venerdì 6 ottobre 2023

L'enorme elefante nella stanza che nessuno vuole vedere: il mercato degli eurodollari

 

 

di Alasdair Macleod

Tra i tanti problemi monetari che i mercati si trovano ad affrontare, ce n’è uno non documentato: il mercato dell’eurodollaro, un enorme elefante nella stanza.

Questo saggio quantifica gli eurodollari e le obbligazioni in eurodollari, cifre che si aggiungono all’offerta di denaro e al credito statunitense.

Una ricerca della Banca dei Regolamenti Internazionali stima che questo mercato valga $93.000 miliardi, di cui il debito in bilancio (cioè i depositi dei clienti) delle banche non statunitensi ammonta a $15.000 miliardi. Questa somma dovrebbe essere aggiunta a M2 degli Stati Uniti, pari a $21.000 miliardi, per avere un quadro più fedele del credito bancario totale in dollari. Solo una piccola percentuale di questo debito è espressa in altre valute.

In questo saggio descrivo l’origine degli eurodollari e il motivo per cui sono cresciuti fino a raggiungere una quantità così enorme. Introducono rischi imprevisti sui mercati dei capitali, e in particolare sul dollaro, in un momento di crescente instabilità finanziaria. Sebbene i fattori che porteranno a una crisi in stile Triffin siano già presenti, la liquidazione del credito in eurodollari costituirà un ulteriore fattore di rischio.

Questa non sarà necessariamente una crisi facile da affrontare per gli investitori e l’esperienza del passato ci dice che la reazione iniziale a una crisi mondiale è solitamente quella di rafforzare il dollaro. Se ciò accadesse, rischia di essere di breve durata perché i proprietari esteri di obbligazioni in dollari ($135.000 miliardi sia negli Stati Uniti che all’estero) sono destinati a trasformarsi in venditori.


Introduzione

La metafora dell’elefante nella stanza in realtà è inadeguata per descrivere gli enormi problemi che affliggono il sistema monetario fiat: il distacco del credito dalla moneta reale, l’insolvenza dei bilanci delle banche centrali, la determinazione delle banche commerciali a ritirare il credito quando i mutuatari disperati ne hanno più bisogno, la crisi generata dall’aumento dei tassi d'interesse, il crollo dei valori finanziari a causa dell’aumento dei rendimenti obbligazionari, la sfida al dollaro da parte dei due egemoni asiatici e la sfida al capitalismo da parte del degrado morale interno. Oh, e non dimentichiamo tutte le banche commerciali e i loro mutuatari che falliranno a causa di tassi d'interesse e rendimenti obbligazionari ancora più elevati e i guai economici per tutti quegli stati spendaccioni di fronte a deficit crescenti che sarà impossibile finanziare senza generare inflazione.

Ma c'è un ulteriore pachiderma che è sfuggito all'attenzione: la montagna di crediti offshore in dollari non registrati, noti come eurodollari ed eurobond.

Perché? Ebbene, nel nostro pazzo mondo in cui ci sono statistiche per tutto, guarda caso non ci sono per questo tema e quindi si presume che non esista. Nelle relazioni annuali della Banca dei Regolamenti Internazionali non si fa menzione degli eurodollari e lo stesso vale per l'FMI e la Banca Mondiale. Claudio Borio e colleghi hanno pubblicato stime delle esposizioni bancarie e non bancarie, in bilancio e fuori bilancio, al di fuori degli Stati Uniti nei confronti dei dollari, che sono in effetti eurodollari; ciononostante per lui e i suoi colleghi questi non sono eurodollari, perché il termine non viene mai menzionato. Rispondono alla seguente definizione:

Un eurodollaro è un credito in dollari creato da banche straniere e indipendentemente dal sistema bancario statunitense.

Si tratta di eurodollari, creati esattamente nello stesso modo in cui una banca americana crea dollari prestandoli. Il debito bancario è costituito dai depositi dei clienti che poi vengono bilanciati dalla creazione di prestiti. Suddetti depositi, però, sono offshore, quindi non sono inclusi nelle statistiche statunitensi sull’offerta di denaro. Ci sono circa $6.500 miliardi in depositi bancari statunitensi di proprietà di stranieri, di cui $1.250 miliardi si trovano nelle filiali statunitensi di banche straniere; gli eurodollari si aggiungono a questi depositi.

