Bibliografia

venerdì 28 aprile 2023

Bitcoin può diventare la valuta della libertà per la Palestina?

 

 

di Alex Gladstein

Di recente ho parlato con un utente Bitcoin all'interno della Striscia di Gaza.

Ha chiesto di rimanere anonimo e di farsi chiamare Uqab, una parola araba che sta per "aquila", poiché ha corso un grosso rischio a parlare con me.

Abbiamo parlato su Telegram e abbiamo dovuto cronometrare la nostra chiamata, poiché Uqab ha solo poche ore di elettricità al giorno. Per lui la nostra chiacchierata è avvenuta nel cuore della notte e un amico palestinese ha aiutato a tradurre la telefonata in diretta. Mentre parlavamo, era difficile capire com'era la vita dall'altra parte della linea.

Uqab parlava da Rafah, una città nella parte meridionale di Gaza, una zona di guerra che viene pesantemente bombardata dall'esercito israeliano; mi sembrava di parlare con qualcuno di un altro pianeta.

Ha parlato di strade distrutte, edifici rasi al suolo, interruzioni di corrente e rifornimenti limitati. Una mappa degli attacchi missilistici israeliani fa sembrare Gaza un formaggio svizzero e dà un'idea del danno strutturale.

Uqab mi ha chiesto di pensare a quanto stiano andando male le cose in tutto il mondo dal punto di vista economico, anche negli Stati Uniti, a causa della crisi sanitaria e dei lockdown, e poi ha detto: “Bene, ora immagina come vanno le cose qui da noi”.


I. UN CHECKPOINT SEMPRE APERTO

La Striscia di Gaza è un pezzo di territorio largo circa cinque miglia e lungo 28 miglia, stretto tra l'angolo sud-occidentale di Israele, il Sinai egiziano e il Mar Mediterraneo. Originariamente sede di una comunità palestinese invasa dai profughi in fuga da quello che oggi è Israele dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, oggi è uno dei luoghi più densamente popolati della Terra. Gaza è grande meno della metà di Austin, in Texas, ma ha più del doppio della sua popolazione. Pensate a Hong Kong, ma in un deserto e con infrastrutture fatiscenti.

Negli ultimi quattro decenni i due milioni di abitanti, metà dei quali sotto i 18 anni, hanno assistito a un collasso quasi totale della civiltà.

Nel 2006 Hamas, fondata con la missione di distruggere Israele e non riconosce il suo diritto di esistere, ha vinto le elezioni palestinesi, in quello che è stato ampiamente considerato come un voto di protesta contro l'estrema corruzione e l'inettitudine che il precedente partito al potere, Fatah, aveva mostrato nei 12 anni dalla creazione dell'Autorità palestinese. Le elezioni non sono state ritenute legittime da molti attori internazionali — gli Stati Uniti e l'UE, ad esempio, considerano Hamas un gruppo terroristico — e Fatah è rimasto al potere in Cisgiordania. Gli abitanti di Gaza, nel frattempo, sono caduti sotto il dominio dittatoriale di uno stato di polizia islamista. Per rappresaglia, nel 2007 i governi israeliano ed egiziano hanno chiuso Gaza al mondo esterno.

Un quindicenne che oggi vive a Gaza è sopravvissuto a quattro grandi guerre tra le forze di difesa israeliane e Hamas, la più recente avvenuta due mesi fa.

Tra il 10 e il 21 maggio del 2021, Hamas ha lanciato più di 4.300 razzi contro città e Paesi israeliani, e le forze di difesa israeliane hanno risposto con più di 1.500 missili propri. Questa battaglia è stata la peggiore sin dal 2014. Una relazione delle Nazioni Unite pubblicata nello stesso anno ha stimato il danno tra i $280 milioni e i $380 milioni e ha previsto un budget di recupero compreso tra i $345 milioni e i $485 milioni. Tra le macerie, 800.000 abitanti di Gaza sono rimasti senza accesso all'acqua potabile. Possono uscire ufficialmente nel mondo esterno solo attraverso due posti di blocco e anche quelli erano stati attivati e disattivati durante la violenza.

Nel 2012 le Nazioni Unite hanno pubblicato un documento in cui si prevedeva che Gaza sarebbe stata "invivibile" entro il 2020. Questa previsione era tragicamente accurata. Secondo una relazione della Banca mondiale, e pubblicata nel 2021, anche prima dell'ultima ondata di bombardamenti, il tasso di disoccupazione a Gaza era del 48% e del 64% per i minori sotto i 30 anni. Un abitante di Gaza su due — inclusi 400.000 bambini — vive in condizioni di povertà e oltre l'80% delle famiglie dipende dall'elemosina alimentare o da qualche tipo di assistenza sociale.

Secondo una relazione dell'FMI del 2017, la guerra tra Israele e Hamas alla fine del 2008 ha distrutto più del 60% del capitale azionario di Gaza e i bombardamenti del 2014 hanno distrutto l'85% di ciò che restava. Nei 25 anni tra il 1994 e il 2018 Gaza ha subito un calo del 44% del PIL reale pro capite, con gli abitanti di Gaza che sono passati dal 96% del reddito medio rispetto alle loro controparti in Cisgiordania ad appena il 30%. Tutto questo nonostante abbia uno dei tassi di natalità più alti al mondo, con più di 3,5 figli per famiglia oggi, in calo rispetto ai quasi sette figli per famiglia nel 1990.

Gli investimenti esteri a Gaza sono diminuiti dall'11% del PIL palestinese nel 1994 a solo il 2,7% nel 2018. All'indomani della guerra del 2008-2009 tra Hamas e Israele, si stima che oltre il 90% delle fabbriche della Striscia abbiano chiuso; le estreme restrizioni al commercio con Israele hanno avuto un impatto pesante. L'unica centrale elettrica di Gaza funziona solo a una frazione della sua capacità, data l'impossibilità d'importare abbastanza carburante e componenti. Il settore agricolo è crollato, poiché gli agricoltori hanno perso il loro principale mercato israeliano per le merci e sono stati costretti a vendere alla popolazione di Gaza a prezzi inferiori. In alcuni casi, hanno dovuto distruggere i loro raccolti.

Nel 2020 una relazione delle Nazioni Unite ha preso in considerazione un controfattuale in cui gli abitanti di Gaza non avrebbero dovuto affrontare ulteriori restrizioni dopo il 2006 e dove invece la loro economia avrebbe continuato a crescere allo stesso ritmo di quella della Cisgiordania. In quel mondo "da sogno" il reddito pro capite sarebbe stato superiore del 105,5%, raggiungendo $1.539. Invece oggi, nel vero incubo in cui vivono gli abitanti di Gaza, è ben al di sotto dei $1.000.

Il disastro economico di Gaza non è qualcosa di nuovo e non è il risultato degli ultimi 15 anni di guerra e autoritarismo; è invece il risultato di politiche iniziate molti decenni fa. Nel 1987 la studiosa di Harvard, Sarah Roy, pubblicò un documento utilizzando anni di lavoro sul campo e interviste per mostrare il costo economico di vent'anni di occupazione militare nella Striscia di Gaza sin dal 1967. Per descrivere ciò che vide, coniò un nuovo termine: "de -sviluppo". Questo rappresentava lo “smembramento deliberato, sistematico e progressivo di un'economia indigena da parte di un'economia dominante, dove il potenziale economico — e per estensione, sociale — non solo è distorto ma addirittura negato”.

I redditi e la produzione economica di Gaza aumentarono in modo significativo dal 1967 al 1987, alimentati dalle rimesse dal lavoro in Israele e all'estero. Ma la Roy sottolineò che questo flusso di capitale venne ampiamente utilizzato per acquistare beni di consumo da Israele, con due terzi del reddito disponibile destinato al consumo privato nella metà degli anni '80. Ciò provocò “un aumento dei livelli di consumismo all'interno della Striscia di Gaza con pochi, se non nessuno, dei benefici economici derivati da tale consumismo per la Striscia stessa”.

La Roy osservò che l'alta percentuale di manodopera di Gaza in Israele non era un segno di una società che “sperimenta modelli tipici associati al processo d'industrializzazione (o modernizzazione), in cui la manodopera si sposta gradualmente dalle attività agricole a quelle non agricole, [...] piuttosto per la manodopera di Gaza la decisione di cercare lavoro all'interno d'Israele è una funzione della mancanza di opzioni comparabili all'interno dell'economia interna di Gaza”. Nel 1987 la Roy disse che le caratteristiche distintive dell'economia di Gaza erano “l'erosione della sua stessa base economica interna e la sua conseguente dipendenza da Israele”.

Nel 1991 il ministro della difesa israeliano, Moshe Arens, creò la commissione Sadan, incaricata di esplorare come migliorare l'economia di Gaza. La conclusione fu eloquente: “Nel promuovere gli interessi economici della popolazione [palestinese], l'attenzione si è concentrata sui salariati e sul breve periodo. Per quanto riguarda i salariati, è stata data priorità all'aumento del loro reddito assumendoli nell'economia israeliana. Raramente la politica ha optato per lo sviluppo di un'infrastruttura e l'incoraggiamento alla creazione di fabbriche e occupazione all'interno della stessa Striscia di Gaza. Nessuna priorità è stata data alla promozione dell'imprenditoria locale e del settore imprenditoriale nella Striscia di Gaza. Inoltre le autorità hanno scoraggiato tali iniziative ogni volta che minacciavano di competere col mercato israeliano e le aziende israeliane esistenti”.

E così la sconcertante situazione degli abitanti di Gaza può essere vista come il risultato di decenni di politiche esterne. In primo luogo, una dipendenza forzata dall'economia israeliana e lo scoraggiamento dello sviluppo industriale sovrano sotto l'occupazione militare israeliana; poi la chiusura di tale ancora di salvezza economica, poiché nel tempo agli abitanti di Gaza è stato proibito di lavorare in Israele e, alla fine, sono stati tagliati fuori dal mondo esterno; infine la distruzione delle loro infrastrutture attraverso la guerra.

