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lunedì 4 dicembre 2023

Il motivo per cui la politica monetaria dovrebbe essere lasciata al libero mercato

 

 

di David Stockman

Gli attuali sviluppi sul fronte dell’inflazione dovrebbero ricordare chiaramente che la politica monetaria discrezionale è una delle più grandi sciagure stataliste, se non la più grande, dei nostri tempi. In fin dei conti il sistema bancario centrale moderno è semplicemente una copertura per consentire l’espansione delle attività burocratiche, creando crisi e dislocazioni inutili e, a causa di tassi d'interesse falsamente convenienti, consentire vasti aumenti del debito pubblico.

Nell’attuale capitolo delle macchinazioni di politica monetaria post-Volcker, le banche centrali stanno presumibilmente tentando di riportare l’inflazione al sacrosanto “obiettivo” del 2,00% senza mandare l’economia in recessione, ma falliranno (di nuovo).

Questo perché non hanno gli strumenti per controllare il tasso d'inflazione con precisione (o qualsiasi altro macro-obiettivo) e nemmeno per misurarlo con l’accuratezza implicita nei loro obiettivi. A questo riguardo, la politica monetaria in un solo Paese non è più valida di quanto lo fosse il socialismo in un solo Paese quando Stalin lo sostenne alla morte di Lenin nel 1924. Era sbagliato allora ed è sbagliato adesso.

Nel caso attuale le banche centrali possono fare solo una cosa tangibile: possono creare o estinguere crediti in valuta fiat attraverso le loro operazioni di mercato aperto, ma non hanno praticamente alcun controllo sul destino e sull’impatto di questi crediti mentre si snodano attraverso i canyon del sistema finanziario e infine attraverso il mercato reale dell’economia mondiale e i suoi collegamenti globali con il commercio di merci, l’arbitraggio internazionale del costo del lavoro e i flussi dei mercati monetari e dei capitali.

Ad esempio, la FED non ha alcun controllo sul prezzo di riferimento globale per il petrolio greggio, il quale si è nuovamente spinto oltre i $90 al barile, portando il prezzo relativo interno del WTI da un recente minimo di $65 al barile (maggio 2023) a quasi $85. Inoltre l’offerta di petrolio greggio è destinata a rimanere sostanzialmente ridotta di oltre 1,7 milioni di barili al giorno a causa dell’estensione dei tagli alla produzione da parte di Russia, Arabia Saudita e membri minori dell’OPEC.

Come risultato di questi vincoli di offerta e della continua domanda globale, le scorte di petrolio greggio degli Stati Uniti hanno raggiunto il minimo degli ultimi 40 anni, pari a un consumo di 46 giorni. In parte ciò è dovuto alle sciocche politiche di Biden che hanno drenato quasi 300 milioni di barili dalla riserva strategica nazionale (SPR) nel palese tentativo di ridurre i prezzi alla pompa durante le elezioni del Congresso dello scorso novembre.

Come mostra il grafico qui sotto, le scorte attuali rappresentano solo il 50% del picco delle scorte raggiunto a maggio 2020. Ancora una volta, ciò era dovuto a uno sviluppo non monetario – il crollo economico derivante dai lockdown – che ha fatto scendere la domanda di petrolio portando a fondo i prezzi.

Inutile dire che quei 46 giorni non rappresentano neanche una goccia nel mare. Ammontano all’equivalente di quasi 800 milioni di barili di petrolio greggio, o a più di due mesi di produzione nazionale di greggio. E questo è stato amplificato a livello globale a causa delle oscillazioni della domanda e delle scorte di pari entità.

Di conseguenza il percorso del prezzo del WTI (linea gialla) nel grafico qui sotto è stato violento, tanto per usare un eufemismo. Anche su base media mensile, il percorso dei prezzi è crollato del 63%, da $52 a gennaio 2020 fino al minimo di $19 al termine dei lockdown nell’aprile 2020; poi è salito inesorabilmente del 500% fino al picco di $114 due anni dopo, a maggio 2022, per poi tornare al già citato minimo di $65 nel maggio 2023, rappresentando così un calo del 43%. E ora è aumentato di oltre il 30% ed è destinato ad aumentare considerevolmente poiché le scorte continuano a ridursi a causa del consumo giornaliero ben al di sopra della produzione su base globale.

Goldman Sachs prevede quindi che il prezzo di mercato del Brent possa nuovamente superare i $100 al barile entro la fine del 2024.

La banca si aspettava che a gennaio i Paesi avrebbero ripristinato la metà del taglio di 1,7 milioni di barili al giorno annunciato ad aprile. Ora valuta la possibilità di una proroga ancora più lunga.