I debiti degli istituti di credito non bancari sono la somma della contropartita dei prestiti concessi dalle banche e degli ulteriori obblighi assunti tra di loro. In breve, sono noti come sistema bancario ombra: le compagnie di assicurazione, le casse pensioni, i fondi d'investimento e tutti gli istituti nel settore finanziario che operano senza licenza bancaria. Non trattano crediti, che sono ad appannaggio delle banche autorizzate, ma stipulano obblighi di credito con le banche e tra loro. E poi c’è il mercato obbligazionario in eurodollari, il quale rappresenta un’ulteriore montagna di credito.


Le origini degli eurodollari

Se vi rivolgete a una banca non statunitense per un prestito in dollari ed essa accetta, tale banca lo creerà come se stesse prestando nella propria valuta. Nel suo bilancio il prestito concesso a voi viene registrato come un attivo ed è bilanciato (nei libri contabili della banca, ma non necessariamente riflesso nella presentazione del vostro conto) da un deposito corrispondente, o da una passività nei vostri confronti in veste di depositante. La banca può farlo in qualsiasi valuta, purché esista un mercato all’ingrosso efficiente e un sistema di compensazione – entrambi esistenti per il dollaro a livello internazionale e indipendentemente dal sistema bancario statunitense, sebbene i saldi possano essere ottenuti ugualmente anche a New York.

Si ritiene comunemente che il mercato dell’eurodollaro sia stato avviato all’inizio degli anni ’60, ma ciò si riferisce alle obbligazioni in eurodollari. Si trattava della logica innovazione rispetto ai depositi in eurodollari, che esistevano sin dal 1955, se non prima. Gli eurobond nacquero con un prestito al governo belga nel maggio 1963.

Le origini di un mercato offshore del dollaro, con cui intendiamo depositi in dollari emessi al di fuori del sistema bancario americano e non riflessi nei conti bancari corrispondenti a New York, videro la luce negli anni del dopoguerra, quando il Regolamento Q degli Stati Uniti limitò gli interessi sui depositi bancari all'1% sui depositi a 30 giorni e al 2,5% sui depositi a 90 giorni; malgrado ciò si potevano depositare dollari presso una banca londinese e guadagnare più interessi rispetto alla limitazione del Regolamento Q. Questo divenne un mercato interamente offshore a Londra, perché i controlli sui cambi introdotti nel Regno Unito nel 1957 proibivano di prendere in prestito e depositare dollari.

La domanda di depositi offshore a Londra portò all’innovazione e la Midland Bank era in testa. Essa offriva un interesse fino all'1,825% per depositi a 30 giorni denominati in dollari, lo 0,825% in più rispetto al massimo pagabile negli Stati Uniti ai sensi del Regolamento Q. La Midland, poi, vendeva i dollari a pronti in cambio di sterline e li riacquistava a termine con un premio del 2,125%. La sterlina risultante pertanto costava alla Midland il 4% in un momento in cui il tasso bancario era al 4,5%.

Anche se ciò metteva in discussione il cosiddetto "accordo tra gentiluomini" tra la Banca d’Inghilterra e le banche per azioni che stabilivano i rapporti in quel momento, l’attività della Midland Bank era inizialmente tollerata dalla Banca d’Inghilterra, probabilmente perché gli afflussi di valuta convertiti in sterline aiutavano la bilancia dei pagamenti. E nel 1963 le banche del Regno Unito avevano accumulato oltre $3 miliardi in depositi in eurodollari. Inoltre altri centri europei divennero attivi in questo mercato, in particolare Italia, Svizzera e Francia; anche il Giappone stava creando depositi in eurodollari. Il mercato non si limitava ai dollari: venivano creati depositi anche in altre valute, aggiungendo circa il 15% in più al mercato totale.

Non c’è dubbio che i primi anni del mercato dell’eurodollaro furono alimentati dalla circolazione del dollaro al di fuori dell’America post-Bretton Woods, il tutto spinto dalla guerra di Corea (1950-1953) e dalla guerra del Vietnam (1955-1975). L'accumulo di dollari in mani straniere portò alla creazione e al fallimento del Gold pool di Londra; non si trattava solo dei saldi detenuti da stranieri nel sistema bancario statunitense, ma dell’accumulo di depositi in dollari offshore che poi venivano incassati in lingotti d'oro.


