. Abbiamo affrontato la Guerra Fredda per decenni della nostra vita e siamo cresciuti con un senso inquietante di “Impero del Male” e della sua portata in tutto il mondo. Le sue impronte sembravano ovunque, dall’Europa all’America centrale, fino a qualsiasi college negli Stati Uniti. Anche le religioni principali negli Stati Uniti ne sono state influenzate, poiché la “teologia della liberazione” è diventata un cavallo di battaglia per la teoria marxista.

In quello che sembrò un batter d’occhio, l’impero sovietico si disgregò. Ne seguì la pace tra i presidenti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica e un’apparente stanchezza che travolse il vecchio impero. Nel giro di pochi mesi caddero gli stati di tutta l’Europa orientale: Polonia, Germania dell’Est, quella che allora si chiamava Cecoslovacchia, Romania e Ungheria; gli stati assorbiti nei confini della Russia si staccarono e divennero indipendenti. E sì, il muro di Berlino cadde.

La Guerra Fredda fu inquadrata in termini ideologici, un grande dibattito tra capitalismo e socialismo, che poi divenne una competizione tra libertà e tirannia. Questo fu il dibattito che ha affascinato la mia generazione.

Quando sembrava risolto, tutta la mia generazione aveva la sensazione che la grande parentesi della tirannia comunista fosse finita, così che la civiltà nel suo insieme – anzi il mondo intero – potesse rimettersi in carreggiata con il compito del progresso e della nobilitazione umana. L’Occidente aveva scoperto il mix perfetto per creare il miglior sistema possibile di prosperità e pace; tutto ciò che restava era che tutti gli altri nel mondo lo seguissero come esempio.

Stranamente in quei giorni mi chiesi cosa avrei fatto con il resto della mia vita. Avevo studiato economia e scrivevo sull’argomento con fervore. Mises aveva avuto ragione: il socialismo non era altro che una forma decrepita di fascismo e non esisteva alcun "vero" socialismo.

Se il grande dibattito era ormai risolto, avrei davvero avuto qualcos'altro da dire? Tutte le domande essenziali avevano avuto risposta una volta per tutte.

Tutto ciò che sembrava restare al mondo era: libero scambio con tutti, costituzioni per tutti, diritti umani per tutti, progresso per tutti, pace per sempre. Questa tesi, questa etica culturale, è stata magnificamente catturata nell'emozionante libro di Francis Fukuyama intitolato The End of History and the Last Man.

La sua idea era essenzialmente hegeliana, in quanto postulava che la storia fosse costruita da grandi onde filosofiche che potevano essere individuate e spinte avanti dagli intellettuali. Lo spettacolare fallimento delle ideologie totalitarie e il trionfo della libertà avrebbero dovuto servire da segnale che quei sistemi non servono a nobilitare lo spirito umano. Ciò che è sopravvissuto e che si è dimostrato giusto, vero e realizzabile è una speciale combinazione di democrazia, libera impresa e stati che servono le persone attraverso programmi sanitari e di welfare generosi. Questo è il mix che funziona e tutto il mondo avrebbe adottato questo sistema. La storia è finita, scrisse Fukuyama.

Ero circondato da persone piuttosto intelligenti che dubitavano dell’intera tesi, però; anch’io la criticavo perché sapevo che lo stato sociale così com'è costituito attualmente è instabile e diretto verso la rovina finanziaria. Uno degli aspetti tragici delle riforme economiche in Russia e nell’Europa orientale è stato il fallimento nel toccare l’istruzione, l’assistenza sanitaria e le pensioni. Si erano adattati a un modello non di capitalismo, ma di socialdemocrazia.

Quest'ultima, non il liberalismo classico, è esattamente ciò che Fukuyama sosteneva. In questo senso ero critico. Ciononostante la verità è che accettai il modello storiografico più ampio: credevo davvero nel mio cuore che la storia come la conoscevamo fosse finita. L'umanità aveva imparato che la libertà è sempre migliore della schiavitù.

Tenete presente che tutto questo accadeva 30 anni fa. Nel frattempo siamo stati circondati da prove che la storia non era finita, che la libertà non era la norma mondiale e nemmeno quella statunitense, che la democrazia e l’uguaglianza non erano principi esaltati dell’ordine mondiale e che ogni forma di barbarie del passato abitava ancora in mezzo a noi.