Nel 2021 l'amministrazione Biden ha inviato il segretario di Stato, Antony Blinken, in Cisgiordania per incontrare il presidente palestinese Mahmood Abbas e ha promesso $75 milioni in nuovi aiuti per ricostruire Gaza. Ma la storia regionale mostra che gran parte di questi doni vengono intascati dalle élite e non riescono a migliorare la vita della persona media. Gli aiuti da soli non possono riparare uno stock di capitale morente.

In tutto questo gli abitanti di Gaza continuano a mostrare un'incredibile tenacia. Un proprietario di un negozio di nome Ashraf Abu Mohammad è stato citato dalla Reuters: “La vita tornerà, perché questa non è la prima guerra che affrontiamo e non sarà nemmeno l'ultima. Il cuore soffre, ci sono stati disastri, famiglie spazzate via, e questo ci rattrista, ma è il nostro destino in questa terra, avere pazienza”.

Ma la pazienza ha i suoi limiti. Quando ho parlato con Uqab, era chiaro che non avrebbe aspettato per sempre. Mi ha detto che vuole scappare e costruire una vita migliore per la sua famiglia e attraverso Bitcoin ha trovato una via d'uscita.

Ha detto che negli ultimi due anni c'è stata una crescente domanda di Bitcoin a Gaza, principalmente tra i giovani. Gli abitanti di Gaza potrebbero essere fisicamente intrappolati e tagliati economicamente fuori dal mondo esterno, ma Uqab ha definito Bitcoin “un checkpoint sempre aperto”.

“Ha permesso ad alcune persone di uscire dalla povertà”, ha detto. “Stanno investendo poco a poco, gradualmente, ma sta funzionando”. Ha anche detto che gli abitanti di Gaza “comprano durante i ribassi”, accelerando i loro acquisti mentre il prezzo di Bitcoin scende.

Alcuni li ricevono direttamente tramite app mobili da amici o familiari all'estero; altri usano i gruppi di Telegram per coordinare incontri di persona e scambiare denaro con bitcoin, oppure portano i loro soldi nei negozi fisici e fanno gli scambi lì. In questi negozi, ha detto Uqab, le autorità prendono la loro parte e tengono elenchi di chi compra e vende. Nessuno ancora è stato arrestato per aver usato Bitcoin. Le soluzioni di custodia sono Binance o Payeer, o Blue Wallet, che ha il supporto per la lingua araba, come soluzione decentralizzata.

Nonostante gli avvertimenti dei funzionari pubblici, ogni giorno sempre più abitanti di Gaza si uniscono alla rete Bitcoin.

Abbiamo un detto”, dice Uqab: “Se il governo dice che qualcosa è haram, significa che è halal”.

Abbiamo parlato di molte cose: il perché Uqab preferisce i bitcoin agli shekel (tutto a Gaza è monitorato, ma potreste avere molti bitcoin e la vostra famiglia non lo saprebbe nemmeno); le forse di difesa israeliane o Hamas possono impedire alle persone di usare Bitcoin? (“Siamo troppo intelligenti per questo, troveremo sempre una via d'uscita”); Satoshi avrebbe potuto prevedere che le persone avrebbero usato Bitcoin a Gaza? (“Sicuramente no”); aveva sentito parlare di El Salvador che rendeva Bitcoin a corso legale? (è stata una grande vittoria, hanno applaudito quando hanno saputo la notizia); gli abitanti di Gaza potrebbero adottare Bitcoin più velocemente degli israeliani? (Potrebbero non correre il rischio che gli abitanti di Gaza sono disposti a correre); e cosa c'è che non va nel sistema bancario? (“Sappiamo tutti che addebitare interessi alle persone a cui si presta denaro è peccaminoso”).

A Gaza, mi ha detto Uqab, non ci sono Venmo, PayPal e nessun modo semplice per effettuare transazioni con il mondo esterno. L'infrastruttura finanziaria sta crollando tanto quanto quella fisica e sociale. Ma oggi si può fare con Bitcoin ciò che prima era impossibile: inviare e ricevere denaro da e verso la propria famiglia all'estero, rapidamente, direttamente e con commissioni quasi nulle.

Per i pagamenti internazionali, Uqab ha affermato che in precedenza un mittente nel Golfo o negli Stati Uniti avrebbe dovuto inviare denaro tramite un conto bancario in un Paese come la Cina o la Tailandia, con il denaro che alla fine sarebbe finito in un ufficio pubblico a Gaza.

“Molti intermediari prenderebbero la loro parte, lasciando al destinatario solo una percentuale di ciò che è stato originariamente inviato. Inoltre oggi gli uffici della Western Union hanno iniziato a chiedere prove di consanguineità e gli interrogatori e le confische sono frequenti”.

“Con Bitcoin”, ha detto Uqab, “non ho bisogno di superare alcun test o selezionare alcuna casella. Posso semplicemente usarlo”.

Oggi si può ricevere o guadagnare denaro direttamente, oltre confine, ed essere la propria banca in un nuovo sistema finanziario.

“È molto meglio”, dicendomi con orgoglio che si sente a un certo livello "peer to peer" con gli altri nel mondo.

“Con Bitcoin, stiamo andando avanti con le nostre vite”, ha detto. “Inshallah, più palestinesi scopriranno questa tecnologia”.

Uqab non è ancora riuscito a lasciare Gaza, ma almeno per ora riesce a risparmiare nel cyberspazio, tenendo i suoi soldi al sicuro dalle autorità. È una grande innovazione, una di cui i palestinesi hanno un disperato bisogno.

Nella costante copertura delle loro sofferenze politiche — intrappolate dall'occupazione militare israeliana, dalle tattiche terroristiche di Hamas, dalla corrotta Autorità palestinese e da un mondo in gran parte indifferente — la loro situazione monetaria ed economica spesso non viene raccontata; ma il denaro è alla radice delle loro lotte.

I palestinesi non hanno il controllo della loro valuta. La loro mancanza di sovranità economica ha danneggiato profondamente la loro crescita e le loro prospettive per il futuro, ma molti come Uqab si stanno rivolgendo a Bitcoin come un modo per riprendersi la loro libertà finanziaria.


II. UNA STORIA DI REPRESSIONE FINANZIARIA

Più di 30 anni dopo il suo articolo su Gaza del 1987, Sarah Roy ha scritto che “gli eventi hanno ridotto i palestinesi a una questione umanitaria, privati (e immeritevoli) di diritti politici ed economici e dipendenti dalla comunità internazionale per il sostentamento, dove il sollievo e non il progresso diventa la principale se non l'unica opzione politica. I palestinesi considerano il presente migliore rispetto al futuro”.

Le ragioni di questa disperazione sono legate alla loro situazione finanziaria ed economica, dove i palestinesi sono diventati profondamente dipendenti dal mondo esterno, ma allo stesso tempo tagliati fuori. Il tema stesso del denaro è marginalizzato e talvolta ignorato; ad esempio, in una relazione delle dimensioni di un libro su Israele e Palestina pubblicata nell'aprile 2021 da Human Rights Watch, le questioni relative a valuta, banche, rimesse e commercio non vengono mai menzionate. Il Protocollo di Parigi – un documento estremamente importante firmato nel 1994 e che determina ancora le regole del denaro e dell'economia per i palestinesi – non veniva affatto citato.

Per scavare più a fondo, dobbiamo porci nuove domande. Perché l'economia palestinese è così dipendente dall'economia israeliana? Perché i palestinesi usano lo shekel e non la loro valuta? Perché i palestinesi non possono ordinare facilmente merci su Amazon o ricevere denaro dall'estero? Per saperne di più, ho parlato con l'economista politico palestinese Alaa Tartir.

Tartir, che ora vive in Svizzera con la sua famiglia, è nato a Ramallah e attribuisce ai suoi giorni di lavoro da adolescente il suo interesse per il denaro. Quando aveva 14 anni iniziò lunghi turni in un negozio di alimentari per mantenere la sua famiglia e risparmiare per la sua istruzione. Non poteva dare nulla per scontato ed era completamente autosufficiente. Questo lo motivò a continuare a lavorare per sette anni fino a quando non si laureò in finanza e contabilità.

Nel frattempo crebbe studiando il sistema economico che lo circondava e capì come l'Autorità palestinese sfruttava la sua posizione e sottraeva aiuti e altre entrate per arricchirsi, colludendo con il governo israeliano a scapito dei palestinesi.

Tartir mi ha guidato attraverso la storia economica e monetaria della Palestina moderna, che di solito viene ignorata o, almeno, passa in secondo piano rispetto alla storia politica più nota.

“Viene nascosta”, ha detto, “anche se il predominio dell'attore israeliano sull'attore palestinese è radicato in tutto, dall'uso dello shekel al modo in cui il governo israeliano riscuote le nostre entrate all'estero a come non abbiamo una banca centrale”.

Ha detto che il denaro è senza dubbio la forza trainante del motivo per cui i palestinesi sono dove sono oggi, dove la disoccupazione, la corruzione e la guerra hanno portato alla stagnazione della civiltà e all'erosione del capitale sociale.

È tornato indietro fino agli anni successivi all'inizio dell'occupazione militare israeliana nel 1967, quando inizialmente le sue politiche sembravano aiutare i palestinesi dal punto di vista economico. Il commercio era aperto con altre nazioni arabe e i palestinesi erano in grado di lavorare in Israele per salari più alti di quelli che potevano guadagnare in patria.

Negli anni '60, '70 e '80 il governo israeliano progettò un sistema di occupazione che incentivava i palestinesi a lavorare in Israele e impediva loro di sviluppare una base manifatturiera in patria, aumentando la dipendenza dalle importazioni israeliane. Nei due decenni dal 1968 al 1987, la quota industriale del PIL nei Territori Palestinesi Occupati (Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza) scese dal 9% al 7%. Nel 1970 c'erano 59.000 lavoratori agricoli nei territori summenzionati, i quali costituivano il 5,4% della popolazione rispetto ai 54.000, o il 2,3% della popolazione, nel 1993.