Quantificare l’attuale mercato dell’eurodollaro

Il documento di lavoro di Borio non mira tanto a quantificare le dimensioni del mercato dell’eurodollaro, ma i rischi intrinseci nel credito offshore in dollari, motivo per cui le banche ombra sono incluse nel suo documento. I suoi calcoli, che si basano esclusivamente sugli oneri monetari, sono riassunti nella Tabella 1 di seguito.

Va notato che i debiti in dollari nei bilanci bancari al di fuori degli Stati Uniti sono passività con lo stesso status del deposito bancario di un cliente, indipendentemente da dove si trova quest'ultimo. E a parte le onerose normative in materia di rendicontazione fiscale, non c’è nulla che impedisca a una banca offshore di offrire servizi di deposito a un residente negli Stati Uniti.

Se i depositi bancari in eurodollari fossero inclusi nell’offerta monetaria degli Stati Uniti, vi sarebbero aggiunti ulteriori $15.000 miliardi, secondo la stima di Borio riguardo il debito in bilancio delle banche con sede al di fuori degli Stati Uniti. E come notato sopra, le filiali statunitensi di queste banche sono già incluse nelle statistiche sull’offerta di denaro nazionale. Il debito fuori bilancio delle banche con sede al di fuori degli Stati Uniti è costituito principalmente da obbligazioni creditizie derivanti da swap e impegni monetari, di cui circa l’88% ha il dollaro come protagonista; inoltre la maggior parte di questi impegni sono a breve termine. Il restante 12% rappresenta pagamenti in valute estere alle banche coinvolte, come euro, sterline, yen e yuan.

Dalla Tabella 1 possiamo vedere che i $15.000 miliardi di credito extra in eurodollari creati dalle banche con sede al di fuori degli Stati Uniti, sostengono un’immensa struttura di credito attorno alla quale ruota l’attività economica mondiale. Come afferma il documento della BRI:

Incorporato nel mercato dei cambi (FX) c’è un enorme e invisibile prestito in dollari. In uno swap FX, ad esempio, un fondo pensione olandese o un assicuratore giapponese prende in prestito dollari e presta euro o yen nella “gamba a pronti”, e successivamente rimborsa i dollari e riceve euro o yen nella “gamba a termine”. Pertanto uno swap FX, insieme al suo cugino stretto, uno swap monetario, assomiglia a un accordo di riacquisto, o repo, con una valuta anziché un titolo come “garanzia”. A differenza dei pronti contro termine, gli obblighi di pagamento derivanti da questi strumenti sono registrati fuori bilancio, in un punto cieco dello stesso. Gli oltre $80.000 miliardi di obbligazioni per pagare dollari in swap/forward monetari e swap monetari, per lo più a brevissimo termine, superano gli stock di bond del Tesoro USA in dollari, pronti contro termine e paper commercial market messi insieme. Nell’aprile 2022 il numero di operazioni si è avvicinato ai $5.000 miliardi al giorno, due terzi del turnover forex mondiale giornaliero.

I mercati monetari sono l’area corretta su cui concentrarsi, perché oltre ai flussi speculativi, rappresentano pagamenti per materie prime, importazioni/esportazioni e tutti gli altri trasferimenti transfrontalieri. Ad esempio, supponiamo che un produttore cinese voglia acquistare rame dall'Indonesia. Supponendo che il venditore voglia essere pagato in dollari, la banca del produttore glieli metterà a disposizione e addebitandoli sul conto in renminbi del produttore al tasso di cambio corrente. La banca può coprire il suo pagamento in dollari nei mercati all’ingrosso, possibilmente da un’altra banca cinese perché le banche cinesi tenderanno a posizionarsi long nei confronti dei dollari. In alternativa, potrebbe esserci una banca indonesiana disposta a vendergli dollari. Il punto è che esistono i mezzi affinché la banca possa coprire i dollari pagati al venditore indonesiano, senza ricorrere a una banca americana.

I governi esteri e le loro agenzie in particolare possono essere riluttanti a coinvolgere le banche americane, perché la proprietà effettiva dei depositi bancari statunitensi è a disposizione delle agenzie governative statunitensi. Questo è uno dei motivi che alimentano l’espansione del mercato dell’eurodollaro. Fu per questo motivo che negli anni '60 la Banca Narodny di Mosca partecipò attivamente al mercato dell'eurodollaro a Londra.


