venerdì 1 settembre 2023

Il costo invisibile della guerra nell'era del quantitative easing

 

 

di Alex Gladstein

Il 24 febbraio 2022 Vladimir Putin ha ordinato all'esercito russo di avviare un'invasione su vasta scala dell'Ucraina. Il popolo russo, a parte qualche migliaio di manifestanti coraggiosi e rapidamente puniti, non ha avuto modo d'impedire al proprio governo di entrare in guerra.

Poiché non ci sono controlli ed equilibri interni sul potere di Putin, è stato in grado di portare avanti unilateralmente la sua decisione. Nel giro di poche ore la sua decisione ha fatto esplodere un terzo del mercato azionario russo, ha portato il rublo ai minimi storici e ha fatto evaporare il valore delle obbligazioni russe, mandandone alcune a zero. Ora contro Mosca sono state imposte le sanzioni più dure della storia, impedendo alle sue banche di saldare i conti in dollari. Praticamente tutti i russi, che siano in prima linea o in patria, soffriranno a causa della decisione di Putin.

Una delle caratteristiche distintive della democrazia è che i cittadini dovrebbero, in teoria, avere un modo per impedire al proprio governo d'intraprendere e prolungare guerre impopolari. Attraverso rappresentanti eletti, mezzi d'informazione liberi e dialogo sulla spesa pubblica, si sostiene che i cittadini delle democrazie dovrebbero essere coinvolti più direttamente in questo tipo di decisioni. E se più Paesi diventeranno democrazie ci saranno meno guerre, poiché storicamente questo tipo di architetture sociali non si combattono tra loro.

Il problema è che questo concetto, noto come "teoria della pace democratica", è un fallimento. Come risultato dell'attuale quadro di riferimento del dollaro — in cui le guerre americane post-11 settembre in Iraq, Afghanistan e altre sono state pagate con prestiti — gli Stati Uniti potrebbero aver già perso uno dei maggiori benefici della democrazia: la sua promessa di pace.

Questo saggio presenta tre temi:

  1. Il fiat standard post-1971, in cui il sistema bancario centrale si basa su una valuta fiat, consente agli stati di combattere guerre senza il consenso del pubblico, presentando un rischio fatale per la teoria della pace democratica e quindi per la democrazia.

  2. Non sarebbe stato possibile prolungare per decenni operazioni militari statunitensi costose e impopolari, come la guerra in Iraq, senza la politica dei tassi a zero (ZIRP) e il quantitative easing (QE), linee di politica che comportano esternalità negative significative per il cittadino medio.

  3. Un eventuale passaggio dal fiat standard a un Bitcoin standard (dove BTC funge da valuta di riserva mondiale) potrebbe aiutare a portare la guerra nelle mani del pubblico e lontano dai burocrati non eletti.

L'obiettivo di questo saggio è stimolare un dibattito pubblico su come paghiamo le guerre. Molti americani — e, naturalmente, molte persone in Paesi come l'Iraq, l'Afghanistan, lo Yemen e altrove — considerano ripugnanti i conflitti americani post-11 settembre, ciononostante pochi discutono la dimensione del prezzo.

Ad esempio, la "relazione finale" del governo degli Stati Uniti sulla Grande Crisi Finanziaria del 2007-2008 non menziona l'Iraq, l'Afghanistan o la Guerra al Terrorismo: come se questi elementi non avessero avuto alcun impatto sullo stato dell'economia statunitense nel decennio tra il 2001 e la pubblicazione della relazione nel 2011.

Il libro Money Market di Marcia Stigum — un testo estremamente importante sull'economia mondiale dominata dal dollaro, probabilmente distribuito a qualsiasi operatore del mercato monetario il primo giorno di lavoro o a qualsiasi studente di economia il primo giorno di lezione — non include la parola "guerra", o qualsiasi altro tema militare correlato, nel suo indice.

Anche il libro The Deficit Myth di Stephanie Kelton non menziona le parole "Iraq", "Afghanistan", o "Guerra al terrorismo".

Di volta in volta nel discorso economico moderno, la politica estera è separata come concetto dalla politica fiscale e monetaria interna. La guerra — la più grande voce di spesa discrezionale del governo degli Stati Uniti — viene esclusa dalla discussione, come se fosse invisibile.


I. LA FINE DELLA TEORIA DELLA PACE DEMOCRATICA

Nel suo libro Taxing Wars, la veterana dell'aeronautica americana e studiosa di diritto, Sarah Kreps, scrive che una differenza chiave tra democrazie e non democrazie è che “una popolazione democratica sopporta i costi diretti della guerra in sangue e denaro”.

“Più i cittadini sopportano questi costi”, scrive, più incentivi hanno a fare pressione sui loro leader affinché mantengano le guerre brevi, a buon mercato o per non dichiararle in primo luogo. Le dittature hanno pochissimi controlli sulla loro guerra, ma le democrazie, sostiene, hanno meno probabilità di combattere senza una missione chiara, ristretta e popolare.

La teoria della pace democratica non è esente da critiche, ma è ampiamente popolare nelle scienze politiche e rimane uno degli argomenti più forti a favore di un sistema democratico. Tuttavia in Taxing Wars la Kreps avanza una tesi riguardante un difetto fatale di questa teoria: “Se gli individui non vedessero più i costi della guerra, sarebbero meno coinvolti politicamente con il costo, la durata e il risultato?”

La sua risposta è sì.

La Kreps afferma che la teoria della pace democratica si basa su diversi presupposti: “Che i costi diretti e visibili della guerra vengono trasferiti ai cittadini in una democrazia; che sopportare i costi della guerra è generalmente impopolare e renderà le persone giudiziose sull'uso della forza; e che alla fine possono sempre ricorrere alle urne”.

Ma sin dalla guerra del Vietnam, gli Stati Uniti sono stati sempre più coinvolti in quelle che la Kreps chiama guerre "nascondino", in cui “i leader hanno evitato di chiedere alla popolazione sacrifici fiscali, anticipando e aggirando così i vincoli pubblici sulla loro condotta di guerra evitando le tasse e cercando forme meno ovvie di finanziamento della guerra, in particolare i prestiti”.

“La tassazione è onerosa”, scrive la Kreps, “e quando i cittadini sopportano l'onere della guerra con la tassazione, ciò crea legami istituzionali più stretti tra il pubblico e la condotta della guerra da parte dei leader, poiché i contribuenti hanno più incentivi a ritenerli responsabili di come spendono e usano le risorse”.

“Al contrario”, scrive, “il prestito protegge il pubblico dai costi diretti e isola i leader da un attento controllo”.

Il libro della Kreps si basa su dati storici su tasse, obbligazioni e spese, nonché su sondaggi dell'opinione pubblica sulla guerra che risalgono a un secolo fa. Un aspetto importante, sebbene apparentemente ovvio, è che le guerre tassate sono meno popolari delle guerre non tassate.

“Una guerra finanziata con tasse più elevate”, osserva, “riduce il sostegno di circa il 20% rispetto allo scenario di base senza tasse”.

I leader americani lo sanno e sin dal Vietnam hanno cercato altri modi per pagare le guerre. Ciò è stato dimostrato durante l'apice della guerra in Iraq nel 2007, quando i membri del Congresso John Murtha e Jim McGovern proposero una tassa di guerra per finanziarne l'aumento dei costi. Si basava su una scala mobile, qualcosa che l'editorialista E.J. Dionne definì la “rara proposta democratica che non pone l'intero onere fiscale sui ricchi”.

Ma la presidente della Camera, Nancy Pelosi, la rimandò al mittente dicendo che “non era una proposta democratica” e lasciò intendere che i democratici avrebbero sofferto alle urne se avessero cercato di farla passare. Come osserva la Kreps: “Il dibattito è stato superficiale e le domande sul potenziale effetto di una tassa di guerra sulla guerra stessa sono state sorvolate”.

La tassazione è stata respinta a favore del prestito in una forte dimostrazione di bipartitismo.

Nel 2014 il presidente Obama lanciò l'Operation Inherent Resolve, una guerra ormai di quasi otto anni contro lo stato islamico in Siria, Iraq e Libia. Il pubblico americano è stato in gran parte all'oscuro della portata e del prezzo di queste operazioni. La Kreps afferma che i legislatori erano “relativamente silenziosi su ciascuno di questi fronti perché i loro elettori [erano] silenziosi. Gli elettori [tacevano] perché si sentono al riparo dai costi della guerra”.

Una tendenza che ha aiutato il governo degli Stati Uniti a condurre le sue guerre "invisibili" dopo l'11 settembre è stata quella di far morire meno soldati americani. I giorni della coscrizione sono ormai lontani.

“I leader si sono allontanati da un esercito ad alta intensità di manodopera”, scrive la Kreps, “a favore di un esercito ad alta intensità di capitale che è finanziariamente più costoso ma presenta un minor rischio di vittime. Mentre la guerra del Vietnam ha provocato oltre 58.000 vittime con un costo finanziario di circa $750 miliardi (dollari del 2010), le guerre combinate in Iraq e Afghanistan — anch'esse durate circa un decennio — hanno provocato circa 6.000 vittime ma per un costo di circa $1.500 miliardi”.

Queste non sono tendenze unicamente americane. La Kreps sottolinea che Israele, ad esempio, sin dall'inizio degli anni '80 non ha combattuto una guerra che richiedesse la piena mobilitazione di unità di riserva, o istituito una tassa di guerra. I Paesi europei, e persino l'India, hanno mostrato un comportamento simile. Le democrazie di tutto il mondo scelgono sempre più di sottoporre un minor numero di cittadini al costo fisico della guerra, utilizzando invece denaro facile e tecnologia avanzata per imporre silenziosamente il prezzo alle generazioni future.

L'economista austriaco Joseph Schumpeter pensava che “lo stato liberale, uno dove gli individui sopportano i fardelli della guerra e hanno le leve per registrare la disapprovazione”, eserciterebbe “una potente moderazione nella sua politica estera”.

Sì, ma solo se viene mantenuto il meccanismo di responsabilità dei cittadini che detengono il controllo sulla spesa pubblica.

Nel corso del tempo il risultato del fiat standard è che i cittadini si stancano della guerra, i politici alla fine prendono in prestito invece che tassare, il pubblico diventa inconsapevole e disinteressato di fronte alla guerra, i trafficanti di armi diventano più grandi e più potenti e la teoria della pace democratica va in mille pezzi.