Tartir ha spiegato che negli anni '70 e '80 la dipendenza da Israele è diventata quasi totale, poiché i suoi prodotti superavano il 90% delle importazioni dei Territori Palestinesi Occupati, rendendo i palestinesi il secondo più grande acquirente di merci israeliane dopo gli americani. Come ha scritto lo studioso di economia israeliano, Shir Hever: “La principale fonte di reddito per i palestinesi sono diventate le rimesse dei loro lavoratori palestinesi [...] nel 1974 un terzo della forza lavoro palestinese era già impiegata in Israele [...] molti agricoltori palestinesi hanno abbandonato i loro terreni agricoli per lavorare in Israele, e le autorità israeliane ne hanno approfittato e hanno confiscato terreni che sono rimasti incolti per un certo periodo di tempo”. Ciò è dimostrato da come “la produttività agricola palestinese [è scesa] bruscamente dal 53% del PIL nel 1967 al 13% alla fine degli anni '80”.

Verso la metà degli anni '80 la crescita economica palestinese iniziò a rallentare. Il crollo del prezzo del petrolio e l'estrema inflazione in Israele fecero crollare le rimesse palestinesi dall'estero. Nel 1987, dopo un'enorme frustrazione politica e dopo che la loro qualità della vita si era arrestata, i palestinesi si ribellarono formando un movimento decentralizzato volto all'auto-sovranità e noto come Intifada.

Secondo il politologo Tariq Dana, Intifada era una "guerra economica" in due parti: “La prima ha cercato di danneggiare gli interessi economici israeliani nei Territori Palestinesi Occupati attraverso tattiche di disobbedienza civile come scioperi, boicottaggi dei prodotti israeliani, rifiuto di pagare il sostituto d'imposta e rifiuto di lavorare nei mercati e negli insediamenti israeliani [...] la seconda prevedeva lo sviluppo dell'economia locale in modo da garantire sopravvivenza e autosufficienza”.

Inizialmente, ha detto Tartir, il governo israeliano ha tratto profitto dall'occupazione: le tasse riscosse superavano le spese; Israele è stato invaso da lavoratori a basso salario; ha ottenuto un mercato vincolato per esportazioni di bassa qualità; poteva sfruttare, a prezzi inferiori a quelli di mercato, le risorse naturali dei Territori Palestinesi Occupati. Intifada riuscì a rendere l'occupazione molto più costosa per Israele — dopo i primi anni '90 non realizzò più profitti e divenne un'impresa costosa — ma la rivolta non ottenne una vera indipendenza per i palestinesi.


III. IL PROTOCOLLO DI PARIGI

Il 29 aprile 1994 i delegati dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina e del governo israeliano si incontrarono in Francia per firmare un documento chiamato "Protocollo sulle relazioni economiche", noto anche come "Protocollo di Parigi".

Questo incontro faceva parte degli accordi di Oslo, un processo di pace sostenuto a livello internazionale attraverso il quale i palestinesi ricevettero autonomia politica. Oslo segnò la fine di Intifada e l'inizio dell'Autorità palestinese e del suo processo di costruzione dello stato. Innescò l'era degli aiuti esteri per i palestinesi, poiché in precedenza i donatori erano riluttanti a finanziare Israele quando era una semplice potenza occupante. In particolare vennero insigniti del premio Nobel per la pace il presidente dell'Autorità palestinese, Yassir Arafat, e i primi ministri israeliani, Shimon Peres e Yizhak Rabin, per “gli sforzi volti a creare la pace in Medio Oriente”.

Perché il governo israeliano avrebbe dovuto rinunciare al controllo totale sui Territori Palestinesi Occupati, una posizione che aveva mantenuto nei precedenti 25 anni? La resistenza palestinese e la pressione internazionale e interna furono fattori primari, ovviamente, ma Tartir pensa che una delle ragioni principali fosse sgonfiare il malcontento pubblico attraverso un'autonomia politica fasulla con la creazione dell'Autorità palestinese, mentre manteneva il controllo economico dietro le quinte attraverso il Protocollo di Parigi.

Oggi il Protocollo di Parigi guida ancora la politica monetaria, fiscale, tributaria, agricola, assicurativa, industriale e del lavoro palestinese, nonché il turismo e il commercio con Israele. Avrebbe dovuto incrementare il commercio palestinese, consentire all'Autorità palestinese d'istituire un settore pubblico formale e generare entrate fiscali dai suoi cittadini e aumentare le opportunità di lavoro.

Ma secondo Tartir, il processo di Oslo ha solo alimentato una cultura consumistica e una maggiore dipendenza. “La libertà individuale e la sovranità economica”, ha detto, “sono state sacrificate da Arafat e dai suoi compari per il loro tornaconto personale”.

Il protocollo doveva essere temporaneo — destinato a durare solo cinque anni fino al 1999 — ma rimane ancora in vigore 28 anni dopo. Il documento decretava che i palestinesi non avrebbero avuto una banca centrale, né una propria valuta. Invece avrebbero ottenuto l'Autorità monetaria palestinese, nome fuorviante in realtà perché non ne aveva alcuna.

Israele avrebbe controllato la politica monetaria palestinese e il suo sistema bancario; il nuovo shekel israeliano avrebbe avuto corso legale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza; le banche avrebbero denominato depositi e prestiti in shekel. L'Autorità monetaria palestinese avrebbe avuto discrezionalità sui requisiti di riserva, ma poco altro. Qualsiasi modifica a questo sistema avrebbe richiesto un voto della Commissione economica congiunta, un'organizzazione che nel corso degli anni è caduta in letargo e sotto il controllo israeliano.

Firmando il Protocollo di Parigi, il governo israeliano ha cementato quanto segue:

• Controllo dell'ammontare dei dazi doganali, dell'IVA e delle tasse sull'mportazione riscosse sulle merci dirette in Cisgiordania o Gaza, e detrazione di una commissione di "elaborazione" del 3% per i pagamenti all'Autorità palestinese;

• La capacità di rendere le merci palestinesi artificialmente costose, impedendo loro di competere con quelle israeliane, costringendo i palestinesi a ricorrere spesso alle importazioni e permettendo a Israele di avere un mercato specializzato per esportare merci ad alto margine e di bassa qualità che non sarebbero state vendute altrove;

• Controllo sulla politica commerciale, dando a Israele il potere di veto su quali merci sarebbero entrate in Cisgiordania o Gaza, limitando tutto ciò che fosse considerato "doppio uso" e che potesse essere utilizzato dai militari, inclusi medicinali e carburante. Tutto questo applicato con l'aiuto del governo egiziano;

• La capacità di riscuotere imposte sul reddito e trasferimenti sociali dai palestinesi che lavorano in Israele o negli insediamenti, consentendo al governo israeliano di ritardare i pagamenti, riscuotere interessi sul capitale nel suo sistema bancario e persino usarlo per ripagare i propri debiti;

• Tasse sulla previdenza sociale, tasse sindacali e tasse sulla sicurezza imposte ai lavoratori palestinesi, senza ricevere alcun beneficio in cambio.

L'impatto delle riforme del Protocollo di Parigi può essere inquadrato in una statistica semplice ma scioccante: il settore manifatturiero palestinese è sceso dal 19% al 10% tra il 1994 e il 2011.

Tartir ha affermato che questa dipendenza dall'estero pone i palestinesi in una situazione difficile, perché è arduo ottenere fondi dall'estero. “Se voglio trasferire una qualsiasi somma di denaro da Ginevra a Ramallah”, ha detto Tartir, “devo passare attraverso una banca corrispondente israeliana”.

“Come esportatore o importatore palestinese non potete fare nulla da soli. Bisogna fare affidamento su una controparte israeliana per aiutarvi a portare a termine la transazione. Non potete avere il vostro spazio nei porti israeliani. Questo elemento di controparte forzata non solo aumenta il costo di ogni transazione, ma avvantaggia anche l'economia israeliana. Malgrado ciò, non abbiamo scelta”.

In media, tra il 1997 e il 2017, i pagamenti controllati da Israele e i flussi di aiuti esteri hanno costituito il 72% delle entrate totali dell'Autorità Palestinese.

Tartir sottolinea anche la mancanza di un settore fintech in Palestina. “A Ramallah non abbiamo PayPal, TransferWise, Venmo, Revolut. Se volete ricevere denaro dall'estero, dovete andare a ritirare fisicamente i contanti da Western Union”, ha detto Tartir.

Ha spiegato anche che Western Union era più flessibile e disponibile nei negozi di tutta la Cisgiordania, ma a causa delle misure antiterrorismo, questi pagamenti ora possono essere ricevuti solo attraverso una o due banche. Possono richiedere tempo — spesso giorni o addirittura settimane se vengono segnalati come sospetti dall'Autorità monetaria palestinese — e sono estremamente costosi: una rimessa di $500 potrebbe costare $30 o $40.

Ma questa è l'opzione migliore se si vuole inviare denaro dall'Europa alla Cisgiordania oggi. Un bonifico bancario è un processo molto più difficile e, in ogni caso, inviare qualsiasi ammontare oltre i $10.000 è “praticamente impossibile”.

Una relazione delle Nazioni Unite del 2019 ha stimato che il costo fiscale dell'occupazione per i palestinesi dal 2000 al 2017 è stato di $47,7 miliardi, ovvero tre volte il PIL del 2017 dei Territori Paslestinesi Occupati. La relazione ha concluso che il 3,7% del PIL palestinese finisce ogni anno nel tesoro israeliano come risultato dei meccanismi istituiti dal Protocollo di Parigi.