Rischi potenziali

Molto è stato scritto sui rischi sistemici, sulla base del fatto che la crisi di un sistema bancario rischia di minare la credibilità di un altro. L’approccio comune è quello di contenere il più possibile i rischi di controparte tra i centri e, in effetti, ciò è stato fatto nelle transazioni monetarie dopo il fallimento della Herstatt Bank nel 1974. In quella crisi fu la differenza di fuso orario tra Francoforte e New York a portare a fallimenti nei saldi commerciali. Tale rischio fu infine eliminato nel 2002, quando venne introdotto il sistema di saldo collegato continuo. Ma ciò vale solo per le transazioni interbancarie.

Il sistema di saldo collegato continuo non si applica alle obbligazioni creditizie continue, come gli swap di valute e le transazioni a termine, che come possiamo vedere dall’analisi di Borio ammontano a $93.000 miliardi. Si tratta di rischi che potrebbero essere risolti o meno in futuro. I rischi risiedono tra i clienti bancari nella categoria del sistema bancario ombra (compresi gli attivi fuori bilancio delle banche) e le singole banche. Oltre al rischio bancario, questo mercato incarna anche un rischio monetario.

Ora che le banche stanno limitando le loro attività di bilancio, dobbiamo tenere conto della contrazione della cifra di mercato di $93.000 miliardi di eurodollari e della potenziale volatilità che potrebbe causare nei tassi di cambio. Dai dati TIC del Tesoro degli Stati Uniti sappiamo che gli stranieri possiedono saldi di depositi in dollari statunitensi onshore e assetà finanziari che ammontano a $32.000 miliardi, di cui $7.250 miliardi in depositi bancari, bond del Tesoro USA e altri asset a breve termine. Con il credito in eurodollari, si tratta di un totale di $125.000 miliardi in obbligazioni in dollari. Secondo Borio le obbligazioni a breve termine in eurodollari ammontano a quattro quinti del totale dei suddetti $93.000 miliardi ($74.500 miliardi), che sommati alle obbligazioni a breve termine onshore ($7.250 miliardi) danno un totale complessivo di $81.750 miliardi. Questa liquidità in dollari è un enorme elefante e ha il potenziale per schiacciare l’ambiente circostante.

Inoltre gli oneri di credito a lungo termine sotto forma di eurobond ammontano a ulteriori $10.000 miliardi, la maggior parte dei quali sono denominati in dollari.


La fragilità dei sistemi bancari esteri

Dopo aver quantificato questo mercato, rivolgiamo ora la nostra attenzione alle sue istituzioni. Gli eurodollari sono obbligazioni in dollari create da banche non statunitensi, comprese le filiali bancarie statunitensi situate al di fuori degli Stati Uniti. I saldi in dollari di queste banche sostengono un’enorme struttura di credito, circa l’80% del quale matura in un anno, e quindi devono essere considerati equivalenti alla liquidità (depositi) e quasi liquidità (swap monetari e forward). In definitiva, si tratta di $74.000 miliardi su un totale di $93.000 miliardi. Ciò solleva la questione della capacità dei relativi clienti di pagare le banche coinvolte.

Il business dell’eurodollaro è concentrato nelle banche più grandi, le cosiddette banche d'importanza sistemica mondiale, o GSIB. I prezzi delle loro azioni hanno fatto registrare di recente un rialzo, in alcune giurisdizioni più che in altre, a seconda dell'interpretazione dei benefici a breve termine derivanti dalla fine della soppressione dei tassi d'interesse. È importante sottolineare che la loro valutazione incorpora la convinzione che i tassi d'interesse scenderanno nel 2024, riducendo la pressione sui loro bilanci derivante dal calo dei valori delle obbligazioni, dei valori delle garanzie e da una riduzione della prospettiva di prestiti in sofferenza.

Tuttavia c’è una grande spada di Damocle che pende su questo punto di vista panglossiano: i prezzi dell'energia sono in forte aumento e le banche stesse stanno attingendo al credito, esercitando pressioni affinché i tassi d'interesse salgano ulteriormente, e quindi anche i rendimenti obbligazionari. E tutto questo alla vigilia di un rallentamento quasi certo dell’attività economica.