II. LA GUERRA DELLE CARTE DI CREDITO

Oggi gli americani vivono in un’epoca di guerre “delle carte di credito”, mettendo i costi dell’azione militare sul conto nazionale, rinviando il pagamento oggi in cambio di interessi e capitale dovuti domani. Ma non è sempre stato così.

Tra il 1900 e il 1960 gli Stati Uniti utilizzarono le proprie forze armate in gran parte con il consenso del popolo, finanziando gli sforzi bellici in gran parte con la tassazione e vendendo titoli di guerra (o “liberty”).

Ma quando il gold standard giunse al termine negli anni ’60, aprendo la strada al fiat standard post-1971, il meccanismo per il finanziamento della guerra cambiò permanentemente.

Negli ultimi decenni l’America ha pagato le sue operazioni militari in Afghanistan, Iraq e altrove interamente attraverso il prestito.

Nel 2020 il governo degli Stati Uniti ha preso in prestito e speso un totale di $2.020 miliardi per le guerre successive all’11 settembre. Gli americani hanno ormai pagato circa mille miliardi di dollari in più solo in interessi per il privilegio di contrarre prestiti e affrontare conflitti che sono diventati sempre più distanti dal discorso pubblico.

Le operazioni globali della Guerra al Terrorismo sono state distaccate dalla vita dell'americano medio, in parte a causa della fine del servizio nazionale e dell'avvento dei droni militari e della robotica, e in parte perché il costo effettivo di questi conflitti è stato nascosto attraverso i finanziamenti in deficit.

In una testimonianza del 2017 al Congresso degli Stati Uniti, la studiosa dell’Università di Harvard Linda Bilmes ha definito il processo di bilancio in tempo di guerra per le operazioni militari successive all’11 settembre “la più grande deviazione dalla pratica di bilancio standard nella storia degli Stati Uniti”.

“In ogni precedente conflitto esteso degli Stati Uniti”, ha osservato, “compresa la guerra del 1812, la guerra ispano-americana, la guerra civile, la prima guerra mondiale, la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea e del Vietnam – abbiamo aumentato le tasse e tagliato le spese non belliche. Abbiamo aumentato le tasse sui ricchi”.

Al contrario, dice, nel 2001 e nel 2003 il Congresso tagliò le tasse, e le invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan furono pagate “accumulando debiti sulla cosiddetta carta di credito nazionale”.

Come ha detto la politologa Rosella Cappella Zielinski: “Invece di aumentare le tasse o spostare fondi da altre parti del bilancio federale, l’amministrazione Bush ha tagliato le tasse aumentando al contempo la spesa bellica, spostando la nazione dal surplus di bilancio alla spesa in deficit, cosa che a sua volta ha aumentato la spesa pubblica. il debito nazionale e gli interessi che devono essere pagati su quel debito”. Washington, ovviamente, spende di più in guerra con il prestito piuttosto che con le tasse.

In The Cost Of Debt-Financed War l’economista militare Heide Peltier riassume la difficile situazione americana:

Parte del problema nel finanziare la guerra attraverso il debito è che gli elettori e i contribuenti americani non avvertono il costo della guerra. A meno che non abbiano un membro in servizio nella loro famiglia o tra i loro amici o parenti più stretti, nel qual caso potrebbero sperimentare il costo umano della guerra, quest'ultima rappresenta un peso minimo ed è in qualche modo invisibile. I suoi costi sono nascosti perché a noi, come cittadini e contribuenti, non viene chiesto di sostenere il peso finanziario della guerra in alcun modo visibile o evidente. Non stiamo acquistando patriotticamente titoli di guerra (come nella seconda guerra mondiale) o facendoci imporre tasse di guerra che ne rendono i costi immediati e tangibili. Essi invece vengono sostenuti in modo meno evidente e più generale man mano che paghiamo le nostre tasse (in tempo di pace), e saranno sostenuti in misura maggiore dalle generazioni future che dovranno affrontare l’aumento delle tasse o la riduzione della spesa pubblica per poter sostenere il costo della aumento del debito pubblico e dei relativi interessi.

In 20 udienze fiscali del Congresso tra il 2001 e il 2017 riguardanti i conflitti americani all’estero, la strategia di finanziamento della guerra è stata discussa solo una volta. Paragoniamolo, ad esempio, all’era del Vietnam, quando il finanziamento della guerra veniva discusso nel 70% di quegli incontri.

Il concetto di guerra “invisibile” è qualcosa che sembrava gravare pesantemente sul presidente Obama quando terminò l’incarico. Essendo stato un presidente insignito del Premio Nobel per la pace all’inizio del suo primo mandato e nonostante ciò ha impantanato gli Stati Uniti in un numero di guerre addirittura superiore rispetto al suo predecessore, in un’intervista disse di essere preoccupato per “un presidente che può portare avanti guerre perpetue in tutto il mondo, molte delle quali nascoste, senza alcuna responsabilità o dibattito democratico”.

La sua preoccupazione, purtroppo, è la nostra realtà attuale. Nella sua testimonianza al Congresso, Bilmes ha sottolineato che le guerre successive all’11 settembre sono state finanziate da progetti di legge di emergenza esenti da limiti di spesa e senza requisiti per compensare tagli in altre parti del bilancio. Oltre il 90% della spesa per Iraq e Afghanistan è stata finanziata in questo modo, rispetto al 35% per la Corea o al 32% per il Vietnam. I sondaggi pubblici americani nel XXI secolo indicano che la guerra viene menzionata sempre meno nelle conversazioni e che sempre più non ha alcun impatto sulla vita delle persone.

Bilmes ha concluso la sua testimonianza dicendo al Congresso che fare affidamento esclusivamente sui prestiti per le guerre successive all'11 settembre ha:

• ridotto la trasparenza sulla spesa;

• ridotto la responsabilità per le spese di guerra;

• indebolito la disciplina fiscale nei confronti del bilancio della difesa;

• innescato un minor dibattito pubblico sulla guerra;

• spinto il costo sulle generazioni future;

• fallito nel trasferire adeguatamente i fondi promessi ai veterani che hanno combattuto le guerre;

• reso più facile prolungare la guerra.

Secondo il progetto Cost Of War della Brown University, i pagamenti degli interessi sul denaro preso in prestito per combattere le guerre successive all’11 settembre potrebbero un giorno eclissare le spese stesse. Gli autori del progetto prevedono che, anche se la spesa cessasse oggi, il totale dei pagamenti degli interessi aumenterebbe dai mille miliardi di dollari già pagati a $2.000 miliardi entro il 2030 e a $6.500 miliardi entro il 2050.

Per contestualizzare, il bilancio fiscale degli Stati Uniti per il 2022 ammontava a circa $6.000 miliardi, per lo più destinati a diritti sociali. La spesa militare costituiva la spesa discrezionale maggiore, pari a $750 miliardi, mentre il sostegno ai veterani ammontava ad altri $270 miliardi. In tal contesto i pagamenti annuali degli interessi ammontavano a circa $300 miliardi, una buona parte dei quali servirà a ripagare i prestiti di guerra. In totale più di mille miliardi di dollari (quasi il 20%) del bilancio fiscale annuale degli Stati Uniti è legato al settore militare.

Washington prevedeva che le sue entrate per il 2022 attraverso tasse e altri flussi sarebbero ammontati solo a circa $4.000 miliardi, il che significava più di $2.000 miliardi di nuovo debito.

Al momento della pubblicazione di questo articolo, il tasso d'interesse di riferimento è allo 0,08%. La Federal Reserve lo influenza aggiustando quanto offre alle banche mentre prende in prestito o detiene le loro riserve.

Se la FED aumentasse i tassi al 3% – un livello basso rispetto agli standard storici, ma elevato rispetto a quelli odierni – allora più di un quarto delle entrate pubbliche dovrebbe essere destinato al pagamento degli interessi.

Per fermare l’aumento dei tassi, il governo degli Stati Uniti ha intrapreso un intervento senza precedenti nei mercati obbligazionari, con la Federal Reserve che ha acquistato quasi $9.000 miliardi di debito pubblico e mutui subprime sin dal 2008, fornendo liquidità ad asset che altrimenti non avrebbero trovato acquirenti. Da marzo 2020 la banca centrale americana ha acquistato asset per circa $4,7 milioni al minuto.

Con il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti (un parametro comunemente utilizzato per determinare l’indebitamento nazionale) che si sta ormai spostando oltre il territorio della Seconda Guerra Mondiale, molti si chiedono per quanto tempo i politici americani potranno sostenere questa attività mantenendo al tempo stesso un mercato obbligazionario rialzista. Alla fine il debito americano – anche se rimane la garanzia finanziaria più richiesta al mondo – potrebbe essere screditato. Dopotutto gli Stati Uniti sono andati in default due volte negli ultimi 100 anni, nel 1933 e nel 1971, ogni volta svalutando il dollaro e tradendo una promessa fatta al sistema internazionale.

Forse il più grande vantaggio dell’egemonia del dollaro è che le nazioni straniere sono costrette o incentivate ad acquistare il debito americano e quindi (spesso involontariamente) a finanziare le guerre americane. Ma la situazione sta iniziando a cambiare, poiché Paesi come Cina e Giappone hanno raggiunto il picco di titoli del Tesoro USA nel 2013 e 2014, e da allora hanno gradualmente ridotto le loro partecipazioni. Poiché i tassi d'interesse bassi sono critici per la spesa americana, comprese le sue guerre all’estero, la Federal Reserve ha contrastato questa tendenza per molto tempo, diventando il più grande acquirente del debito statunitense sin dal 2008, spingendo la sua quota del mercato del Tesoro USA al 20% da settembre 2020. La sua quota del debito statunitense è aumentata dal 15% nel periodo 2002-2019 fino al 64% nel periodo 2020-2021, mentre la proprietà estera è diminuita nello stesso arco di tempo dal 33% al 14%.

Come scrive l’analista macroeconomico Alfonso Peccatiello: “I rendimenti reali a lungo termine devono rimanere estremamente bassi affinché il sistema non collassi, poiché diventiamo sempre più indebitati nel tempo”. In altre parole tassi d'interesse elevati probabilmente costringerebbero il governo degli Stati Uniti a ridurre la sua attività bellica, poiché sarebbe dissuaso da ulteriori spese a causa della frustrazione popolare per l’aumento dell’inflazione o della forte riluttanza verso tasse aggiuntive.