Quello che è stato presentato come un passo verso l'indipendenza palestinese era in realtà un insieme di regole e politiche che hanno aumentato la dipendenza palestinese dagli aiuti esteri e dall'economia israeliana. Israele ha affidato all'Autorità palestinese la responsabilità di milioni di palestinesi, ma non ha rinunciato al controllo della politica monetaria, delle banche, delle risorse naturali, dei trasporti e dei confini.

Di conseguenza anche se gli anni '90 sono stati anni di boom per Israele, l'economia palestinese si è contratta. Nonostante le speranze dell'accordo di pace di Oslo, il tenore di vita palestinese è diminuito nei decenni successivi, secondo alcune stime, calando fino al 40% nel 2008.

Nel settembre 2000, innescata dalla visita di Ariel Sharon alla moschea di Al-Aqsa e dalla crisi dell'acqua potabile a Gaza, è iniziata una seconda Intifada. La reazione israeliana è stata dura e alla fine devastante per l'economia palestinese.

Secondo la Banca Mondiale, tra il 2000 e il 2003 Israele ha limitato del 53% il numero di palestinesi della Cisgiordania autorizzati a lavorare in Israele e gli abitanti di Gaza all'86%. Di conseguenza il PIL pro capite palestinese è sceso del 40%, superando il calo durante il crollo finanziario del 2001 in Argentina e la Grande Depressione degli Stati Uniti negli anni '30.


IV. IL PROBLEMA DELLA DIPENDENZA

Nel complesso le restrizioni del Protocollo di Parigi hanno portato a un disavanzo cronico della bilancia dei pagamenti palestinese. In genere quando una nazione si trova in una situazione del genere ha alcune opzioni: in primo luogo, può stampare più denaro, svalutando la valuta, ma la Palestina non ha discrezionalità monetaria, nessuna banca centrale, nessun modo per monetizzare il debito e nessun modo per stampare denaro; una seconda opzione è prelevare riserve, ma data la sua mancanza d'indipendenza monetaria, ha poche riserve: in terzo luogo, prendere in prestito attraverso il finanziamento del debito, ma poiché la Palestina non è una nazione, pochi vogliono il suo debito; la quarta opzione è l'aiuto estero.

La Palestina è diventata dipendente dagli aiuti esteri. Se non arrivano, il governo spesso non riesce a finanziare il bilancio pubblico. Dal 1993 più di $40 miliardi sono stati spesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza da donatori internazionali, rendendo i palestinesi uno dei maggiori beneficiari pro capite di aiuti al mondo.

Secondo Tartir: “I palestinesi sono stati costretti a vivere in un paradosso aiuti-sviluppo: grandi quantità di aiuti associati a un calo degli indicatori socioeconomici e di sviluppo umano. In casi come Gaza, quei cali sono stati distopici”.

Nonostante tutti gli aiuti, la disoccupazione, la povertà e il debito sono aumentati; il reddito pro capite è in calo; la base economica si è deteriorata; il costo della vita e l'insicurezza alimentare sono in aumento; l'investimento estero promesso non si è concretizzato.

Un'analisi del 2010 di Nikki Tillekens ha mostrato che il 71% degli aiuti ai palestinesi è finito nell'economia israeliana.

“Degli oltre $12 miliardi di aiuti esteri dati ai palestinesi tra il 2000 e il 2008”, ha scritto Tartir, “$8,7 miliardi sono finiti nell'economia israeliana”.

I donatori internazionali, ha detto Tartir, che lo sappiano o no, stanno contribuendo a preservare questo status quo.

Ogni anno Washington fornisce a Israele $3,8 miliardi in aiuti e rimane di gran lunga il principale mercato di Israele per le esportazioni e la fonte delle importazioni. Ciò crea una situazione bizzarra in cui, anche se i palestinesi dipendono fortemente dagli aiuti, gli israeliani ne ricevono molto di più a livello pro capite. Prima del 1999 gli aiuti esteri statunitensi coprivano l'intero costo dell'occupazione.

Oggi gli Stati Uniti sovvenzionano ancora l'occupazione, in un accordo che Shir Hever ha definito una "impresa redditizia" in cui Israele riceve pagamenti in dollari, ma costruisce muri e paga le truppe in shekel. Di conseguenza aumentano le riserve in valuta estera della banca centrale israeliana, le quali possono essere utilizzate per pagare i deficit commerciali o per rafforzare lo shekel, che si è apprezzato rispetto al dollaro del 25% negli ultimi 20 anni. Hever ha sostenuto che il governo israeliano fa di tutto per proteggere questo meccanismo, teorizzando persino che una delle motivazioni principali dietro il suo attacco a Gaza nel 2008 fosse fermare un flusso di shekel che si stava riversando in Egitto attraverso tunnel sotterranei, prosciugando di fatto le riserve israeliane.

Il governo degli Stati Uniti sostiene anche la dittatura militare egiziana, il re giordano e la tirannia saudita, tutti d'accordo con Israele per opporsi alle minacce dell'Iran e dei suoi alleati nella regione. Anche con il loro arsenale nucleare, gli israeliani sono guardinghi riguardo la minaccia iraniana di annientamento, poiché non è vuota; soprattutto se si considera la storia di Israele, la cui indipendenza è attaccata da tutte le parti. Sarebbe ingenuo per i palestinesi aspettarsi che il sostegno esterno a Israele possa finire tanto presto.

I sostenitori dello status quo insistono sul fatto che è solo una questione di tempo e che con continui miglioramenti negli standard di vita dei palestinesi, un giorno arriverà la pace. Questa idea risale agli anni '70 e all'amministrazione Carter, che pensava che palestinesi "felici", “che avevano un impiego stabile e una struttura amministrativa funzionante, sarebbero stati disposti a negoziare un accordo mentre erano sotto occupazione”. Il risultato di questa filosofia è stato quello di separare l'aiuto economico dalla sovranità.

Molti funzionari e donatori israeliani, americani ed europei sono in disaccordo e affermano che stanno facendo del loro meglio per aiutare a sostenere una popolazione palestinese vulnerabile sotto il controllo di leader corrotti e violenti, i quali rappresentano una minaccia per la stabilità regionale.

Tartir incolpa anche l'Autorità palestinese per aver preservato lo status quo. Essa, dice Tartir, sta reprimendo i manifestanti perché non vuole che nessuno interrompa l'accordo che ha, dato che la sua cerchia ristretta trae vantaggio dalla cooperazione con il governo israeliano nella gestione di uno stato corrotto.


V. L'EREDITÀ DI CORRUZIONE DI YASSER ARAFAT

Fadi Elsalameen è un sostenitore della democrazia palestinese. Mentre parlavamo al telefono, mi ha detto che i palestinesi stavano protestando in gran numero contro il presidente Mahmood Abbas, il quale ha governato la Cisgiordania per 16 anni. Elsalameen lo ha definito "estremamente corrotto".

La cleptocrazia di Yasser Arafat era leggendaria: si stimava che valesse miliardi, molti dei quali prelevati dai flussi di reddito dei lavoratori palestinesi in Israele e dirottati sui suoi conti bancari o su conti francesi appartenenti a sua moglie.

Elsalameen ha detto che Abbas ha seguito le orme di Arafat: Abbas e la sua famiglia hanno usato il loro potere politico per costruire un impero industriale con assicurazioni, telecomunicazioni, costruzioni e tabacco. Secondo i documenti trapelati dai Panama Papers, Abbas e i suoi due figli “hanno usato il potere e la loro influenza per controllare i due principali consigli economici palestinesi (Arab Palestine Investment Company, Palestine Investment Fund) e hanno costruito un impero economico in Cisgiordania del valore di oltre $300 milioni”.

Il figlio di Abbas, Yasser, possiede la Falcon Tobacco, la quale a sua volta detiene il monopolio sulla vendita di sigarette prodotte negli Stati Uniti in Cisgiordania. Secondo Elsalameen, Abbas ha aumentato talmente tanto le tasse sui produttori di tabacco della Cisgiordania, affinché la propria attività d'importazione ne beneficiasse, che sono crollati. I critici hanno accusato Abbas di aver rubato centinaia di milioni di dollari di denaro pubblico palestinese per tornaconto personale; un sondaggio del 2016 ha mostrato che il 95,5% dei palestinesi lo considerava corrotto. Ciononostante continua a governare per decreto.

“Odio Hamas più di Abbas”, ha detto Elsalameen, “ma dobbiamo focalizzarci sul capo dello schema piramidale qui in Cisgiordania”.

Elsalameen mi ha detto che la dipendenza dagli aiuti esteri ha reso l'Autorità palestinese meno responsabile nei confronti del popolo e ha anche creato una speciale classe d'élite, separata dal resto della società. Le entrate pubbliche, ha affermato, sostengono questo sistema da decenni. Nel 2015, secondo Al Jazeera: “Solo il 16% del budget annuale dell'ANP è stato speso per l'istruzione, il 9% per la sanità e l'1% per l'agricoltura”; il 26% è stato speso per il settore della sicurezza, che, ha affermato Elsalameen, spesso prende di mira i palestinesi.

Recenti proteste riguardano un caso in cui Abbas ha fatto uccidere l'attivista Nizar Banat, uno dei suoi più feroci critici.

“I suoi teppisti”, ha detto Elsalameen, “sono andati di notte e hanno rapito Banat da casa sua e lo hanno picchiato a morte. Abbas ha dato loro una completa immunità. Così la famiglia della vittima ha detto: «Protesteremo finché non se ne andrà». E poi tutti gli altri si sono uniti a loro per le strade”.

Migliaia di persone hanno marciato per la Cisgiordania e hanno chiesto un "rovesciamento del regime", ha detto Elsalameen, in scene che hanno ricordato ad alcuni la primavera araba di un decennio fa; malgrado ciò Abbas rimane ancora lì. Elsalameen ha affermato che Abbas rimane al potere poiché dice agli israeliani, agli americani e alla Banca mondiale: se non ci sono io al potere, allora ci andrà Hamas.