Ora mettetevi nei panni, diciamo, di una GSIB dell’Eurozona. Il mercato ha poca fiducia nella vostra banca, valutandola con uno sconto sostanziale rispetto al valore contabile. Sulla carta, la leva finanziaria del vostro bilancio è venti volte superiore al patrimonio netto. Queste semplici statistiche vi dicono che la vostra banca è a rischio di una corsa agli sportelli, data la realtà espressa nel paragrafo precedente. Il problema non sono i depositanti, ma il rapporto con le altre banche sui mercati all’ingrosso. Non solo dovete ridurre i rischi sul vostro bilancio, se non l'avete già fatto, ma dovete ridurne le dimensioni.

I vostri profitti sono in euro, ma avete passività in eurodollari; è a dir poco chiaro dove dovrebbe esserci la riduzione dell’esposizione. Non è solo una questione di eliminare il rischio monetario, ma le pressioni politiche da parte dei propri governi mirano a non ridurre il credito nell’economia nazionale. Pertanto dovete vendere dollari, riducendo la vostra presenza sui mercati forex.


L'altro lato di Triffin

Robert Triffin è famoso per la sua spiegazione del motivo per cui un Paese deve gestire la propria economia in modo irresponsabile se vuole fornire sui mercati internazionali una quantità di valuta sufficiente affinché possa fungere da valuta di riserva. E questo è esattamente ciò che i governi statunitensi hanno fatto negli anni del dopoguerra, in particolar modo dopo che il presidente Nixon abrogò l’accordo di Bretton Woods. Il risultato è stato un accumulo di passività creditizie in dollari nei confronti degli stranieri, evidenziate come depositi nelle banche statunitensi, obbligazioni governative/societarie e investimenti di portafoglio in azioni statunitensi.

Quando Triffin testimoniò davanti al Congresso nel 1958, o era semplicistico a beneficio dei politici, oppure ignorava il vero ruolo del credito. Anche a quel tempo le banche straniere, soprattutto a Londra, si occupavano di credito in dollari creando prestiti e depositi in aggiunta al credito in dollari circolante negli Stati Uniti. Se lo avesse saputo in quel momento, Triffin non avrebbe dovuto sostenere con tanta forza che per creare lo status di valuta di riserva, il governo degli Stati Uniti avrebbe dovuto seguire politiche economiche irresponsabili. Tuttavia quando venne a conoscenza della creazione di credito in dollari al di fuori degli Stati Uniti, adottò la linea che sto seguendo in questo saggio. Il seguente è un estratto da un documento di lavoro della BRI a firma di Micheal Bordo (2017):

Triffin non tenne conto di quello che era diventato un sostanziale stock di dollari statunitensi detenuto dalle banche centrali straniere offshore che, secondo la sua analisi, aveva peggiorato la posizione degli Stati Uniti. Anni dopo, la crescita del mercato offshore del dollaro portò Triffin ad aggiungere depositi ufficiali in eurodollari alle riserve in dollari detenute negli Stati Uniti, un’aggiunta successivamente trascurata dagli economisti internazionali. Questo punto non è solo una nota storica.

Esso merita di essere approfondito perché lo stesso malinteso, secondo cui tutti i dollari sono tenuti negli Stati Uniti, affligge le versioni più recenti di Triffin. Quattro anni dopo la comparsa della crisi dell’oro e del dollaro, nel settembre 1963 il mondo venne a conoscenza di uno stock di $4,45 miliardi di passività bancarie in dollari al di fuori degli Stati Uniti (BRI, 1964). Successivamente la Banca dei Regolamenti Internazionali aumentò la sua stima a $6,94 miliardi (BRI, 1965). Le banche centrali detenevano circa la metà di tali depositi offshore in dollari (BRI, 1966, pp. 146-147) presumibilmente per ottenere guadagni più elevati su questi fondi rispetto a quelli che potevano staccare negli Stati Uniti (BRI, 1964, p. 132).