Duecentocinquanta anni fa Adam Smith scrisse che “fare affidamento principalmente sui prestiti è un errore: nasconde al pubblico il costo della guerra” e l'avrebbe invece incoraggiata “nascondendone i costi reali”. Settantacinque anni dopo John Stuart Mill disse che l’indebitamento per la guerra era forse giustificato, ma solo finché i tassi d'interesse non sarebbero saliti.

Ciò che Smith e Mill non potevano sapere è che gli stati di oggi avrebbero escogitato un trucco velenoso: come contrarre prestiti per andare in guerra senza causare un aumento dei tassi d'interesse.


III. L'EVOLUZIONE DELLA FINANZA DI GUERRA AMERICANA

In War And Inflation In The United States From The Revolution To The First Iraq War l’economista Hugh Rockoff fornisce una storia dettagliata della finanza di guerra americana.

Prima del XX secolo la struttura dello stato americano era talmente diversa da quella odierna che è difficile fare paragoni, ma è comunque utile osservare come venivano condotte le prime guerre.

La guerra rivoluzionaria fu notoriamente finanziata — a volte interamente — dalla stampa di denaro. La frase “non vale un Continental” descriveva l’iperinflazione che scatenò il caos monetario nell’America settentrionale-orientale mentre i rivoluzionari cercavano di staccarsi dall’Impero britannico.

La guerra del 1812 introdusse più lascività nei confronti dei prestiti, incluso ad esempio un prestito di guerra da $16 milioni. In quel caso le cambiali non potevano essere vendute alla pari e subivano tassi elevati, costringendo il governo americano ad aumentare le tasse.

Guerre più piccole, come quella messicano-americana, furono sufficientemente minori da poter essere pagate interamente prendendo a prestito senza timore di un aumento dei tassi d'interesse, ma quando si arrivò alla Guerra Civile, entrambe le parti dovettero stampare moneta.

Rockoff offre una panoramica della finanza della Guerra Civile: il Nord emise “$500.000 in cosiddetti 5-20: obbligazioni al 6% d'interessi con quest'ultimi pagabili in oro, rimborsabili dopo 5 anni con scadenza a 20 [...] i 5-20 potevano essere scambiati alla pari con i Greenback, quindi il governo americano stampava moneta per acquistare obbligazioni; a livello economico erano identiche alle operazioni di mercato aperto della Federal Reserve intraprese durante la Seconda Guerra Mondiale”.

“Alla fine”, scrive, “venne revocato il diritto di convertire i Greenback in obbligazioni d’oro fruttifere, quindi i primi divennero una pura moneta fiat”.

Egli osserva che gli obiettivi del National Banking Act erano quelli di monetizzare parte del debito federale cercando di mantenere bassi i tassi d'interesse nominali.

Durante la prima metà del XX secolo, le cose cambiarono con la costruzione dello stato moderno e il popolo americano divenne fortemente legato alla guerra attraverso le tasse. La tassazione finanziò il 30% del costo della prima guerra mondiale, il 50% del costo della seconda guerra mondiale e il 100% del costo della guerra di Corea. Gli americani erano ampiamente favorevoli a queste guerre (sulla base di sondaggi d’opinione storici) ed erano disposti a sacrificare sangue e risorse per la causa.

Quando l’America entrò nella prima guerra mondiale nel 1917, Rockoff spiega che “l’alcol, il tabacco, i gioielli, le macchine fotografiche, i cosmetici, le gomme da masticare e molti altri prodotti furono soggetti a nuove o maggiori tasse. Le imposte sul reddito, ora possibili grazie al sedicesimo emendamento, furono aumentate. La pressione fiscale più alta arrivò al 67%”.

“Il Ministero del Tesoro USA”, scrive, “compì anche sforzi per incoraggiare le persone ad acquistare obbligazioni attraverso una campagna nazionale basata sul patriottismo. Si svolsero gigantesche manifestazioni in cui celebrità, comprese le star di Hollywood, esortarono le persone a sostenere lo sforzo bellico acquistando le obbligazioni”.

Per contribuire a coprire i costi che le tasse e la vendita di titoli di stato non potevano coprire immediatamente — presagendo tattiche future — il Tesoro USA vendette passività a breve termine direttamente alla neonata Federal Reserve, monetizzando parte del debito. Ciò rispecchiava gli eventi oltreoceano.

Come dettagliato nel Fiat Standard di Saifedean Ammous, nel novembre 1914 il governo britannico “emise il primo titolo di guerra con l’obiettivo di raccogliere £350 milioni da investitori privati ad un tasso d'interesse del 4,1% e una scadenza di dieci anni. Ma il pubblico britannico acquistò meno di un terzo della somma prevista e per evitare di pubblicizzare questo fallimento, la Banca d’Inghilterra concesse fondi al suo capo cassiere e al suo vice per acquistare le obbligazioni a proprio nome”.

Questo fu uno dei primi esempi più importanti d'intervento sul mercato dei titoli di stato per finanziare la guerra e avrebbe fornito un modello da seguire per l’America nei decenni a venire.

Per quanto riguarda la seconda guerra mondiale, Rockoff osserva che “l’attacco a Pearl Harbor creò un sostegno profondo e duraturo alla guerra, consentendo all’amministrazione Roosevelt di aumentare le tasse senza preoccuparsi degli effetti politici avversi”.

Anche i Liberty Bond si dimostrarono efficaci. Per fare un esempio, nel 1943 i dipendenti della FED di New York si unirono per acquistare $87.000 in titoli di guerra. Vennero informati che i loro fondi avrebbero aiutato l'esercito ad acquisire un obice da 105 mm e un aereo da caccia P-51 Mustang. In totale, durante la seconda guerra mondiale più di 85 milioni di americani (circa la metà dell’intera popolazione) comprò titoli di guerra per un totale di $185,7 miliardi, quasi $3.000 miliardi in dollari del 2022. Confrontate questi numeri con quelli di oggi, quando la maggior parte degli americani non sa nemmeno come viene finanziata la guerra e pensa a malapena a contribuirvi direttamente.

Per combattere le potenze dell’Asse, il Tesoro americano abbinò le entrate dei Liberty Bond e i nuovi aumenti fiscali con un maggiore intervento sul mercato obbligazionario. La FED stabilì un livello minimo per il prezzo dei titoli di stato — fissando i tassi d'interesse per le obbligazioni a lungo termine al 2,5% — e acquistò “qualsiasi quantità di obbligazioni fosse necessaria per evitare che il prezzo scendesse al di sotto di quel livello”.

Il governo americano continuò a intervenire sui mercati obbligazionari fino al 1953, durante la guerra di Corea, ma in modo decrescente. La spesa per la Corea — il primo grande conflitto della Guerra Fredda — fu coperta interamente da imposte sul reddito, sulle società, sul peccato e sul lusso. Vale la pena notare quanto fossero realmente popolari a livello nazionale queste tasse e quindi la disponibilità del pubblico a pagare un costo per combattere, passando con 328 voti favorevoli e 7 contrari alla Camera.

Il "rapporto consensuale" riguardo guerra e tasse tra il governo e il popolo americano si concluse durante la guerra del Vietnam. Con una mossa profondamente impopolare, il presidente Johnson annunciò nuove tasse per le spese belliche nel 1967, l’ultima volta che le tasse sarebbero state aumentate durante le operazioni in Vietnam. Un anno dopo, in mezzo a un’enorme pressione politica, Johnson annunciò che non si sarebbe candidato per un secondo mandato.

Due tendenze degne di nota furono evidenti in queste guerre dell’inizio del XX secolo. In primo luogo, la Federal Reserve agì in contrasto con i presidenti populisti. Ad esempio, Truman si oppose al rialzo dei tassi d'interesse nominali con l’obiettivo di vincere le elezioni; Johnson in seguito fece lo stesso, contrastando i rialzi dei tassi della FED a metà degli anni ’60. In entrambi i casi la FED rialzò comunque i tassi, ponendo un certo controllo sui prestiti. Non è chiaro, per usare un eufemismo, se questo tipo d'indipendenza esista ancora oggi.

Una seconda tendenza che Rockoff nota è che, mentre prima della seconda guerra mondiale l’economia delle emergenze in tempo di guerra — “alti livelli di spesa pubblica finanziati in parte da prestiti pubblici e in parte da stampa di denaro” — era temporanea, nell’era successiva al 1971 è diventata la “norma del tempo di pace”.

Rockoff conclude:

La reazione naturale di fronte a una grande guerra è stata che gli stati prendessero in prestito le somme necessarie, ma l’indebitamento su larga scala ha fatto sorgere la prospettiva di sostanziali aumenti dei tassi d'interesse. Per una serie di ragioni, i governi di guerra erano restii a vedere i tassi d'interesse salire al di sopra della norma pre-bellica. Per prima cosa, tassi più alti avrebbero rappresentato un segnale al pubblico in patria e agli amici/nemici all’estero che la decisione di fare la guerra stava minando l’economia interna. Aumentare le tasse almeno a un livello che promettesse di essere sufficiente a pagare gli interessi e il capitale sul debito di guerra era un’ovvia necessità per tenere sotto controllo i tassi d'interesse.

Questa conclusione era condivisa nientemeno che da John Maynard Keynes, il quale sostenne che lo stato britannico avrebbe dovuto finanziare le sue operazioni della Seconda Guerra Mondiale attraverso la tassazione e non attraverso il prestito.

Il problema è che nel XXI secolo le tasse di guerra non sono più una soluzione. Gli americani non vogliono pagare per guerre di cui non si preoccupano, quindi Washington ha dovuto trovare un modo per ottenere prestiti senza che i tassi d'interesse salissero.


IV. LA SPESA BELLICA NELL'ERA SUCCESSIVA AL 9/11

A differenza delle guerre pre-Vietnam, che avevano principalmente missioni ristrette e chiare e un forte sostegno pubblico, le invasioni americane dell’Iraq e dell’Afghanistan si sono trasformate in “guerre eterne”.

Ciò è stato possibile solo perché i loro costi sconcertanti sono stati nascosti al pubblico grazie al modo in cui venivano finanziate.