Possiamo vederlo in Medio Oriente, in Cina, nelle sparatorie di massa negli Stati Uniti, nella corruzione politica e nelle macchinazioni politiche distruttive. Le prove si trovano anche nelle farmacie locali che sono costrette a chiudere a chiave anche il dentifricio per evitare che venga rubato.

La tesi del 1992, sulla presunta inevitabilità del progresso e della libertà, oggi giace a brandelli in tutto il mondo. Le grandi forze non solo non sono riuscite a prendersi cura di noi, ci hanno fondamentalmente tradito. E ogni giorno arriva una conferma, infatti sembra quasi di essere tornati al 1914. Come Mises e la sua generazione, anche noi veniamo introdotti alle astuzie della narrazione imprevedibile della storia e ci troviamo di fronte alla grande questione di come la affronteremo filosoficamente, psicologicamente e spiritualmente.

Questo cambiamento ha rappresentato la svolta più decisiva negli eventi mondiali degli ultimi decenni. Prima dell’11 settembre la vita era bella negli Stati Uniti e le guerre all’estero le potevamo osservare come spettatori che guardano un film in TV. Siamo rimasti in uno stato di stupore ideologico mentre le forze anti-libertà sono cresciute in patria e i dispotismi che una volta disprezzavamo all’estero si sono moltiplicati all’interno delle nostre coste.

Guardando indietro, sembra che il quadro della “fine della storia” abbia ispirato un pensiero millenarista da parte delle élite americane: la convinzione che la democrazia e il quasi-capitalismo potessero essere portati in ogni Paese del pianeta con la forza. Certamente ci hanno provato e le prove del loro fallimento sono ovunque: Iraq, Iran, Libia, Afghanistan e altrove in quella regione. Questa instabilità si è diffusa in Europa, che da allora si trova ad affrontare una crisi di rifugiati.

L’anno 2020 ha segnato un punto culminante con l’arrivo del comando/controllo capillare. Le burocrazie hanno calpestato la Carta dei diritti che in precedenza credevamo fosse la pergamena su cui potevamo fare affidamento per proteggerci. Non ci ha protetto, invece, e nemmeno i tribunali perché, come ogni altra cosa, il loro funzionamento era limitato o disabilitato per paura del Covid. Le libertà che ci erano state promesse si sono sciolte e tutte le élite nei mass media, nel mondo della tecnologia e nella sanità pubblica hanno addirittura festeggiato.

Abbiamo fatto molta strada da quei giorni fiduciosi dal 1989 al 1992, quando aspiranti intellettuali come me applaudivano l'apparente morte della tirannia all'estero. Fiduciosi nella nostra convinzione che l’umanità avesse una meravigliosa capacità di osservare le prove e imparare dalla storia, coltivavamo la convinzione che tutto sarebbe andato bene e che non ci fosse altro da fare se non modificare alcune linee guida qua e là.

La prima volta che lessi il libro di Oswald Spengler del 1916, The Decline of the West, rimasi mortificato dalla visione di un mondo diviso in blocchi commerciali e tribù in guerra, mentre gli ideali occidentali venivano calpestati da varie forme di barbarie provenienti da tutto il mondo, dove le persone non avevano alcun interesse per le nostre tanto decantate idee sui diritti umani e sulla democrazia. Infatti liquidai l’intero trattato come propaganda fascista. Ora mi pongo la domanda: Spengler stava sostenendo o prevedendo? Fa una differenza enorme. Non ho rivisitato il libro per scoprirlo, quasi non lo voglio sapere.

No, la storia non è finita e questo dovrebbe essere una lezione per tutti noi: non dare mai per scontato un certo percorso, perché ciò alimenta l’autocompiacimento e l’ignoranza. Libertà e diritti sono rari, e forse sono questi ultimi e non il dispotismo la grande eccezione; è stato un caso che ci abbiano formato in un momento insolito nel tempo.