“È così che Abbas li convince a proteggerlo, è un loro cliente”.

Elsalameen ha puntato il dito contro le proteste fallite e ha affermato che la politica si sta dimostrando di utilità limitata per la lotta palestinese: “Questo è il limite delle urne politiche”.

Quando gli è stato chiesto di Bitcoin, ha detto: “Sì, possiamo iniziare a reagire pacificamente con Bitcoin. È qualcosa che qualsiasi giovane palestinese può fare. Rinuncire alla stabilità dei prezzi, forse, ma in cambio si ottiene la libertà”.

Una sfida, ha detto, ma “dobbiamo diffonderlo tra la gente”. È un concetto nuovo e strano, ma una volta che le persone lo capiranno, non ha dubbi che lo useranno. “È un aggiornamento rispetto a oggi, laddove le persone tengono i contanti sotto un materasso o dove aspettano un mese per ricevere un pagamento dalla loro famiglia all'estero”.

Secondo lui, Bitcoin potrebbe anche combattere la corruzione.

"Oggi se corrompete le autorità di pagamento, lasceranno passare il vostro bonifico più velocemente. Traggono profitto da questo sistema burocratico e Bitcoin potrebbe porvi fine”.

Ha notato che nelle giovani generazioni molti palestinesi stanno già acquistando bitcoin e non l'indice S&P 500.

Elsalameen pensa che il fatto che sia gli israeliani che l'Autorità palestinese stiano criticando Bitcoin è qualcosa di cui rallegrarsi: “È così che sai che aiuterà il palestinese medio”.


VI. DAL SISTEMA BANCARIO A BITCOIN A RAMALLAH

Con una paga giornaliera media di 264 shekel in Israele, rispetto ai 123 shekel in Cisgiordania, chi potrebbe biasimare i palestinesi per aver cercato un reddito più alto altrove, anche se così facendo avrebbero approfondito la propria dipendenza?

Data questa realtà, ho chiesto ad Alaa Tartir come sarebbe stata un'economia palestinese decoloniale.

“È un progetto futuro, niente di così vicino”.

A lungo nel dibattito palestinese è andata avanti un'idea di una "economia di resistenza" che avrebbe permesso alla popolazione di resistere e ottenere la sovranità. Dopo la seconda Intifada, l'autore arabo-israeliano Azmi Bishara: “Ha lamentato la mancanza di una banca, compagnia di assicurazioni o tipografia palestinese, e ha invitato gli investitori palestinesi a cominciare a pensare a iniziative economiche locali con proprie strutture, mercato e lavoro”.

Ma, ha detto Tartir, hanno sempre fatto affidamento sullo shekel e sulle rotaie finanziarie israeliane, ed “è sempre mancato lo strumento per far sì che ciò accadesse”.

Un ex-banchiere palestinese di nome Abuwedad pensa che Bitcoin possa essere quello strumento. Non ha voluto rivelare il suo vero nome per la nostra intervista, ma mi ha parlato da casa sua a Ramallah, dove ha lasciato il lavoro dopo sette anni nel settore. Quando si è dimesso, era vicedirettore finanziario di un'importante banca della Cisgiordania e della Giordania. Se n'è andato perché ormai disgustato dal suo ruolo personale nel diffondere quella che considera una malattia finanziaria che danneggia i palestinesi: troppi prestiti.

“L'intero sistema”, ha detto, “negli ultimi 15 anni si è basato sul far prendere in prestito alle persone molto più di quello che potessero permettersi”.

Ancora peggio, i prestiti non vengono utilizzati per avviare imprese o costruire infrastrutture, ma vengono spesi per matrimoni, automobili o appartamenti in centro città. Secondo la ricercatrice politica Yara Harari: “Negli ultimi 10 anni i prestiti per comprare auto sono aumentati di sei volte, passando dai $40 milioni nel 2008 a $250 milioni. Pertanto Ramallah [...] potrebbe essere facilmente scambiata per una città prospera con quartieri borghesi pieni di lussuose ville e scintillanti BMW. Ma questa è solo una facciata”.

Abuwedad ha detto che con i soldi facili — e senza Robinhood, nessun E-Trade e nessun accesso ai migliori mercati azionari del mondo — le persone si sono ammassate nel settore immobiliare. Tra il 1994 e il 2016 l'80% della formazione del capitale palestinese è stato costituito da edifici. Ciò ha reso i costi "surreali". Potrebbero volerci $100.000 per un piccolo appartamento, ha detto, o $1.000.000 per 1.000 metri quadrati di terreno, il tutto in un posto dove il PIL pro capite è di circa $3.500.

Ha detto che le banche sono colpevoli di aiutare i palestinesi ad aumentare la loro dipendenza da Israele e diminuire la loro sovranità. Ciò è il risultato delle riforme introdotte nel 2007 dall'allora primo ministro palestinese, Salam Fayyad, che secondo Abuwedad “hanno dato la priorità al consumismo rispetto all'indipendenza”.

Le leggi “richiedevano alle banche operanti in Palestina di estendere il 40% del loro credito a livello locale [...] le linee di credito sono salite alle stelle da $1,3 miliardi nel 2008 a $7,1 miliardi nel 2018, un aumento del 450%”, secondo Political Economy Of Palestine, una nuova raccolta di saggi a cura di Alaa Tartir e altri.

“Prendiamo in considerazione un membro delle forze di sicurezza palestinesi che guadagna $600 al mese”, ha detto Abuwedad. “Ora può prendere un prestito mensile 5 volte o anche 10 volte il suo stipendio, e con il 10% in meno in contanti acquistare un elegante appartamento di 120 metri quadrati a Ramallah”.

Le banche sono felici, ovviamente, perché possono guadagnare $200.000 in 25 anni ogni $100.000 che distribuiscono; le persone invece sono più indebitate, spesso per tutta la vita. Questa è la realtà ora, ha detto Abuwedad, per enormi segmenti della società palestinese che ha preso in prestito per finanziare non solo appartamenti ma tutti i tipi di beni personali.

Pochissimi prestiti, ha scritto, finiscono nell'industria, nell'agricoltura o nell'imprenditoria. Nel 2008 solo il 7% del credito è stato utilizzato per l'agricoltura e la produzione, contro il 33% per “automobili, carte di credito e beni di consumo” secondo Political Economy Of Palestine.

“Sono le stesse linee di politica che molti decenni fa ci hanno costretto ad abbandonare la creazione di una base industriale e ci hanno reso dipendenti da poteri esterni”, ha detto Abuwedad, “solo presentati con abiti diversi come la "costruzione dello stato" e il "potenziamento economico".”

Oggi tutti i palestinesi attendono ancora con impazienza la libertà, ha detto, ma il sistema “rende molto più difficile concentrarsi su tale obiettivo e li distrae con preoccupazioni finanziarie presenti”. Le persone “vivono stipendio dopo stipendio per rimborsare i prestiti e arricchire i banchieri invece di risparmiare e investire per il loro futuro”.

Dopo aver lasciato il lavoro in banca, Abuwedad ha lavorato per alcuni anni in un'azienda tecnologica a Ramallah, poi ha cercato di avviare un'attività con gli amici nel settore dei giochi online. Crede che i palestinesi possano essere competitivi negli eSport, anche se oggi non lo sono, e che il gioco possa aiutare con la cooperazione, il team building, il potenziamento della dignità personale e il collegamento con le persone all'estero. Tuttavia ci sono così tanti ostacoli: la connessione a Internet non è abbastanza buona (nonostante sia velocissimo a pochi chilometri di distanza in Israele) e i computer sono costosi.

Abuwedad dice che un laptop che potrebbe costare $1.500 negli Stati Uniti, o in Israele, in Palestina costa fino a $3.500. A prima vista si potrebbe presumere che, poiché israeliani e palestinesi usano la stessa valuta, l'inflazione dello shekel li danneggia allo stesso modo. Abuwedad mi ha spiegato perché le cose non stanno così.

“Quando le importazioni palestinesi arrivano in Israele vengono tassate, poi costa doverle immagazzinare perché bisogna aspettare affinché vengano spedite in Cisgiordania, senza contare gli orari dei camion molto limitati. Lungo la strada l'inventario viene spesso rubato, quindi i venditori locali contrassegnano le merci per coprire le proprie tasse e profitti. Quando il laptop verrà venduto a Ramallah, potrebbe essere da due a tre volte più costoso che a Tel Aviv, anche se tutti usano la stessa valuta”.

Un altro intervistato ha affermato che i commercianti palestinesi impiegano in media 38 giorni per importare e vendere merci, mentre le loro controparti israeliane lo fanno in 10 giorni. Ciò ha portato a un costo medio per transazione tre volte superiore a Ramallah rispetto a Tel Aviv. Questa inflazione aggressiva, ha affermato Abuwedad, vale anche per molti altri prodotti di consumo.

“Se potessimo importare direttamente, allora sarebbe molto più economico”. Ha incolpato il Protocollo di Parigi, che ha definito "obsoleto" e non aggiornato da quasi 30 anni, nonostante il mondo sia cambiato radicalmente nel frattempo.

L'inflazione israeliana e palestinese sono andate a braccetto per tutti gli anni '80, quando il crollo dello shekel decimò il potere d'acquisto palestinese, e per tutti gli anni '90, ma si sono divise dopo la seconda Intifada nell'ottobre 2000. Israele ha sperimentato una deflazione dei prezzi, mentre i palestinesi hanno sperimentato la stagflazione. Shir Hever osserva che nel 2008 “lo stesso prodotto era il 32% più costoso in una città palestinese che in una città israeliana”.