Come scrive la politologa Neta Crawford: “Se non avessimo avuto tassi d'interesse bassi e il Congresso si fosse mosso, ad esempio, per aumentare le tasse invece che tagliarle, il pubblico avrebbe prestato attenzione a queste guerre in modo diverso”.

Infatti ci fu un’opposizione pubblica di massa alla guerra in Iraq (con alcune tra le più grandi proteste negli Stati Uniti dai tempi della guerra del Vietnam), solo perché non gli fu chiesto di pagare per la guerra, e il dissenso alla fine diminuì invece d'intensificarsi. Dieci anni dopo il suo inizio, l’Iraq era un argomento appena menzionato nelle normali conversazioni quotidiane tra americani.

Questo perché i legislatori hanno deciso di contrarre prestiti per pagare le guerre summenzionate, scegliendo di rinviare i costi alle generazioni future. Ma come funziona esattamente pagare una guerra senza tasse o obbligazioni specifiche?

Innanzitutto il governo degli Stati Uniti ha bisogno di creare denaro, quindi organizza un’asta attraverso il proprio Dipartimento del Tesoro. Strumenti di debito statunitensi con scadenze diverse (obbligazioni da 20 a 30 anni, titoli da 2 a 10 anni e titoli a breve termine) vengono venduti — per finanziare molte attività, non solo la guerra — a una rete di operatori primari, ovvero le banche (istituzioni finanziarie globali più senior e affidabili), le quali a loro volta vendono tali titoli al mercato secondario.

Come conseguenza cumulativa della prima guerra mondiale, del declino britannico, del sistema di Bretton Woods, della crescita economica americana, del sistema del petrodollaro e del sistema dell’eurodollaro, il debito pubblico degli Stati Uniti è diventato la garanzia finanziaria premium nei mercati mondiali. I titoli del Tesoro USA sono asset “privi di rischio”, trattati come alla stregua del denaro dalle grandi istituzioni che non possono semplicemente detenere milioni o miliardi in un conto bancario. Nonostante i deficit accumulati da Washington, il debito americano rimane estremamente liquido e fortemente richiesto.

Detto questo, è importante tenere presente che parte di questa domanda è forzata: gli operatori primari sono obbligati ad acquistare titoli del Tesoro USA e fare offerte a ogni asta, e varie istituzioni finanziarie hanno il compito di detenerli.

Come osserva Peccatiello, dal 2013 le banche di tutto il mondo sono tenute a detenere circa il 10-15% dei loro asset in riserve bancarie e obbligazioni.

“Infatti”, dice, “alle banche è stato chiesto di possedere una grande quantità di asset liquidi e gli è stato detto che i titoli di stato erano la scelta più ovvia: sono essenzialmente privi di rischio e spesso rendono più di un semplice deposito overnight presso la banca centrale nazionale. È stata quindi creata un’enorme domanda di obbligazioni da un semplice cambiamento normativo”.

Le regole del sistema influenzano la domanda mondiale e oggi ci sono moltissimi clienti in fila per comprare le promesse di pagamento del Tesoro americano. Una volta completata l’asta, vengono prelevati i fondi dai depositi bancari degli acquirenti delle obbligazioni e vanno a finire sul conto generale del Tesoro degli Stati Uniti presso la FED (TGA).

Successivamente il dipartimento per la guerra del governo degli Stati Uniti — ora chiamato eufemisticamente Dipartimento della Difesa, o in breve Pentagono — usa questo nuovo denaro per acquistare armi, carri armati, aerei, navi e missili; quindi ordinerà queste armi al settore privato. Come metodo di pagamento, la FED preleverà i fondi dal saldo TGA e aggiungerà riserve alla banca commerciale del trafficante d’armi. Quest'ultima poi estenderà lo stesso importo sul conto di deposito del trafficante d’armi.

Et voilà! Il governo degli Stati Uniti ha acquistato attrezzature militari con nient’altro che la promessa di pagarle, una promessa fortemente dipendente dai tassi d'interesse.

Vale la pena riflettere su cosa accadrebbe se i titoli di guerra fossero etichettati come tali invece di essere nascosti tra i titoli generali. Verrebbero scambiati a prezzi scontati a Wall Street? Verrebbero boicottati dai fondi ESG o dagli investitori che si preoccupano dell'impatto sociale? Forse non lo sapremo mai.


V. L’ERA DEL QUANTITATIVE EASING

Una volta che gli operatori primari vendono titoli del Tesoro USA ai mercati secondari, un’ulteriore pressione di acquisto viene esercitata sul mercato mondiale da parte del governo americano attraverso la FED che acquista titoli di stato a breve e — con l’avvento di un nuovo trucco — a lungo termine.

Secondo Money Market di Stigum: “Pochi fattori muovono il mercato obbligazionario più della Federal Reserve. La sua capacità di modificare i tassi d'interesse a breve termine e l’impatto che ciò ha sul mercato obbligazionario e sui mercati finanziari è immenso”.

L’acquisto da parte del governo di titoli del Tesoro USA a breve termine è stata una pratica comune nel sistema finanziario post-1971, con il trading desk della FED che acquistava e vendeva milioni di dollari in titoli per “rendere i mercati” regolari. Questo processo, tuttavia, è stato potenziato nel 2008 in risposta alla Grande Crisi Finanziaria.

Quando la crisi finanziaria globale è esplosa, la FED ha utilizzato il suo trading desk e la “forward guidance” per abbassare i tassi d'interesse a zero, ma ciò non ebbe ancora l’effetto di stimolo desiderato. Gli investitori si nascondevano ancora in titoli del Tesoro USA a più lunga scadenza e i mutui subprime stavano crollando, distruggendo quantità sorprendenti di valore nei derivati del sistema bancario ombra e causando effetti devastanti per l’economia mondiali. Per cercare di togliere dal mercato le obbligazioni con scadenza a 10 anni o più, la FED — ispirata da programmi simili dell’era militare durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale — iniziò ad acquistarle attraverso un processo noto come “quantitative easing”, o QE abbreviato.

Col QE la FED avrebbe acquistato qualsiasi ammontare non solo di titoli sovrani a breve scadenza, ma anche di obbligazioni a lungo termine e in cambio avrebbe riempito i conti degli operatori primari presso di essa con riserve bancarie. Dal 2008 la FED ha acquistato una quantità astronomica di titoli di stato statunitensi, per un totale di quasi $9.000 miliardi, diventandone il più grande acquirente al mondo.

Tecnicamente la Federal Reserve non può, come faceva in tempo di guerra, acquistare a titolo definitivo il debito pubblico degli Stati Uniti. Ma dal momento che il settore privato è obbligato ad acquistarlo, e anche obbligato a venderlo alla FED, ha facilmente aggirato questo cavillo.

In realtà il governo degli Stati Uniti ha monetizzato migliaia di miliardi di dollari di debito stampando promesse di pagamento, con una mano, e comprandole con l’altra tramite la FED. Per quanto il QE sia risultato un programma a dir poco controverso, l’interesse pubblico è stato attenuato rispetto ad altri programmi governativi su larga scala, soprattutto da quando è stato messo in campo il “Fedspeak” per assicurarsi che il processo apparisse complicato agli occhi dei profani e le persone non facessero troppe domande. Come ha detto l’analista Mohamed El-Erian, il QE “innescherebbe una reazione sociale molto più grande se fosse ampiamente compreso”.

Diamo un’occhiata ai meccanismi alla base di questo processo.

Quando la FED acquista titoli del Tesoro statunitensi con scadenze diverse, riduce l’offerta di tali obbligazioni sul mercato aperto, aumentando il valore delle obbligazioni in circolazione detenute dal settore privato. Quando il valore di un’obbligazione sale, il suo rendimento scende. E così la FED esercita una pressione al ribasso sui tassi d'interesse del Tesoro USA attraverso questo processo, noto come “operazioni di mercato aperto”.

Il collegamento chiave con la guerra è che con tassi d'interesse più bassi, il governo degli Stati Uniti paga meno il suo debito e può contrarne di più di quanto sarebbe altrimenti possibile con tassi d'interesse più elevati. Nell’era pre-1971 i politici erano vincolati dai tassi d'interesse alti e costretti a tassare per la guerra.

Ad esempio, per ogni aumento dell’1% del tasso di riferimento il governo degli Stati Uniti dovrebbe pagare ulteriori $300 miliardi in interessi, circa il 5% del totale del bilancio federale de 2022. No, bueno.

Ma nell’era del QE i politici hanno scoperto di non avere più vincoli: possono finanziare guerre eterne senza preoccuparsi troppo dell’aumento del tasso d'interesse sul debito.

Secondo l’ex-trader della Federal Reserve, Joseph Wang, prima della Grande Crisi Finanziaria la FED non aveva alcun controllo sul debito a medio e lungo termine, il quale veniva prezzato dal mercato obbligazionario. Se quest'ultimo avesse ritenuto che il governo americano fosse irresponsabile, l'avrebbe potuto punire con tassi d'interesse più alti vendendo il suo debito. Oggi, dice Wang, la FED ha eliminato questo freno al potere politico.

Il mercato obbligazionario è una sorta di organismo intelligente. Ad esempio, ha avvertito l'arrivo di una crisi sanitaria globale all’inizio del marzo 2020 e, naturalmente, ha iniziato a contrarsi in risposta alla prevista deflazione. Ma la FED è intervenuta, acquistando ogni giorno più obbligazioni di quanto avesse fatto col QE del 2008, mantenendo il mercato obbligazionario molto più grande di quanto sarebbe stato altrimenti.

La grande domanda è: cosa sarebbe successo se la FED non avesse mai acquistato obbligazioni negli ultimi 15 anni, se quei $9.000 miliardi in titoli avessero potuto fluttuare nel mercato aperto senza alcun acquirente di ultima istanza?

Che tipo di tassi d'interesse avremmo visto sul debito americano a breve e lungo termine? E che tipo di vincoli alla guerra avrebbe dovuto affrontare il governo americano?


VI. MODERN MONEY THEORY E GUERRA

Negli ultimi anni gli aderenti alla MMT hanno guadagnato potere e influenza grazie alla seguente affermazione: quei Paesi che emettono valuta in cui sono denominate le loro passività non possono rimanere senza soldi e non dovrebbero preoccuparsi di un deficit. Possono semplicemente stamparne la quantità di cui hanno bisogno per arrivare alla piena occupazione e fermarsi solo quando vedono l’inflazione.