L’errore che abbiamo commesso è stato credere che ci sia una logica nella storia. Non c'è, c'è solo la marcia delle idee buone e di quelle cattive, e l'eterna competizione tra le due. E questo è un messaggio centrale del capolavoro trascurato di Mises, Theory and History, del 1954. In esso ci offre una confutazione devastante al determinismo di ogni tipo, sia quello dei vecchi liberali, sia quello di Hegel o di Fukuyama.

“Una delle condizioni fondamentali dell'esistenza e dell'azione dell'uomo è il fatto che egli non sa cosa accadrà in futuro”, scrisse Mises, “l’esponente di una filosofia della storia, arrogandosi l’onniscienza di Dio, pretende che una voce interiore gli abbia rivelato la conoscenza delle cose future”.

Quindi cosa determina la narrazione storica? La visione di Mises è sia idealistica che realistica.

La storia si occupa dell’azione umana, cioè delle azioni compiute da individui e gruppi d'individui. Descrive le condizioni in cui vivevano le persone e il modo in cui reagivano a queste condizioni. Il suo oggetto sono i giudizi umani di valore e i fini a cui gli uomini mirano guidati da questi giudizi, i mezzi a cui gli uomini fanno ricorso per raggiungere i fini ricercati e il risultato delle loro azioni. La storia si occupa della reazione cosciente dell'uomo allo stato del suo ambiente, sia l'ambiente naturale che l'ambiente sociale, come determinato dalle azioni delle generazioni precedenti così come da quelle dei suoi contemporanei.

Per la storia non c'è niente al di là delle idee degli uomini e dei fini a cui tendevano motivati da queste idee. Quando lo storico si riferisce al significato di un fatto, si riferisce sempre o all'interpretazione che gli esseri umani hanno dato della situazione in cui dovevano vivere e agire, e all'esito delle loro azioni conseguenti, oppure all'interpretazione che altri esseri umani hanno dato al risultato di quelle azioni. Le cause finali alle quali la storia si riferisce sono sempre i fini a cui tendono gli individui e i gruppi d'individui. La storia non riconosce nel corso degli eventi altro significato e senso se non quello loro attribuito dagli esseri umani, giudicato dal loro punto di vista.

Come studenti dell'Hillsdale College, avete scelto un percorso profondamente radicato nel mondo delle idee. Le prendete sul serio. Passate innumerevoli ore a studiarle. Nel corso della vostra vita affinerete, svilupperete e cambierete idea in base alle esigenze del tempo, del luogo e dello svolgersi della narrazione. La grande sfida dei nostri tempi è comprendere il potere di queste idee nel plasmare la vostra vita e il mondo che vi circonda.

Come Mises conclude quest'opera: “Finora in Occidente nessuno degli apostoli della stabilizzazione e della pietrificazione è riuscito a cancellare la disposizione innata dell'individuo a pensare e ad applicare a tutti i problemi il metro della ragione”.

Finché ciò rimane vero, c’è sempre speranza, anche nei momenti più bui. Né dovremmo essere tentati di credere che i tempi migliori siano destinati a definire la nostra vita e quella dei nostri figli. I tempi bui possono sempre tornare.

Nel 1922 Mises scrisse le seguenti parole:

La grande discussione sociale non può procedere altro modo se non attraverso il pensiero, la volontà e l’azione degli individui. La società vive e agisce solo negli individui; non è altro che un certo atteggiamento da parte loro. Ognuno porta sulle spalle una parte della società; nessuno è sollevato dalla sua parte di responsabilità sugli altri. E nessuno può trovare una via d'uscita sicura per sé stesso se la società si sta dirigendo verso la distruzione. Perciò ciascuno, nel proprio interesse, deve impegnarsi con vigore nella battaglia intellettuale. Nessuno può farsi da parte con indifferenza; gli interessi di tutti dipendono dal risultato. Che lo voglia o no, ogni essere umano è trascinato nella grande lotta storica, nella battaglia decisiva nella quale la nostra epoca ci ha scaraventato.

E anche quando non ci sono prove per giustificare la speranza, ricordate le parole di Virgilio: Tu ne cede malis sed contra audentior ito.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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1 commento:

  1. Grazie per avere tradotto e postato questo pregevole articolo.
    Saluti.
    Antonio Pani

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