I piani di Abuwedad per uscire da questa trappola avviando una società sono stati sabotati dalla crisi sanitaria, la quale ha colpito la Cisgiordania in modo particolarmente duro, deprimendo l'attività economica. Da allora ha guardato con interesse a Bitcoin. Mi ha detto che c'è un'intera comunità in Cisgiordania e a Gaza e io gli ho risposto che l'adozione mondiale di Bitcoin oggi è all'incirca allo stesso livello di Internet nel 1997: circa 200 milioni di persone, ovvero il 2% della popolazione. Secondo lui questa è la percentuale di palestinesi che usa Bitcoin e ha detto che crescerà rapidamente nei prossimi anni.

Ma come fanno i palestinesi a comprare bitcoin? “Troviamo sempre dei buchi”, ha detto Abuwedad.

Mi ha parlato di una scappatoia: l'Autorità monetaria palestinese blocca le transazioni dai conti bancari locali che cercano di acquistare criptovalute sugli exchange, ma c'è un'eccezione, ovvero la stablecoin Tether (USDT). Poiché Tether è legata al dollaro, la lasciano in pace e quindi gli acquisti su piattaforme come Binance sono permessi. Abuwedad ha detto che quasi tutti quelli che conosce passano prima da Tether e poi acquistano bitcoin come strumento di risparmio. Ha detto che alcune persone aggirano completamente il sistema bancario e usano i gruppi su Telegram o Facebook per coordinarsi ed acquistare Tether o bitcoin in modo peer-to-peer.

Abuwedad sa, però, che il Tether non è una soluzione ideale. Abbiamo discusso dell'idea che nel prossimo futuro i palestinesi potrebbero avere portafogli Lightning Network "ancorati" a una valuta fiat, come il dollaro ad esempio, e potrebbero usare questi invece di dover fare affidamento su Tether. Non conosce bene Lightning Network, ma durante la nostra chiamata su WhatsApp gli ho mostrato come scaricare un wallet Muun e gli ho inviato $5 tramite Lightning.

“È stato davvero veloce”, mi ha detto, impressionato dal trasferimento istantaneo da Boston, dove alloggiavo, a Ramallah. Gli ho detto che non c'erano nemmeno commissioni e questo lo ha eccitato ancora di più. Ci siamo presi un momento per riflettere sul fatto che è arduo per i palestinesi spostare denaro da un posto all'altro, e abbiamo discusso di come Bitcoin sia rivoluzionario: da migliaia di chilometri di distanza gli ho inviato denaro e non abbiamo dovuto rendere conto a polizia doganale, ritardi, confische, o tasse. Il governo israeliano non ha avuto alcuna fetta e nemmeno l'Autorità palestinese.

Secondo Abuwedad wallet Lightning Network stabili potrebbero essere fondamentali per i palestinesi: un conto bancario in cui non si ha bisogno di alcun documento d'identità, dove il legittimo proprietario controlla i propri fondi, dove si possono effettuare transazioni istantanee e ovunque nel mondo praticamente senza commissioni e dove si può scegliere di ancorare il valore al dollaro o mantenere i propri risparmi in bitcoin. “Questo è un sogno che diventa realtà”, mi ha detto.

Abuwedad considera Bitcoin una protesta pacifica contro un sistema finanziario corrotto, sfruttatore e centralizzato: uno che l'ha visto dall'interno durante la sua carriera di banchiere. L'ostacolo, secondo Abuwedad, è che solo un piccolo numero di palestinesi utilizza Bitcoin oggi.

“La maggior parte delle persone lo vede come un investimento e non come una valuta”. Ci vorrà del tempo affinché diventi un movimento di massa e l'istruzione in tal senso, mi ha detto, è molto importante. “Le persone hanno molte domande, ma nel tempo impareranno e lo useranno”.

Ultimamente ha visto relazione sull'Autorità palestinese che lancerà la propria valuta digitale, ma non pensa che la gente si fiderà di essa; semmai potrebbe incoraggiare più persone a usare Bitcoin.

“Se vogliamo fare di Bitcoin il nostro modo per dire no al mondo, per vivere liberi dagli accordi di Oslo e Parigi, allora dobbiamo iniziare a usarlo nella vita quotidiana. E ci vorrà del tempo”. “Sappiamo tutti”, mi ha detto, “che la comunità internazionale non ci darà la libertà, quindi dobbiamo prendercela da soli”.

Mi ha detto anche che ha scelto il nome Abuwedad poiché Wedad è il nome con cui definirebbe sua figlia, se ne avrà una. E forse, chissà, crescerà in un mondo Bitcoin.


VII. LA NUOVA ECONOMIA DELLA RESISTENZA

Kefah Abukhdeir è un palestinese-americano di terza generazione. È cresciuta ad Atlanta, ma si è stabilita con il marito a Gerusalemme est e lavora come educatrice.

La famiglia di Abukhdeir lasciò Gerusalemme quando era sotto il dominio ottomano, ma mantenne i legami con la patria. Suo padre tornò in Palestina e divenne un aperto dissidente contro la presenza dei giordani in Cisgiordania negli anni '60. Alla fine partì definitivamente per gli Stati Uniti, dove andò alla Georgia Tech e mise su famiglia nel sud degli Stati Uniti. Come la sua famiglia prima di lei, Abukhdeir è tornata in Cisgiordania alla Birzeit University alla fine degli anni '90 per imparare l'arabo. Ha conseguito la laurea e alla fine si è trasferita a Gerusalemme est.

“Se vuoi spezzare il cuore di una madre palestinese”, mi ha detto, “dille che suo figlio studierà economia o agricoltura”. Per raggiungere l'effettiva indipendenza, questi due campi sono fondamentali, ma si viene scoraggiati o addirittura vengono evitati: è il risultato del progresso economico indigeno visto come una "perdita di tempo".

Abukhdeir ha trascorso l'ultimo decennio lavorando nel campo dell'istruzione con i giovani palestinesi, con i programmi del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e attraverso Edureach, un'organizzazione che fornisce formazione per insegnanti e programmi extrascolastici per bambini. In questo contesto ha affrontato un dilemma: per essere più competitivi, gli studenti devono imparare l'inglese e andare a scuola in Israele. Sa che questo continua a prolungare la situazione in cui i palestinesi rimangono dipendenti dal mondo che li circonda, e che ciò dà impulso all'economia in Israele, ma vuole il miglior futuro per i bambini e uno in cui possano essere il più occupabili possibile. “Restiamo svegli tutta la notte a discutere di questo”, mi ha detto.

“Ho iniziato a sentirmi in colpa perché mi sentivo come se stessi facilitando la fuga dei cervelli. Se i ragazzi avranno successo, andranno al college in Israele o negli Stati Uniti e non vorranno tornare”. Diventano quindi troppo qualificati per lavorare in Palestina e, nel migliore dei casi, potrebbero finire a lavorare per una ONG o un ente straniero, come lei. “Non facciamo parte dell'economia locale. Non aiutiamo a reinvestire”.

La sua esperienza riassume il dilemma che molti palestinesi affrontano sin dal 1967: restare a casa o andare a lavorare in Israele per salari più alti e fare di più per la famiglia. Ma è un compromesso, alimentando l'attività economica e lo sviluppo altrove piuttosto che in patria.

“L'indipendenza è finanziaria”, mi ha detto Abukhdeir, “Se non abbiamo la libertà finanziaria, non cambierà nulla”.

Abukhdeir ha sottolineato che l'uso della valuta in Palestina è variato nel tempo. La gente usa ancora il dinaro giordano, così come i dollari, ma ultimamente lo shekel è diventato ancora più popolare, anche a Gaza.

“L'80% delle transazioni giornaliere sono in shekel, ciò significa che quasi ogni transazione effettuata da un palestinese sostiene e approfondisce la dipendenza da Israele”.

Cresciuta ad Atlanta, ha affermato di aver imparato molto sul movimento americano per i diritti civili e di aver studiato movimenti simili in Sud Africa e Irlanda.

“Una delle prime cose che bisognerebbe fare è creare un'economia indipendente, ma non ce l'abbiamo. Abbiamo solo confische e tasse che pagano benefici che non riceviamo nemmeno”.

Di recente Abukhdeir ha iniziato a trascorrere del tempo negli hub tecnologici di Ramallah e Gerusalemme. Lì, mi ha detto, è stata introdotta al "colonialismo tecnologico": gli israeliani reclutano le menti migliori e più brillanti, mentre invece non ci sono compagnie palestinesi che possono fare lo stesso.

“La tecnologia è importante perché abbiamo bisogno di un piano che non richieda risorse grezze. Non possiamo possedere terreni, non possiamo produrre, quindi cosa possiamo fare?”

Per un cambiamento, Abukhdeir sta guardando a Bitcoin. Fa parte di un movimento che cercherà di mappare l'ecosistema imprenditoriale palestinese, sia le imprese di proprietà palestinese in Israele sia le imprese a Gerusalemme est e in Cisgiordania, e incoraggerà nuove pratiche.

L'idea è che, se sei un'azienda di proprietà palestinese, puoi offrirti di accettare bitcoin per i pagamenti. Secondo lei, susciterebbe curiosità, lancerebbe un'economia circolare, incoraggerebbe più persone a conoscere Bitcoin e insegnerebbe loro di più su come funziona il denaro.

“Questo”, mi ha detto, “è come potremmo porre fine alla nostra dipendenza dallo shekel”.

Oggi Abukhdeir ha insegnanti che lavorano per lei a Gaza, dice che pagarli è estremamente complicato. “Non posso usare PayPal, anche se ho la doppia cittadinanza israelo-americana. Anche con il mio privilegio finanziario, è difficile da fare”.

Descrive come potrebbe prelevare denaro dal suo conto israeliano tramite un bancomat, depositarlo in un conto bancario palestinese (che potrebbe aprire solo con il suo passaporto americano) e poi fare un bonifico sul conto dell'insegnante. Tutto questo richiede tempo ed è costoso, ma con Bitcoin, mi ha detto, può inviare valore all'istante all'insegnante a Gaza.