Ciò porta una dei leader della MMT, la Kelton, a fornire una narrazione alternativa di come funziona la spesa di guerra:

Una volta che il Congresso avrà autorizzato la spesa agenzie come il Dipartimento della Difesa avranno il permesso di stipulare contratti con aziende come Boeing, Lockheed Martin e così via. Per dotarsi di caccia F-35, il Tesoro americano incarica la sua banca, la Federal Reserve, di effettuare il pagamento per suo conto. Il Congresso non ha bisogno di “trovare i soldi” per spenderli, deve trovare i voti! Una volta ottenuti potrà autorizzare la spesa. Il resto è solo contabilità. Quando gli assegni vengono firmati, la Federal Reserve salda i pagamenti accreditando sul conto del venditore il numero appropriato di dollari digitali, noti come riserve bancarie. Ecco perché la MMT a volte descrive la FED come il segnapunti del dollaro: non può restare a corto di punti.
La Kelton poi continua:

L’America non può rimanere senza dollari perché può stamparli. Sarà quindi sempre in grado di pagare i suoi debiti. Inoltre lo Zio Sam non ha bisogno di prendere in prestito denaro, o aumentare le tasse, per aumentare la spesa pubblica; il governo americano può finanziare nuove spese stampando moneta se la Federal Reserve è disposta a consentirlo. Pertanto né la dimensione assoluta del carico di debito americano, né la minaccia dei “bond vigilantes” che si rifiutano di acquistare titoli del Tesoro statunitensi a tassi d'interesse convenienti, possono limitare il potere di spesa del Congresso.

Il problema è: cosa succede quando nessun altro, tranne il governo degli Stati Uniti, vuole acquistare quei titoli? Questo è il motivo per cui, come ammettono la Kelton e altri sostenitori della MMT, solo le nazioni con “valuta di riserva” e con una significativa domanda estera per il loro denaro fiat possono seguire la MMT. Se i Paesi nei mercati emergenti provassero a farlo, rimarrebbero letteralmente a corto di denaro “forte” (dollari) e ne deriverebbe una svalutazione estrema della loro valuta.

La Kelton sottolinea che “anche se le misure di sostegno al Covid da migliaia di miliardi di dollari hanno spinto il debito nazionale oltre i $30.000 miliardi, i costi d'indebitamento dell’America sono rimasti storicamente bassi. Ciò è in parte dovuto al fatto che la Federal Reserve ha acquistato gran parte del debito generato dagli stimoli fiscali, finanziando di fatto la spesa pubblica attraverso la stampa di denaro”.

Qui ci sta dicendo che se la FED non avesse fatto il QE, i tassi d'interesse sarebbero stati più alti. Naturalmente questo avrebbe avuto un impatto importante sulla politica estera, ma non ne discute nel suo libro.

È difficile immaginare come un approccio MMT possa limitare le guerre delle carte di credito. In un’epoca in cui il Congresso non esercita molta influenza sulle guerre e in cui i politici preferiscono prendere in prestito piuttosto che tassare, la moderazione non è di questo mondo.

La Kelton conclude il suo libro con quanto segue: “Ciò che conta non è la dimensione del cosiddetto debito (o chi lo detiene), ma se possiamo guardare indietro con orgoglio, sapendo che la nostra riserva di titoli del Tesoro esiste grazie ai molti interventi (soprattutto) positivi a favore della nostra democrazia”.

L’arroganza della Kelton — che sembra una stenografia di una potenza tardo imperiale e ne nega il declino globale — è pari solo al suo totale disprezzo per i costi della guerra.

Non tutti gli aderenti alla MMT sono neoconservatori, ma tutti i neoconservatori sono, in qualche modo, sostenitori della MMT. L’espressione più estrema del denaro fiat — la MMT — consente agli stati di combattere guerre senza il consenso delle persone, nascondendo i loro costi reali e rappresentando un rischio terminale per la democrazia.

Come concluse Cicerone 2.000 anni fa, “nervi belli pecunia infinita”: la linfa della guerra è il denaro infinito.


VII. QE E INFLAZIONE DEI PREZZI DEGLI ASSET

Una delle principali esternalità nel mantenere i tassi d'interesse a zero per consentire una spesa espansiva è l’inflazione dei prezzi degli asset.

Come documentato nel nuovo libro del giornalista investigativo Christopher Leonard, The Lords Of Easy Money, la Federal Reserve ha seguito un progetto chiaro fin dai primi anni ’90 e dai tempi del presidente Alan Greenspan:

  1. Combatte l’inflazione dei prezzi
  2. Ignora l’inflazione dei prezzi degli asset
  3. Salva l’economia quando crolla

La tattica scelta per raggiungere questo obiettivo è stata quella di utilizzare continuamente, nel tempo, il potere della FED per sopprimere i tassi d'interesse. Ciò può essere visto consultando il tasso di riferimento americano nel corso del tempo, il quale era vicino al 10% alla fine degli anni ’80, e poi è stato portato sostanzialmente allo 0%.

Con questi tassi artificialmente bassi, scrive Leonard, “lo stato può finanziare il proprio debito a buon mercato e sostenere il boom nei mercati azionari. Il costo è nel QE, che spinge le banche ad aumentare la leva finanziaria e a trovare fonti alternative d'investimento oltre ai titoli del Tesoro, che non hanno prodotto abbastanza interesse dai tempi della Grande Crisi Finanziaria”.

Non è più possibile risparmiare in sicurezza per il futuro in titoli del Tesoro statunitensi a lungo termine che offrono il 5% all’anno. Questo era un modello su cui un tempo potevano fare affidamento i fondi pensione, i fondi assicurativi e le industrie da migliaia di miliardi di dollari.

Il fondatore di BitMEX, Arthur Hayes, ha espresso il suo punto di vista sulla trasformazione in corso: “Il QE è progettato per privare il mercato di rendimenti su tutte le durate (riducendo l'offerta di obbligazioni sicure) e costringere gli investitori a investire in asset più rischiosi, spingendone al rialzo i prezzi”.

Come spiega la Banca d’Inghilterra:

Acquistiamo titoli di Stato o obbligazioni societarie del Regno Unito da altre società finanziarie e fondi pensione. Quando lo facciamo, il prezzo di queste obbligazioni tende ad aumentare, il che significa che il rendimento obbligazionario, o il “tasso d'interesse” ottenuto dai detentori di queste obbligazioni, diminuisce. Il tasso d'interesse più basso sui titoli di Stato e societari del Regno Unito si traduce quindi in tassi d'interesse più bassi sui prestiti per famiglie e imprese [...]. Supponiamo di acquistare £1 milione in titoli di Stato da un fondo pensione. Al posto di queste obbligazioni, il fondo pensione dispone ora di £1 milione in liquidità. Invece di trattenere quel denaro, normalmente lo investirebbe in altri asset finanziari, come le azioni, che gli darebbero un rendimento più elevato. A sua volta ciò tende a far salire il valore delle azioni, rendendo più ricche le famiglie e le imprese che le detengono. Ciò le rende propense a spendere di più, stimolando l’attività economica.

Curiosamente, anche se la Banca d’Inghilterra sembra essere aperta sul fatto che il QE mira a creare inflazione nei prezzi degli asset, rifiuta che il suo obiettivo sia quello di tassi bassi.

“Il QE riduce il costo del denaro in tutta l’economia, compreso quello preso in prestito dal governo. Questo perché uno dei modi in cui funziona il QE è quello di abbassare il rendimento obbligazionario o il "tasso d'interesse" sui titoli di Stato del Regno Unito. Ma non è questo il motivo per cui facciamo il QE; lo facciamo per mantenere l'inflazione bassa e stabile e sostenere l'economia”.

La FED di St. Louis una volta affermò che il governo degli Stati Uniti alla fine avrebbe rivenduto al settore privato tutti gli asset acquistati dopo la crisi finanziaria globale, chiarendo che la FED non avrebbe utilizzato “la creazione di denaro come fonte permanente per finanziare la spesa pubblica”.

Ma come sottolinea l’analista Lyn Alden, ciò non è mai accaduto: “Un decennio dopo, le disponibilità della FED in titoli del Tesoro USA e altri asset, sia in termini assoluti che in percentuale del PIL, sono molto più elevate oggi di quanto lo fossero allora, e stanno aumentando. Quindi è diventato chiaro che si trattava e si tratta ancora di monetizzazione del debito”.

La Alden poi fornisce un’intuizione chiave: “Cose come l’assistenza sanitaria statale, la previdenza sociale, la spesa militare, gli assegni sociali e così via, dovrebbero essere ridotti se il Tesoro USA si limitasse a prendere in prestito solo da finanziatori reali piuttosto che da riserve di dollari di nuova creazione grazie alla FED”.

Infatti, nel settembre 2019, il sistema del mercato monetario si è rotto e, come scrive la Alden, “il governo degli Stati Uniti ha esaurito i creditori. Gli stranieri, i fondi pensioni, le compagnie assicurative, gli investitori al dettaglio e infine le grandi banche e gli hedge fund, non stavano acquistando abbastanza titoli del Tesoro USA rispetto al numero che il governo stava emettendo... [così] la Federal Reserve è intervenuta con dollari stampati dal nulla e ha iniziato ad acquistare titoli del Tesoro USA, a causa della mancanza di altri acquirenti reali a quei tassi bassi”.

Secondo la Alden, la FED “ha sostanzialmente nazionalizzato il mercato dei pronti contro termine per abbassare i tassi d'interesse [...] la Federal Reserve ha permesso al governo degli Stati Uniti di continuare a finanziare i suoi piani di spesa interna ai tassi d'interesse attuali, senza trovare nuovi finanziatori reali per il deficit crescente”.

Lo stesso, ovviamente, vale per la spesa estera e militare.

In sintesi, il governo degli Stati Uniti ha dimostrato che — attraverso la crisi finanziaria globale, la crisi dei pronti contro termine nel 2019 e la crisi sanitaria nel 2020 — è disposto a fare qualsiasi cosa per mantenere bassi i tassi d'interesse: avviare un programma sperimentale di QE per acquistare titoli del Tesoro a lunga scadenza e mutui subprime, nazionalizzare i mercati dei pronti contro termine e addirittura nazionalizzare i mercati del debito societario.