Tuttavia, come ci si poteva aspettare e nonostante gli avvertimenti di Triffin, il governo degli Stati Uniti ha abbracciato la scusa dei deficit gemelli: a livello nazionale e internazionale. Ciò ha innescato la seconda parte del Dilemma di Triffin: queste politiche economiche irresponsabili erano insostenibili e avrebbero portato a una crisi, come quella avvenuta nel 1931 e nel 1933. E questo, come sostenne Felix Mylarski nel 1929, avrebbe portato a una corsa agli sportelli delle riserve auree statunitensi quattro anni dopo, quando Roosevelt rinnegò la convertibilità dell'oro in dollari nel 1933.

Nonostante questa storia, l’espansione dei dollari in mani straniere, riconosciuta nel sistema bancario statunitense e nel mercato in via di sviluppo dell’eurodollaro, portò a un’ulteriore crisi negli anni ’60 – ancora una volta, ci fu una corsa agli sportelli delle riserve auree statunitensi. Inizialmente gli americani costrinsero gli europei a impegnare le proprie riserve auree per sopprimere il prezzo dell’oro a $35 nel Gold Pool di Londra, istituito nel 1961. Ma dopo un po’, nel 1967, tale istituzione fallì quando la sterlina fu svalutata e la Francia si chiamò fuori.

Oggi siamo di fronte alla stessa situazione. Questa volta, forse, è meno ovvia, perché quasi nessuno pensa che il suo riflesso sia in un aumento del prezzo in dollari dell’oro (che più precisamente è un calo del valore del credito in dollari). Proprio come la crisi di Triffin si è sempre riflessa nella relazione dollaro/oro, anche oggi sarà così, e non c'è alcun standard aureo da rompere su cui far cadere le colpe.


Deflazione da debito

In questo saggio ho dimostrato che esiste un intero mondo di credito in dollari oltre a quello registrato nel sistema bancario statunitense. Ciò rende il dollaro considerevolmente più vulnerabile a un “evento Triffin” di quanto generalmente previsto, nonostante la pletora di commentatori che ora vedono un calo dei tassi d'interesse entro la fine del prossimo anno.

C’è una pressione sempre più evidente sull’indice dei prezzi al consumo a causa dell’aumento dei prezzi del petrolio e di un’incombente carenza di gasolio da riscaldamento e diesel per il prossimo inverno. Senza contare quelle teorie secondo cui l’era delle valute fiat lascerà il posto a valute associate alle materie prime, come quella di una Bretton Woods 3 proposta da Zoltan Posar. Ma come è sempre avvenuto, il mainstream sottovaluta le conseguenze economiche del ciclo del credito bancario.

Questo ciclo, che è responsabile dei boom/bust sin dallo sviluppo del sistema bancario moderno, ha ricevuto ulteriore slancio dai tassi d'interesse a zero e negativi. Non è un caso che i sistemi bancari che hanno un indebitamento maggiore siano quelli i cui margini sono stati maggiormente compressi dai tassi d'interesse negativi. Credit Suisse è già fallita e i suoi omologhi GSIB nell’Eurozona e in Giappone sono sulla stessa barca; senza contare che ora sono diventati avversi al rischio, essendo pienamente consapevoli del duplice pericolo di un calo del valore delle obbligazioni (verso il quale alcuni di loro hanno un rischio di durata eccessiva) e di un aumento dei crediti inesigibili da parte di imprese che potrebbero giustificare i loro livelli di debito a tassi d'interesse infimi, ma non in questo contesto di tassi elevati.

In breve, questo è il motivo per cui i prestiti bancari negli Stati Uniti, nell’UE e nel Regno Unito si stanno contraendo. I keynesiani la chiamano deflazione da debito e la loro risposta è quella di raccomandare un’espansione monetaria a livello di banca centrale alimentata da un aumento del deficit di bilancio per compensarla. In alternativa suggeriscono che quelle politiche che porteranno a un calo del tasso di cambio stimoleranno anche la domanda dei consumatori. Ciò non solo diagnostica erroneamente il problema, ma nel contesto di Triffin serve solo a provocare la crisi.

La deflazione da debito può essere suddivisa in due fasi. La fase iniziale è il rifiuto da parte delle banche di concedere credito perché vogliono ridurre il rischio nei propri bilanci. Inevitabilmente ciò avviene contemporaneamente all’aumento della domanda di credito, portando a una riduzione del credito e a costi di finanziamento più elevati. Questa situazione viene comunemente descritta come una stretta creditizia.