“Con Bitcoin si può costruire un'azienda totalmente indipendente, dove non bisogna usare una banca dell'Autorità palestinese e dove non bisogna fare affidamento sullo shekel e sull'economia israeliana”.

Abukhdeir pensa che il cambiamento alla fine arriverà solo attraverso “la violenza o l'attività economica” e pensa che quest'ultima sia l'unico modo per avere successo. “Non possiamo accontentarci di una soluzione a metà”, sottolineando come il processo di Oslo sia fallito.

“Dobbiamo scappare, se non rinunciamo alla valuta fiat, finiremo per rafforzare l'attuale sistema”.


VIII. LA COMUNITÀ BITCOIN ISRAELIANA

È chiaro che alcuni nella comunità palestinese vedono Bitcoin come una via da seguire, ma per quanto riguarda le loro controparti israeliane? Ho parlato con diversi bitcoiner israeliani, sempre con la condizione di anonimato.

Alcuni sono preoccupati per l'ambiente politico in Israele in questo momento. Essi dicono che “non è poi così male”, ma un imprenditore mi ha detto che è rischioso fare qualcosa che potrebbe essere descritto come "di sinistra" (come aiutare i palestinesi attraverso Bitcoin) e che sta diventando sempre più difficile dire la propria.

“Il sentimento sta peggiorando di giorno in giorno, mi ricorda i brutti giorni della storia del mondo”. Ha continuato: “È difficile pensare a un futuro luminoso qui, è un enorme dilemma se rimanere nel Paese”.

Ma mentre mi ha detto che entrare in contatto con i palestinesi sull'uso di Bitcoin non è mai stato finora un argomento o una priorità ai meetup di Tel Aviv, pensa che potrebbe avere successo.

Mi ha detto che Bitcoin continua a costruire ponti, non muri. E quando si è fermato a pensare a come gli israeliani potrebbero estendere la libertà ai palestinesi, Bitcoin potrebbe essere quel modo.

“Non è una finta libertà, come il tipo che abbiamo cercato di dare prima”.

“Sono qui per la convivenza”, mi ha detto l'imprenditore, “voglio una soluzione, voglio un Paese con Bitcoin come valuta, con le stesse regole per tutti. Il modo in cui Bitcoin può aiutare a creare questa atmosfera di convivenza è molto importante. Non si tratta di creare due stati: si tratta di ridurre il potere dello stato”.


IX. IL PUNTO DI VISTA SU BITCOIN DI UN COLONO ISRAELIANO

Molti bitcoiner israeliani sono progressisti e persino favorevoli all'idea di aiutare i palestinesi con denaro open source. Ma che dire dei sionisti nazionalisti? O anche i coloni? Sorprendentemente almeno uno di loro sta cercando di promuovere Bitcoin in Palestina.

Jonathan Caras è un imprenditore americano e sostenitore di Bitcoin che vive in Cisgiordania da 10 anni.

“Posso vedere Ramallah dalla mia finestra”, mi ha detto mentre parlavamo in video chat.

Oggi circa 14 milioni di individui, circa metà ebrei e metà palestinesi, vivono tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano sotto il controllo economico del governo israeliano.

Da un lato nello stato d'Israele ci sono nove milioni di cittadini che vivono in una società democratica, anche se in via di erosione; dall'altro c'è un'occupazione militare di quasi cinque milioni di palestinesi, la quale sta entrando nel suo 54esimo anno. Una barriera di 700 chilometri, che in molti punti è letteralmente un muro di cemento, è in costruzione da due decenni e li separa. Caras e centinaia di migliaia di altri coloni israeliani vivono a est di questa barriera.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti civili B'Tselem: “Più di 2,6 milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania, in dozzine di enclavi disconnesse, sotto un rigido governo militare e senza diritti politici. In circa il 40% del territorio, Israele ha trasferito alcuni poteri civili all'Autorità palestinese. Malgrado ciò quest'ultima è ancora subordinata a Israele e può esercitare i suoi poteri limitati solo con il consenso di quest'ultimo”.

Il 61% del territorio della Cisgiordania è classificato come Area C, composta da vasti spazi aperti e terreni agricoli, ed è controllato direttamente dall'esercito israeliano. Un accordo del 1995 decretava che l'Area C, ricca di risorse, sarebbe stata “gradualmente trasferita alla giurisdizione palestinese” entro il 1997, ma ciò non è avvenuto. Invece ai palestinesi è stato impedito di raccogliere o investire in questa terra, e coloni e compagnie israeliane hanno colonizzato sempre di più l'area.

Israele utilizza molte risorse nell'Area C, compresa l'energia solare per più di 10.000 case israeliane, fonti d'acqua e terreni agricoli. Allo stesso tempo, confisca le proprietà palestinesi. Negli ultimi 20 anni le forze israeliane hanno, ad esempio, sradicato più di un milione di alberi palestinesi. Israele e la Giordania guadagnano $4,2 miliardi all'anno vendendo minerali come potassa e bromo dalle regioni dell'Area C intorno al Mar Morto. Una relazione della Banca mondiale afferma che i palestinesi potrebbero aumentare il loro PIL di quasi il 10% se gli fosse permesso d'investire anche in questa operazione. Suddetta relazione conclude che i palestinesi potrebbero aumentare il loro PIL del 35% se fossero autorizzati a sfruttare l'Area C per l'agricoltura, l'estrazione mineraria, l'edilizia, il turismo e le telecomunicazioni.

L'esercito israeliano ha chiuso la maggior parte della Cisgiordania all'accesso dei civili palestinesi e ha installato posti di blocco e barriere per soffocare i movimenti umani nelle rimanenti aree A e B. Una serie vertiginosa di restrizioni — imposte in nome dell'antiterrorismo — limita la capacità dei palestinesi di trasferirsi, costruire, andare all'estero, sposarsi, acquistare proprietà, lavorare e votare per partecipare al sistema che li governa. La tecnologia utilizzata per applicare questo sistema è venduta da aziende israeliane come Candiru, Cellebrite e NSO Group ai governi di tutto il mondo. Commercializzati, provati e testati in Cisgiordania e a Gaza, questi prodotti di sorveglianza sono molto ricercati e tenuti in alta considerazione a livello mondiale.

Centinaia di migliaia di coloni ebrei ora vivono stabilmente negli insediamenti della Cisgiordania a est della Linea Verde, il confine stabilito come separazione tra Israele e Palestina dopo la guerra del 1948. Questi coloni sono incentivati finanziariamente e sovvenzionati a trasferirsi lì dalle politiche israeliane, comprese le tasse e i benefici abitativi. In totale ci sono più di 280 insediamenti israeliani e una varietà di zone industriali in Cisgiordania, con più di 60 avamposti creati negli ultimi 10 anni, tutti in violazione del diritto internazionale. Le mappe di questo cambiamento sono a dir poco sorprendenti.

Quando iniziò il processo di Oslo nel 1993, c'erano poco più di 100.000 coloni israeliani in Cisgiordania, senza contare Gerusalemme est; oggi sono più di 475.000.

Caras è uno di loro. Mi ha detto di essere un “colono sionista religioso”; il suo obiettivo è “ripristinare il regno di Davide e costruire il tempio di Salomone”. Vent'anni fa è venuto per la prima volta in Israele e si è reso conto che “il modo migliore per adempiere al mio obbligo biblico era stabilirmi su una collina deserta in Cisgiordania”.

Negli ultimi anni Caras ha tenuto una serie di conferenze su “come la tecnologia possa promuovere l'interazione mista e la coesistenza”. Ha affermato che Bitcoin consente agli esseri umani di attraversare confini che prima erano impraticabili: legali, finanziari e ideologici.

“Ci permette di unirci”, mi ha detto. Fa parte della Camera di commercio della Giudea e della Samaria e interagisce frequentemente con i palestinesi come parte del suo ruolo.

Mi ha detto che se lui fa affari con un palestinese, ciò potrebbe mettere in pericolo la loro vita: “Se voglio avviare un'attività con il mio vicino, i suoi figli potrebbero essere uccisi. Quindi Bitcoin ci permette di lavorare insieme e tenerli al sicuro”.

Mi ha detto che ha visto automobili esplose in aria come messaggio di avvertimento quando qualcuno ha fatto affari con gli israeliani.

Caras sostiene che i palestinesi abbiano tratto beneficio dallo shekel forte rispetto a libanesi, siriani, egiziani e altri nella regione che invece hanno sofferto di un'inflazione elevata o iperinflazione. Hamas e l'Autorità palestinese sono corrotti, ma che lo shekel ha parzialmente protetto i palestinesi dal loro malgoverno fornendo un'unità di conto affidabile, mezzo di scambio e riserva di valore.

Quando gli ho detto che i palestinesi soffrono ancora di una significativa inflazione dei prezzi, mi ha risposto che “un bicchiere d'acqua sarà sempre più costoso nel deserto che alle Cascate del Niagara” e che questo non ha a che fare con i soldi, bensì con il controllo delle frontiere e dei beni e servizi.

“In Cisgiordania i palestinesi non possono comprare roba su Amazon tanto facilmente. Ci sarà sempre una discrepanza di prezzo”.

Mi ha detto che il regime economico restrittivo che trattiene i palestinesi è "soffocato" dagli israeliani e dalla comunità internazionale a causa delle violente minacce dei palestinesi. “Finché Hamas e l'Autorità palestinese mireranno ad annientare lo stato ebraico, non c'è speranza che i palestinesi abbiano gli stessi prezzi di Tel Aviv”.

Alla fine, però, da una prospettiva religiosa, Caras pensa che lo shekel e tutto il denaro fiat saranno “considerati come non etici e immorali da una prospettiva islamica giudeo-cristiana”.

Mi ha detto che “la valuta fiat è una ricerca di rendita, chiaramente una forma di furto, si pagano interessi al governo affinché custodisca la ricchezza della vostra famiglia”.