Nei mesi di marzo e aprile 2020 la FED ha sostanzialmente nazionalizzato i mercati del credito privato creando una “società veicolo” che potrebbe acquistare debito societario. Alla fine ha acquistato solo $8,7 miliardi di questo tipo di titoli, ma ha salvato il mercato con un effetto psicologico: tutti sanno che ora esiste un acquirente di ultima istanza anche per il debito societario.

La FED non ha utilizzato del tutto il “controllo della curva dei rendimenti” — in cui lo stato garantisce il prezzo dei titoli a più lunga scadenza — come le banche giapponesi e australiane hanno iniziato a fare negli ultimi anni, ma l’argomento è diventato sempre più discusso.

In genere, le banche centrali potrebbero determinare i tassi d'interesse a breve termine, ma è il mercato a determinare quelli a lungo. Il controllo della curva dei rendimenti è un programma del sistema bancario centrale per cercare di controllarli entrambi. Il governo degli Stati Uniti lo impiegò negli anni ’40 per sostenere la Seconda Guerra Mondiale.


VIII. QE E DISUGUAGLIANZA

La Federal Reserve elenca cinque funzioni chiave sul suo sito web — tra cui, ad esempio, la piena occupazione e la stabilità finanziaria — ma da nessuna parte elenca una sesta funzione: creare e sostenere bolle per arricchire esponenzialmente l’élite americana.

In un Paese in cui il 10% più ricco della popolazione possiede l’88,9% delle azioni e dei fondi comuni d'investimento, l’inflazione dei prezzi degli asset è un fenomeno altamente redistributivo. Secondo Joseph Wang, che ha osservato il processo dall’interno durante anni di attività presso la FED: “il QE aumenta i prezzi degli asset finanziari ma non necessariamente l’attività economica”.

“Il valore delle azioni”, scrive Christopher Leonard, “è aumentato costantemente durante il decennio successivo al 2010, nonostante la debole crescita economica complessiva, la stagnazione salariale generalizzata e la serie di problemi finanziari internazionali che la FED ha citato come giustificazione per i suoi interventi”.

In vista della crisi finanziaria mondiale, prestigiose istituzioni di tutto il mondo aumentarono i titoli ipotecari subprime e i credit default swap, stipulando quantità sconcertanti di assicurazioni su investimenti sempre più rischiosi. Dopo il crollo, con i tassi d'interesse sotto zero, le aziende dovettero guardare ancora più lontano sulla curva dei rendimenti per ottenere profitti. Più di recente la ZIRP ha portato all’esplosione della leva finanziaria aziendale e dei riacquisti di azioni proprie, i quali hanno prodotto il 40% del rendimento totale dell’indice S&P dal 2011.

Come scrive Wang nel suo nuovo libro, Central Banking 101: “l’allentamento quantitativo ha contribuito a spingere i tassi d'interesse a lungo termine ai minimi storici. Le aziende ne hanno approfittato e hanno emesso quantità record di debito che utilizzano per riacquistare azioni proprie”.

La politica monetaria accomodante ha portato a un aumento del potere aziendale sui salariati e sulle piccole imprese, una conclusione fortemente sostenuta dalla teoria del capitale come fonte di potere elaborata da Shimshon Bichler e Jonathan Nitzan. In questo contesto, le aziende sono state in grado di guadagnare ancora più denaro accendendo nuovi prestiti e poi riconfezionando/vendendo il proprio debito piuttosto che concentrarsi sui prodotti reali. Sono state anche in grado di sfruttare i riacquisti di azioni proprie che hanno amplificano i rendimenti per l’élite azionaria invece di promuovere l’innovazione e la crescita.

Nel 1990 l’1% deteneva il 23% di tutta la ricchezza delle famiglie americane; oggi, dopo più di 30 anni di politica monetaria accomodante, ne detiene il 32%. Come scrivono Bichler e Nitzan: “l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario; ma è anche sempre e dovunque un fenomeno redistributivo”.

Come afferma Rosella Cappella Zielinski, le famiglie a medio e basso reddito in genere non possono concedere prestiti e ricevere pagamenti di interessi, ma sono comunque tassate. Quando lo stato finanzia la guerra attraverso i prestiti, assistiamo a una “enorme redistribuzione della ricchezza dalle classi a reddito medio e basso a quelle ricche”.

La Alden evidenzia tendenze simili: “Negli anni ’90 il 10% delle famiglie più ricche possedeva circa il 60% del patrimonio netto delle famiglie di tutto il Paese. Nel 2006 suddetta quota era aumentata al 65%; alla fine del 2019 era superiore al 70%. Nel frattempo la quota di ricchezza detenuta dal 90% delle famiglie più povere è scesa dal 40% del patrimonio netto delle famiglie di tutto il Paese negli anni ’90 al 35% nel 2006; poi a meno del 30% alla fine del 2019”.

Questo effetto redistributivo è diventato ancora più amplificato nella politica fiscale durante la crisi sanitaria. Secondo una relazione di Oxfam del gennaio 2022: “La ricchezza dei 10 uomini più ricchi del mondo è raddoppiata sin dall’inizio della pandemia”, mentre “i redditi del 99% dell’umanità sono in condizioni peggiori”.

I critici della FED, come Jeff Snider, sostengono che la banca centrale “ottiene risultati pessimi nel suo lavoro”; ma cosa accadrebbe se il suo compito fosse quello di arricchire l’élite americana e mantenere bassi i costi di finanziamento per la spesa in attività come la guerra? In tal caso potremmo dire che ha fatto piuttosto bene.

Secondo la Alden, uno dei motivi per cui gli Stati Uniti hanno una concentrazione di ricchezza molto più elevata rispetto al resto del mondo sviluppato è perché spendono di più in ambito militare in percentuale del PIL, cosa che generalmente non è l’uso più costruttivo della spesa per la prosperità interna. Secondo lei gli Stati Uniti avrebbero potuto, ad esempio, utilizzare i mille miliardi di dollari spesi per i prestiti per combattere i tagli alle tasse sui salari per i lavoratori e le infrastrutture, o semplicemente mantenere un rapporto debito/PIL più basso. Indica il Giappone come una società che ha un debito molto elevato e che viene speso tutto a livello nazionale per mantenere l’assistenza sanitaria a buon mercato e supportare il contratto sociale. Di conseguenza ha meno populismo, meno polarizzazione, una maggiore ricchezza mediana e così via.

Ma l’America non è il Giappone. La sua politica monetaria accomodante non ha ridotto la disuguaglianza, anzi l'ha peggiorata. E uno dei fattori maggiori è la spesa bellica.

“Entro il 2030”, secondo Heidi Peltier, “gli americani avranno speso oltre $2.000 miliardi solo in interessi [per la guerra], non per qualcosa di produttivo o per una qualsiasi azione militare che avesse potuto renderci più sicuri. I costi per il Paese non sono semplici fondi utilizzati in guerra rispetto ad attività pacifiche, ma sono, cosa ancora più importante, i fondi sprecati nel pagamento degli interessi piuttosto che in investimenti produttivi, programmi utili o riduzione delle tasse. Piuttosto che spendere il 2,4% del nostro PIL per pagare gli interessi, in quale altro modo produttivo potremmo spendere tali fondi?”

In sintesi, un'esternalità significativa della sicurezza nazionale tramite tassi d'interesse bassi è l’aumento della disuguaglianza negli Stati Uniti, uno scenario che va ben oltre anche quello visto negli anni ’20.

Se il sistema politico americano non fosse costruito su un mix di monetizzazione del debito e guerre irresponsabili — e sul pagamento delle spese militari senza il consenso pubblico — chissà come sarebbe lo stato di guerra degli Stati Uniti.

Potemmo immaginare un’operazione più limitata, più focalizzata sulla difesa interna da minacce reali e la scelta di azioni apprezzate dalla popolazione per evitare che venga dissanguata.


IX. CRASH FINANZIARI E GUERRA FINANZIATA DAL DEBITO

Nel suo libro, The Political Economy Of American Hegemony, l’economista Thomas Oatley sostiene che le operazioni militari statunitensi finanziate dal debito degli anni ’60, ’80 e 2000 hanno portato a un collasso monetario, bancario e immobiliare.

Oatley sostiene che le scorribande militari finanziate dal debito nell’era del denaro fiat finiscono per causare recessioni. Egli esamina il crescendo durante la guerra del Vietnam alla fine degli anni ’60, seguito dalla svalutazione del dollaro e dalla fine del gold standard; il crescendo antisovietico negli anni ’80 innescato dall’invasione dell’Afghanistan, seguito dalla crisi denominata Saving and Loan e dal Lunedì nero; la guerra al terrorismo innescata dal 9/11, seguito dalla Grande Crisi Finanziaria.

La sua conclusione è che quando gli Stati Uniti s'indebitano per combattere le guerre, l’economia va in deficit, si surriscalda e crolla: un’altra esternalità del conflitto militare finanziato dal debito che si aggiunge all’aumento della disuguaglianza.

Secondo Oatley: “I potenziamenti militari del dopoguerra hanno rappresentato grandi eventi economici: hanno aumentato la spesa pubblica in media di circa il 2% del PIL per quattro o più anni consecutivi. Per contestualizzare tutto ciò, si consideri che l’American Recovery and Reinvestment Act (ARRA), emanato nel febbraio 2009 come pacchetto di stimoli economici per combattere la Grande Recessione, ha aumentato la spesa pubblica di $230 miliardi, ovvero circa l’1,5% del PIL, nel 2009 e 2010 [...]. Il tipico rafforzamento militare del dopoguerra ha quindi avuto un impatto proporzionalmente maggiore e più sostenuto sulla spesa pubblica rispetto allo stimolo fiscale messo in atto per combattere la più profonda recessione postbellica dell’America”.

In sostanza, Oatley sostiene che la spesa militare porta a crolli economici ciclici, danneggiando l’americano medio. Dice che gli Stati Uniti non hanno avuto una “corsa agli sportelli del dollaro” sin dagli anni ’70 grazie all’aumento della domanda mondiale per il dollaro. Qualsiasi altro Paese sarebbe potuto crollare, ma poiché il dollaro è la valuta di riserva, un tale status gli ha fornito protezione. Invece di manifestarsi sotto forma di svalutazione monetaria, tali pressioni, sostiene Oatley, si sono manifestate sotto forma di collasso dei mercati.