“Consideriamo uno scenario rialzista in cui l’OPEC+ mantiene i tagli del 2023 [...] pienamente in vigore fino alla fine del 2024 e in cui l’Arabia Saudita aumenta solo gradualmente la produzione”, hanno scritto nella loro relazione gli analisti di Goldman Sachs.

In questo scenario i prezzi del petrolio Brent salirebbero probabilmente a $107 al barile nel dicembre 2024, ha affermato la banca.

Naturalmente, con ritardi e coefficienti variabili, il percorso del prezzo del petrolio greggio ha trascinato con sé l’IPC principale (linea rossa) e il più stabile IPC 16% trimmed mean (linea viola). Nel primo caso l'IPC principale al 2,5% su base annua a gennaio 2020 era crollato ad appena lo 0,2% a maggio 2020, per poi esplodere selvaggiamente salendo all’8,9% annuo nel giugno 2022; poi è sceso ad appena il 3,0% nel giugno 2023 prima di risalire nuovamente al 3,3% a luglio.

A causa del meccanismo di livellamento intrinseco incorporato nell'IPC 16% trimmed mean (linea viola), il percorso in questo periodo di 42 mesi è stato molto più piatto, ma ancora lontano dagli obiettivi della FED. L’aumento del 2,4% su base annua registrato a gennaio 2020 era sceso solo leggermente, al 2,3%, a maggio 2020, per poi risalire fino a un picco del 7,3% a settembre 2022 e ora si è attestato al 4,8% a luglio.

Tuttavia quest’ultimo numero è ancora pari a quasi 2,5 volte l’obiettivo d'inflazione della FED, anche se l’andamento mondiale dei prezzi del petrolio e di altre materie prime minaccia ora di far salire ancora una volta gli indicatori dell’inflazione al consumo.

Prezzo del petrolio greggio rispetto all’IPC principale e all’IPC 16% trimmed mean, da gennaio 2020 a luglio 2023

Ecco una storia simile per i prezzi dei prodotti alimentari nello stesso periodo di 42 mesi a partire dal gennaio 2020. In questo caso l’indice globale dei prezzi alimentari (linea viola) era pari al +4,9% a gennaio 2020, per poi scendere al -8,5% su base annua ad aprile, prima di impennarsi al +41% annuo nel maggio 2021. Successivamente si è diretto violentemente in basso, toccando il fondo al -14% il 23 maggio, per poi risalire nuovamente a partire da luglio a un tasso annuo del +22%.

La componente alimentare dell’indice dei prezzi al consumo (linea rossa), ovviamente, ha seguito un percorso simile, anche se più modulato: è aumentato da meno dell’1% annuo a gennaio 2020 a un picco del 13,5% nell’agosto 2022. A luglio 2023 la misura annua si era raffreddata al 3,6%, ma ancora una volta la tendenza mondiale è ora in forte aumento, il che significa che anche questa componente dell’IPC ha probabilmente toccato il fondo.

In entrambi i casi, le guerre, il clima e le politiche governative di controllo dell’offerta in tutto il mondo superano di gran lunga qualsiasi impatto trascurabile sui prezzi alimentari che potrebbe derivare dalle macchinazioni delle banche centrali. Infatti dubitiamo che tali impatti siano rilevabili poiché, anche se si innescasse una notevole recessione, la domanda alimentare ne sarebbe scarsamente influenzata.

Variazione annua dell'indice alimentare mondiale rispetto ai prezzi dei negozi di alimentari nell'indice dei prezzi al consumo, da gennaio 2020 a luglio 2023

Decine di milioni di attori del libero mercato – produttori, lavoratori, distributori, rivenditori, risparmiatori, investitori e speculatori – hanno molte più possibilità di “scoprire” il giusto prezzo per gli input economici rispetto ai presunti geni che popolano le banche centrali.

Inoltre il vantaggio della scoperta dei prezzi sul libero mercato è che essa viene continuamente adattata e si autocorregge man mano che emergono nuove informazioni e si manifestano nuove condizioni economiche. Infatti nel libero mercato c'è praticamente zero possibilità che i tassi d'interesse vengano mantenuti troppo bassi per troppo tempo, com'è avvenuto nel recente passato.

Sì, l’inflazione è ancora ovunque ed è sempre un fenomeno monetario, ma il denaro in questione è quello prodotto da dozzine di banche centrali, non semplicemente dalla Federal Reserve, e i suoi effetti in ritardo sono così variabili ed estesi nel tempo da essere inconoscibili.

Ecco perché, in fin dei conti, la soluzione migliore anche per l'inflazione generale del livello dei prezzi è quella di lasciarla al libero mercato.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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