La seconda fase è un’accelerazione dei fallimenti delle piccole e medie imprese, le quali costituiscono l’80% paretiano di qualsiasi economia ma che sono ignorate da tutti tranne che dai banchieri commerciali. Probabilmente questa fase sta ora prendendo il via, causando ulteriore cautela per le banche sovraindebitate, costringendole a limitare ulteriormente i loro prestiti. La risposta delle autorità è già intuibile: accelerare l'espansione del credito nel vano tentativo di stabilizzare la situazione; ma ciò ha conseguenze per la valuta.


L'esito è praticamente garantito

L’ipotesi dei pianificatori centrali è che il calo della domanda dei consumatori porterà a prezzi più bassi, ma ciò non fa altro che mettere in luce i livelli della loro ignoranza economica, perché prima diminuisce la produzione e poi i consumi si riducono quando i dipendenti vengono licenziati. Lungi dal riflettere un calo dei consumi, il potere d’acquisto del credito della banca centrale, o della sua base monetaria, è indebolito da una combinazione di una sua espansione e di una perdita di fiducia in esso da parte dei detentori stranieri.

Nel caso del dollaro tutto ciò inizialmente potrebbe non essere vero. Quando i mercati finanziari si risvegliano di fronte alla prospettiva di tassi d'interesse più alti e rendimenti obbligazionari più bassi, la loro valutazione iniziale è solitamente quella di rifugiarsi nel dollaro. Lo abbiamo visto al tempo della crisi della Lehman, come raffigurato nel grafico qui sotto.

Nel periodo precedente la crisi, il prezzo dell’oro salì a $1.023 nel marzo 2008. La crisi iniziò poi ad evolversi, portando al fallimento della Lehman il 15 settembre 2008. La settimana prima dell’evento, l’oro veniva scambiato a $742, un calo del 27% dal massimo di marzo. E dopo un breve rialzo alla notizia, il 24 ottobre scese a $692 dollari, prima di raggiungere nuovi massimi contro il dollaro.

Ci sono molti altri esempi di una fuga iniziale verso il dollaro durante una crisi, tanto che dovremmo aspettarcelo man mano che avanzerà la fase di contrazione del ciclo del credito bancario.

L'esito, tuttavia, costringerà a guardare tutti quegli elefanti nella stanza finora ignorati. I tassi d'interesse e i rendimenti obbligazionari probabilmente saliranno per primi, cosa che sembra stia già accadendo, come illustrato di seguito.

Inoltre i rendimenti delle obbligazioni emesse da molti altri stati stanno raggiungendo nuovi massimi rispetto agli ultimi 5 anni, quindi non si tratta di casi isolati. Ulteriori aumenti dei rendimenti obbligazionari faranno crollare i relativi mercati e anche quelli azionari, oltre a portare al fallimento delle banche dapprima nell’Eurozona dato che la FED sta già salvando le banche che soffrono di perdite obbligazionarie mark-to-market.

Con l’aumento dei rendimenti obbligazionari e il calo dei mercati azionari, è prevedibile che la percezione a livello mondiale diventi rapidamente ribassista. Non potendo più ignorarlo, gli operatori di mercato saranno costretti a riconoscere lo stato precario dei bilanci delle banche centrali e il loro ulteriore deterioramento, quando adesso la stessa cosa non viene presa sul serio. Le finanze pubbliche verranno quindi considerate un problema grave, indebolite non solo dall’aumento dei tassi d'interesse, ma anche dalla riluttanza degli stranieri a riciclare i flussi di capitale in azioni pubbliche. Ciò colpirà particolarmente duramente sia l'Europa che il Regno Unito, facendone aumentare sostanzialmente i costi d'indebitamento.

È qui che tutti gli elefanti nella stanza ignorati prima inizieranno a montare una carica contro lo status quo. L’elemento comune del loro attacco saranno le valute fiat. I detentori stranieri di titoli statunitensi dovranno affrontare ingenti perdite sui loro $32.000 miliardi di dollari investiti, inclusi $7.500 miliardi in depositi e cambiali a breve termine. A ciò vanno aggiunti gli eurodollari accumulati, altri $15.000 miliardi di passività bancarie, altri $78.000 miliardi di posizioni fuori bilancio, per lo più a breve termine, e $10.000 miliardi di eurobond a lungo termine. Si tratta di $135.000 miliardi che praticamente chiedono di essere liquidati.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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