Il potere finanziario dell’America”, scrive Oatley, “consente al governo degli Stati Uniti di aumentare drasticamente la spesa militare in risposta alle sfide militari straniere senza la necessità di risolvere il conflitto politico su come finanziarla. Dato che gli Stati Uniti possono importare capitali in grandi volumi a basso costo per periodi prolungati, i politici si trovano ad affrontare una pressione di mercato scarsamente diffusa per concordare misure di riduzione del deficit. E la facilità con cui gli Stati Uniti attraggono capitali esteri implica che il settore privato non si trova a fronteggiare costi di finanziamento più elevati a causa del debito pubblico. Inoltre il settore aziendale ha pochi motivi per fare pressione sul governo affinché pareggi il bilancio e il settore finanziario trae profitto dall’intermediazione del maggior volume di fondi che affluiscono nell’economia americana. Il potere finanziario consente al governo degli Stati Uniti di aumentare la spesa militare senza dover tagliare i programmi di assistenza sociale, senza dover ridurre i consumi privati e senza dover ridurre gli investimenti del settore privato.

E così, proprio come la FED ha rimosso il mercato obbligazionario come guardiano delle spese militari, l’egemonia del dollaro rimuove il peso del debito come guardiano del potere rispetto alle spese militari.

“I politici americani”, scrive Oatley, “scoprirono di vivere in un mondo in cui il capitale è disponibile in quantità potenzialmente illimitate. L’accesso ai mercati finanziari mondiali consente allo Stato di rinviare indefinitamente le scelte politiche complicate [mentre avrebbe trovato difficile] allocare il capitale tra priorità sociali concorrenti”.

Si tratta di una combinazione potente: supremazia del dollaro e QE... ma non è sostenibile.


X. DIMINUZIONE DELLA DOMANDA ESTERA PER IL DEBITO STATUNITENSE

L'espansione dell’intervento della Federal Reserve nel mercato obbligazionario statunitense è arrivata in un momento geopolitico importante.

Il debito pubblico americano stava raggiungendo una zona pericolosa: il rapporto debito/PIL è ora al massimo storico, superiore al 130%, addirittura superiore al picco raggiunto durante la Seconda Guerra Mondiale. Il Congressional Budget Office prevede $112.000 miliardi in nuovi deficit nei prossimi tre decenni, che spingerebbero il debito oltre il 200% del PIL. In quel mondo futuro, il pagamento degli interessi sul debito rappresenterebbe la più grande porzione sulla spesa federale, consumando quasi la metà di tutte le entrate fiscali.

“Quando un Paese arriva a circa il 100% del rapporto debito/PIL, la situazione diventa quasi irrecuperabile”, scrive la Alden. “C’è una probabilità molto piccola che le obbligazioni riescano a evitare il default e a pagare tassi d'interesse più alti del tasso d'inflazione prevalente. In altre parole, le obbligazioni molto probabilmente inizieranno a perdere una quantità significativa di potere d’acquisto per quei creditori che hanno prestato denaro ai governi che le hanno emesse”.

La Alden prosegue scrivendo che “su 51 casi di stati con un debito superiore al 130% del PIL sin dal 1800, 50 sono andati in default”. L’unica eccezione è il Giappone, che — a differenza degli Stati Uniti — è la più grande nazione creditrice al mondo.

Lei stima che il rapporto debito/entrate del governo degli Stati Uniti oggi sia pari a circa “$32.500 miliardi diviso $4.250 miliardi, ovvero circa 7,6X”.

Se l’America fosse una società, dice, “sarebbe in uno status di obbligazioni spazzatura”. Sottolinea anche che ogni aumento dell’1% sui tassi d'interesse per $30.000 miliardi di debito equivale a $300 miliardi aggiuntivi all’anno in spese. La Alden definisce le guerre successive al 9/11 “l’orizzonte degli eventi” per la politica fiscale degli Stati Uniti, “dal momento che hanno aggiunto migliaia di miliardi di dollari al debito nazionale senza un grande aumento del PIL”.

Come scrive Brian Reidl, membro senior del Manhattan Institute: “Se Washington scopre che il suo debito sta mettendo la sua sostenibilità fiscale in balia dei tassi d'interesse, non c’è dubbio che presidenti, segretari del Tesoro e Congresso faranno pressione sulla Federal Reserve affinché garantisca interessi artificialmente bassi, compresa la monetizzazione di gran parte del debito, se necessario”.

Ciò, ovviamente, può accadere solo se l’America riesce a mantenere viva la corsa all’acquisto del suo debito.

Una tendenza importante nell’era del fiat standard è che il governo degli Stati Uniti cerca di trovare acquirenti per il proprio debito. Per molti decenni ha avuto successo, spesso con la coercizione.

Alla fine degli anni ’60, quando il deficit della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti divenne per la prima volta una delle principali preoccupazioni e l’America iniziò a diventare permanentemente una nazione debitrice, la questione fu affrontata in parte attraverso la Germania. Il presidente Johnson usò le minacce per costringere la Germania occidentale ad acquistare più titoli del Tesoro statunitensi di quanto avrebbe altrimenti fatto.

Successivamente vennero gli stati dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC). Con la creazione del sistema del petrodollaro nel 1974, i nuovi stati ricchi dell’OPEC guidati dall’Arabia Saudita accettarono di prezzare il petrolio in dollari e di riciclare i loro guadagni in dollari nel debito statunitense in cambio di armi e protezione. Negli anni ’80 il Giappone fu costretto ad acquistare il debito statunitense a seguito degli Accordi del Plaza e di altri accordi internazionali.

Negli anni 2000 il governo degli Stati Uniti ha speso enormi risorse perseguendo una politica che avrebbe portato la Cina ad accumulare debito statunitense, spingendola anche all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, cosa che l’ha aiutata a guadagnare dollari riciclando più di $1.000 miliardi nei titoli del Tesoro statunitensi.

Dall’epoca del Vietnam all’Iraq, i tedeschi, i giapponesi, i Paesi dell’OPEC e infine i cinesi hanno prodotto una pressione marginale di acquisto sul debito statunitense, consentendo all’America di espandere continuamente il suo stato di guerra e riducendo al contempo la sua base manifatturiera.

Dato che col tempo il dollaro era diventata la valuta di riserva mondiale, c’erano ovvie ragioni affinché gli investitori si riversassero sul debito statunitense. Dopotutto l’America è l’economia più potente del mondo ed è quella con meno probabilità di andare in default; senza contare che le tattiche coercitive sopra menzionate hanno portato ad un sistema in cui ci sarebbe stata più domanda e tassi più bassi di quanto altrimenti possibile.

Con le guerre successive al 9/11 che facevano affidamento sul mercato obbligazionario, gli stranieri — tra cui tedeschi, giapponesi, sauditi e cinesi — inizialmente hanno contribuito a sostenere le operazioni militari statunitensi, finanziando fino al 40% di tutta la spesa bellica tra il 2001 e il 2020. Adesso, però, le cose stanno cambiando.

L’analista finanziario Luke Gromen ha sottolineato che nell’ultimo decennio i principali Paesi del mondo hanno fermato o rallentato l’acquisto di titoli del Tesoro statunitensi. Questa dinamica ha cominciato a cambiare con la Grande Crisi Finanziaria. Scioccato dallo sforzo americano di salvare i mercati finanziari, il governo cinese ha cominciato a dubitare della credibilità del debito americano. Nel 2013 ha agito formalmente riducendo massicciamente i suoi acquisti; molti altri Paesi hanno seguito l’esempio. La percentuale di proprietà straniera del debito statunitense è diminuita significativamente negli ultimi dieci anni.

La Cina, che ha quadruplicato le sue partecipazioni portandole a $1.300 miliardi tra il 2004 e il 2012, in realtà le ha ridotte negli ultimi dieci anni, così come il Giappone e la Germania. In parte a causa delle guerre successive al 9/11, e in parte a causa della Grande Crisi Finanziaria, la fiducia nel sistema del dollaro ha iniziato a scemare. Le obbligazioni statunitensi hanno perso circa il 4% del loro valore solo nei primi mesi del 2022.

Come sottolinea Gromen, prima della crisi finanziaria mondiale gli stranieri possedevano circa il 60% del debito statunitense; oggi le loro partecipazioni sono scese al di sotto del 40%. Il divario è stato completamente colmato dalla FED e da un mercato che sa che quest'ultima sarà l’acquirente di ultima istanza.

Il punto chiave è che senza il QE e la ZIRP il governo degli Stati Uniti avrebbe dovuto ritirare migliaia di miliardi del proprio debito dal mercato mondiale e i rendimenti sui suoi titoli del Tesoro sarebbero stati più alti e le guerre eterne sarebbero state abbreviate.

C’è chi dice che la Federal Reserve abbia pochissimo potere sui tassi d'interesse e che l’era dei tassi bassi non è dovuta alla sua linea di politica, bensì alla crescente domanda globale di debito statunitense nel sistema dell’eurodollaro e ad un’era di deflazione e carenza di dollari. Secondo questo punto di vista il mondo sta volontariamente pompando lo stato militare americano contro la propria volontà, perché vuole titoli del Tesoro USA — la base monetaria internazionale degli ultimi 50 anni.

C’è una certa verità in questo assunto. I governi, le aziende private e gli individui in tutto il mondo hanno bisogno e vogliono dollari, soprattutto in tempi di crisi.

Ma i titoli del Tesoro USA sarebbero altrettanto preziosi quanto richiesti, e quindi economici, da poter essere ripagati dal governo degli Stati Uniti se non ci fosse un intervento sul mercato obbligazionario da parte della banca centrale americana? Se un attore di mercato compra quasi $9.000 miliardi di qualcosa, ciò avrà un impatto sul mercato.

Alla fine ciò che è chiaro è che l’attuale stato di guerra americano si basa sulla domanda interna di titoli del Tesoro alimentata dal QE. Pochi americani sarebbero d’accordo con il risultato finale di meno risparmi, più guerre e meno controllo da parte dei cittadini sulle scelte politiche se sapessero davvero cosa sta succedendo.


XI. L'ASCESA DELLA TEORIA DELLA PACE CON BITCOIN

Ricapitoliamo quanto esposto finora:

• Le guerre americane successive al 9/11 sono state pagate interamente attraverso l’indebitamento e sono diventate sempre più lontane dalla vita quotidiana e dal discorso pubblico;

• Il governo degli Stati Uniti si è impegnato in un intervento senza precedenti sui mercati obbligazionari, cosa che ha contribuito a mantenere basso il costo per finanziare le guerre;

• Le esternalità negative della guerra finanziata dal debito includono un aumento della disuguaglianza dovuto all’inflazione dei prezzi degli asset, nonché crisi economiche cicliche;

• L’unico modo per mantenere in vita questo sistema è una maggiore monetizzazione del debito attraverso l’emissione di nuove obbligazioni e il QE, dato che la domanda estera di debito statunitense ha raggiunto il picco;

• Il finanziamento della guerra attraverso il prestito rende più probabile il conflitto, mette in pericolo la teoria della pace democratica e, in definitiva, erode la democrazia stessa.

I sistemi monetari basati sul debito sono più bellicosi dei sistemi monetari basati sulle materie prime? Una cosa è certa: il primo permette di estendere le guerre ben oltre ciò che sarebbe altrimenti possibile.

Prendiamo ad esempio la Russia. Dopo aver invaso l’Ucraina è ora in gran parte tagliata fuori dal sistema finanziario internazionale; non può facilmente accendere prestiti sui mercati internazionali; sì, ha riserve strategiche, un basso livello di debito pubblico, un bilancio in pareggio e un flusso di denaro in arrivo per petrolio e gas, ma la guerra è estremamente costosa — questa in particolare le costa $20 miliardi al giorno — e il suo sistema ha altri costi. Se la sua operazione in Ucraina non avesse successo, Putin dovrà attingere alle sue riserve — che si esauriranno nel giro di pochi mesi — o svalutare il rublo per finanziare la guerra. Naturalmente può fare un po’ di QE, ma non è nella posizione di effettuare acquisti illimitati di obbligazioni.

Putin non può far andare avanti una guerra per sempre senza imporre costi reali ai suoi cittadini, che alla fine potrebbero ripudiarla. E questa è una buona cosa. Gli Stati Uniti, al contrario, trovarono, all’apice della loro potenza, un modo magico per finanziare le guerre senza restrizioni.

Abusando del suo privilegio di emettere la valuta di riserva mondiale, l’America ha imposto costi di guerra alle popolazioni future, prolungando i conflitti in diversi continenti senza il consenso o addirittura la conoscenza del pubblico.

Questo è il risultato finale del sistema bancario centrale fiat: un governo apparentemente “democratico” che spende in modo irresponsabile, arricchendo infine pochissimi a scapito di tutti. E ciò potrebbe essere ulteriormente amplificato dall’ascesa delle valute digitali delle banche centrali, progettate per sostituire i contanti nell’economia reale e dare agli stati la possibilità di distribuire facilmente "denaro dagli elicotteri", imporre tassi d'interesse negativi, fissare date di scadenza sui risparmi, gestire liste nere politiche, insediare uno stato di sorveglianza finanziaria totale e accumulare ulteriormente potere sulla grande industria.

Nell’ambito del processo di ricerca per questo saggio, ho parlato con un trader che negli ultimi dieci anni si è occupato a lungo della FED e del sistema degli operatori primari.

Ha spiegato che il potere della Federal Reserve facilita gran parte della spesa del Congresso e che senza l’intervento della prima, i tassi sarebbero più alti, cosa che porterebbe a sua volta a tasse più alte e a un maggiore interesse pubblico su come viene speso il denaro. In breve, l’intervento della FED ha contribuito a nascondere la spesa al pubblico e ha dato allo stato un potere incontrollato.

Gli americani si trovano oggi in una situazione in cui i creditori che acquistano i loro titoli del Tesoro non necessariamente sanno che stanno pagando per uno stato di guerra inefficiente e antidemocratico.

Esistono tre potenziali soluzioni a questo problema.

La prima sarebbe la coscrizione. Se ogni americano dovesse arruolarsi nel servizio militare, i cittadini potrebbero avere molto più dibattito sulla guerra di quanto non hanno oggi. Verrebbero comunque combattute guerre esistenziali o giuste, ma ci sarebbe una seria esitazione a mandare parenti e amici all’estero per qualcosa di diverso dal livello di gravità di Pearl Harbor.

La seconda sarebbe il ripristino delle tasse di guerra e dei Liberty Bond: una nuova tassa fissa sul popolo americano, specificatamente etichettata, per pagare la guerra globale al terrorismo e con istruzioni chiare su cosa finanziare; lo stesso dicasi per i Liberty Bond, in cui il governo degli Stati Uniti dovrebbe vendere una percentuale dei suoi titoli del Tesoro contrassegnati come tali e consentire loro di essere trattati sul libero mercato. Forse alla FED verrebbe addirittura proibito di acquistarli e di gonfiarne il valore.

La coscrizione e la nuova tassazione non sono solo moralmente discutibili, ma anche politicamente impossibili. Ciò lascia una terza alternativa allo status quo: un cambiamento nel sistema monetario verso un Bitcoin standard.

Ovviamente nessuna banca centrale sceglierebbe mai di rinunciare al proprio controllo sul denaro. Nessun gruppo di burocrati si porrebbe mai dei limiti, ma Bitcoin potrebbe forzare la mano. Nel suo primo decennio di vita, è passato dall'essere un misterioso post su un forum cypherpunk a un asset da migliaia di miliardi di dollari, e data la politica macroeconomica globale — in cui inflazione estrema, censura finanziaria, sanzioni onerose, sorveglianza intrusiva e società di pagamento strozzine sono la norma — Bitcoin possiede notevoli vantaggi per essere adottato a livello mondiale.

Essendo l’unica valuta digitale al mondo con una politica monetaria prevedibile, Bitcoin potrebbe benissimo continuare a crescere e intaccare il ruolo di riserva di valore attualmente ricoperto da oro, immobili, azioni e titoli di stato a rendimento negativo. Non è escluso che un giorno Bitcoin possa diventare la valuta di riserva mondiale e un asset per il quale gli stati concorrerebbero attraverso il mining, la tassazione, gli incentivi o la confisca.

Oltre a ciò, esiste la possibilità che Bitcoin diventi anche il mezzo di scambio desiderato a livello mondiale per i cittadini di tutto il mondo. Anche se oggi ciò può sembrare inverosimile, si consideri la Legge di Thiers, una tendenza economica nei Paesi in dollarizzazione, in cui la valuta locale diventa così scarsa che la moneta buona scaccia quella cattiva. Allo stesso modo, nel corso del tempo i commercianti potrebbero volere i bitcoin e non il denaro fiat, eliminando dalla circolazione le valute create dagli stati, o almeno riducendone significativamente l’uso.

Questo sarebbe un Bitcoin standard e, in una tale linea temporale, la FED, operando con un conto di riserva di BTC, non potrebbe acquistare asset all'infinito. Una volta esaurite le sue riserve di bitcoin, per acquistarne di più dovrebbe necessariamente tassare o vendere obbligazioni a tassi non sovvenzionati. I calcoli economici dell’America sembrerebbero più simili a quelli effettuati oggi dalla maggior parte dei Paesi del mondo, che devono pensare attentamente al risparmio e fare scelte difficili sulla spesa per evitare di ridurre le proprie riserve.

Potrebbe sembrare simile al gold standard — il quale è stato ucciso dagli stati dato che erano in grado di sequestrare, centralizzare e demonetizzare il metallo giallo — ma è diverso in due aspetti cruciali.

A differenza dell’oro, la cui produzione è controllata da una manciata di megacorporazioni, Bitcoin opera tramite software sparsi sotto pseudonimo in tutto il mondo su decine di migliaia di server gestiti privatamente. I suoi utenti sono fortemente incentivati a non scaricare ed eseguire mai una nuova versione del software con più di 21 milioni di bitcoin. E a differenza dell’oro, Bitcoin è detenuto principalmente da individui, non da stati o grandi società. Ciò rende molto più difficile abbassarne il giusto prezzo di mercato per lunghi periodi di tempo.

Le incombenti condizioni macro rendono ancora più probabile un’ulteriore adozione di Bitcoin. Probabilmente ci attende un decennio di tassi d'interesse bassi e inflazione elevata. Questa repressione finanziaria continuerà a spingere gli individui verso una forma di denaro che non può essere svalutata.

Con un Bitcoin standard, gli stati sarebbero più vincolati; sarebbero ancora in grado di prendere in prestito per pagare le spese, emettere valuta fiat e condurre guerre popolari, ciononostante dovrebbero essere molto più trasparenti con il pubblico riguardo la spesa, poiché dipenderebbero più strettamente dal consenso e dalla cooperazione delle persone per le entrate, e i tassi d'interesse sui titoli sovrani non potrebbero essere manipolati tanto facilmente.

Sì, tutte le spese sarebbero sotto un occhio più attento in un Bitcoin standard, ma pensiamo a cosa verrebbe tagliato per primo in uno scenario del genere: la spesa per guerre eterne in terre lontane che tendono solo ad arricchire gli appaltatori militari, o la spesa per il miglioramento delle infrastrutture nazionali, dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria? Il sistema americano, che già tende a finanziare i diritti sociali con le tasse e le azioni militari estere con i prestiti, potrebbe darci la risposta.

Un sondaggio del 1° marzo 2022 condotto da Rasmussen ha riportato che il 53% dei democratici e il 49% dei repubblicani pensava che le forze armate statunitensi avrebbero dovuto unirsi alla guerra se fosse divampata in tutta Europa. Ci si chiede quale sarebbe il livello di sostegno se la domanda fosse basata sui costi e non solo sul sentimento: sosterreste una tassa di guerra? Acquistereste titoli di stato? Sosterreste il ritorno alla coscrizione?

Forse il popolo americano, nella tradizione della Seconda Guerra Mondiale, considererebbe una guerra del genere come essenziale per la democrazia e spingerebbe per il coinvolgimento degli Stati Uniti con il proprio sangue e la propria ricchezza. Forse avrebbe aspettato a impegnarsi finché non fosse stato attaccato direttamente, come avvenne a Pearl Harbor. In ogni caso, una guerra ampiamente popolare può essere combattuta con qualsiasi standard monetario, ma le guerre eterne in Medio Oriente e in Asia, scollegate dalla vita dell’americano medio, sono possibili solo grazie al fiat standard.

Il costo della guerra potrebbe essere pericolosamente invisibile nelle democrazie odierne, ma non deve essere così per sempre.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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