Ha contrapposto questo stato di cose al denaro basato sulle merci, come l'oro e Bitcoin, dove “ogni membro della società è uguale agli altri”.

Con Bitcoin “sappiamo tutti quali sono le regole e sappiamo che possiamo partecipare senza che le persone le cambino in futuro. Questo non accade quando lavoriamo in un sistema monetario fiat, dove per sua natura è un sistema bipartitico: c'è l'oligarchia degli "ammanicati" che stabilisce la politica monetaria e controlla il flusso di fondi, e poi ci sono i peoni e i servi che sono soggetti alla sua applicazione. È insito nell'aggettivo "fiat" che non siamo uguali”.

Caras crede che siamo “in un'era messianica” e che “le profezie bibliche si stiano avverando” e ci sono “molte prove” che Bitcoin rientri in quelle profezie.

Quando gli ho chiesto se pensa che il governo israeliano proverà a vietare o limitare Bitcoin come strumento al soldo dei terroristi, mi ha detto che il popolo israeliano sa che l'innovazione tecnologica e le opportunità superano di gran lunga i rischi. Se Hamas cercherà di aggirare le restrizioni bancarie raccogliendo fondi in Bitcoin (come ha affermato di recente il governo israeliano, sequestrando bitcoin su exchange che sosteneva fossero collegati ad Hamas), allora sarà più facilmente regolamentabile piuttosto che Caras “paghi un giardiniere o sviluppatore web in bitcoin”.

Ha affermato che il nuovo primo ministro israeliano ha esperienza nella sicurezza informatica e nell'imprenditorialità e che un divieto è improbabile.

“Vietare Bitcoin”, mi ha detto Caras, “è ridicolo tanto quanto vietare la marijuana. Se ho un seme in tasca, posso piantare campi. Se ho 12 parole in testa, nessuno può fermarmi”.

Caras ha sottolineato che oggi Bitcoin è già molto più grande per capitalizzazione di mercato rispetto allo shekel. Egli pensa che i Paesi saranno costretti ad aggiungere bitcoin ai loro bilanci come asset di riserva e renderlo a corso legale, o provare a vietare o combattere Bitcoin, una battaglia che perderanno e lo dovranno acquistare in seguito a un prezzo più alto.

È un grande critico delle valute digitali delle banche centrali (CBDC) e ha sottolineato come il denaro sia utile perché è inarrestabile e privato.

“Mi opporrei con veemenza alla sostituzione del contante con una CBDC: è una forma di controllo. La vostra attività può essere danneggiata se Twitter blocca il vostro account per 72 ore. Essa può essere letteralmente uccisa se non ci sono contanti e al governo non piace chi vi ha visto tenere per mano su una telecamera di sicurezza e quindi blocca il vostro conto”.

Ma il contante, mi ha detto, è ancora soggetto a svalutazione e danneggia la capacità delle persone di risparmiare a lungo termine.

“Bitcoin consentirà a una generazione di credere in sé stessa e nella propria capacità d'investire, di mettere da parte denaro ogni mese che non può essere bloccato. Questo avrà un impatto socio-economico a livello personale e nazionale per palestinesi e israeliani”.

“Ho messo da parte risparmi in Bitcoin e ho più fiducia in esso che nella banca centrale d'Israele nei prossimi 20 anni. E sono un grande sostenitore d'Israele. Pensateci”.

Caras concorda sul fatto che pagare qualcuno in shekel sia una dinamica di potere, ecco perché preferisce pagare prima in bitcoin. “Anche se poi lo venderanno, prima dovranno creare un wallet e iniziare a capirlo”.

Quando gli ho chiesto se pensava che Israele potesse restare indietro rispetto alla Palestina nell'adozione di Bitcoin, mi ha detto che sta facendo pressioni sul governo israeliano affinché sia all'avanguardia. Ma se i palestinesi passassero per primi a un Bitcoin standard, pensa che Israele non potrà far altro che seguirli.

Caras ha affermato di non considerarsi imparziale e sa che alcuni palestinesi lo definiranno un criminale di guerra e una “rappresentazione fisica di tutte le loro difficoltà”, ma, mi ha detto, è lo stesso disposto a sedersi e smanettare su Bitcoin con i palestinesi.

“Vogliamo tutti la sovranità finanziaria, mi interessa la prosperità per tutti, non solo per gli ebrei”.


X. LA LOTTA PER LA SOVRANITÀ

Molti palestinesi vogliono spingere indietro gli insediamenti israeliani e alcuni vedono Bitcoin come un possibile strumento che può aiutare in questo sforzo. Per saperne di più, ho parlato con Zaytoon che lavora per il Fondo sociale palestinese, un'organizzazione che raccoglie fondi dalla diaspora palestinese per sostenere attività agricole in Cisgiordania.

Zaytoon ha affermato che la Palestina è “totalmente dipendente dagli aiuti esteri e dalle importazioni; la nostra capacità produttiva è diminuita e non abbiamo sovranità”. Crede che il futuro risieda nel “produrre il nostro cibo”. Il suo piano è far crescere cooperative nei villaggi della Cisgiordania e inaugurare un nuovo paradigma di governance, non dipendente dagli aiuti stranieri o dall'Autorità palestinese, ma “dalla proprietà degli individui e delle comunità”.

È sicuramente una visione di sinistra. Gli ho detto che c'è anche una comunità libertaria Bitcoin negli Stati Uniti che sta cercando di raggiungere l'autosufficienza agricola; allevare animali e seminare raccolti a distanza dal governo federale.

“Alla fine”, mi ha detto, “siamo tutti esseri umani. Siamo occupati da Israele e la nostra necessità è quella di una soluzione agricola. Gli americani di cui parli potrebbero essere invece occupati dal consumismo, ma cercano la stessa cosa. Sono due facce della stessa medaglia”.

Raggiungere l'indipendenza agricola è difficile, gli insediamenti israeliani, mi ha detto Zaytoon, si stanno espandendo.

“Ci stanno dividendo geograficamente in bantustan. Prima prendono le cime delle colline come punti panoramici e poi scelgono le aree con il terreno più fertile, ad esempio la regione intorno al Mar Morto; questi luoghi sono ottimi per coltivare prodotti tutto l'anno”.

Secondo B'Tselem, solo un ottavo della terra sotto il controllo palestinese è coltivabile a causa del rigido regime di permessi d'Israele.

“Dobbiamo cominciare da quello che abbiamo”, mi ha detto, “la terra intorno alle nostre case. Possiamo iniziare a costruire un'economia di resistenza sempre più decentralizzata”.

L'autosufficienza agricola era lo spirito della prima Intifada, mi ha detto Zaytoon, ma è stata sacrificata da Yasser Arafat e dai suoi compari dell'OLP per denaro e guadagno personale.

“Dobbiamo riprovare”, è convinto Zaytoon. Un grosso problema che lui e il suo team devono affrontare è che tutto il denaro che entra in Palestina viene ispezionato da Israele. I confini finanziari sono controllati; il denaro viene ritardato, tassato e talvolta confiscato.

“Ogni volta che ci considerano un rischio, possono congelare i nostri beni in pochi secondi, anche se siamo in Canada”, quindi, mi ha detto, si sta progettando di raccogliere fondi in bitcoin e aggirare l'intero sistema restrittivo. Il suo team sta attualmente lavorando alla configurazione di BTCPay Server, un sistema di pagamenti open source.

Ma Zaytoon vuole chiarire che una valuta anticoloniale è, di per sé, una soluzione incompleta.

“La libertà monetaria deve andare di pari passo con la costruzione dei nostri poteri di produzione. Alla fine qualsiasi valuta è un alias delle risorse e dobbiamo generare le nostre dalla natura e trasformarle in prodotti di valore che possono essere utilizzati nella nostra società per favorire l'innovazione, l'istruzione, l'assistenza sanitaria e la sicurezza alimentare”.

“A tal fine i palestinesi dovrebbero usare una valuta che controllano, non una valuta ancorata all'economia israeliana, o al petrodollaro, o ad altro”, ha aggiunto.


XI. IL FUTURO DI BITCOIN IN PALESTINA

Il governo israeliano ha annunciato pubblicamente il sequestro dei fondi bitcoin legati ad Hamas. Sembra certo che le Forze Difensive Israeliane inizieranno a demonizzare Bitcoin come uno strumento dei terroristi e, forse, a renderlo più difficile da usare per israeliani e palestinesi.

Dato che il governo israeliano ha dato la priorità alla centralizzazione del maggior numero possibile di flussi economici sotto il suo controllo in entrata e in uscita da Gaza e dalla Cisgiordania, qualsiasi somma di denaro che si muove al di fuori dei "canali ufficiali" sarà probabilmente considerato sospetto. Questo potrebbe essere un deterrente per future adozioni.

Ma già oggi Paxful e LocalBitcoins hanno vivaci mercati peer-to-peer in Palestina. Se Bitcoin potesse essere adottato da centinaia di aziende palestinesi e centinaia di migliaia di individui, allora potrebbe diventare una protesta pacifica straordinariamente potente.

C'è una possibilità per i palestinesi — o qualsiasi popolazione vulnerabile, intrappolata dall'occupazione straniera, dall'autoritarismo interno, da un'economia al collasso, o da una mancanza strutturale di opportunità — di adottare Bitcoin come nuova valuta. Milioni di individui stanno già facendo questa scelta in Turchia, Argentina, Nigeria, Iran, Libano e oltre.

Più di due terzi dei palestinesi ha meno di 30 anni e più del 70% ha accesso a Internet. I giovani sono più a loro agio con l'idea del denaro digitale e cercheranno soluzioni tecnologiche ai loro problemi. È un rischio, ma l'adozione di Bitcoin come economia circolare potrebbe benissimo dare ai palestinesi un vantaggio sui loro vicini e posizionarli relativamente bene per il prossimo secolo.

El Salvador ha fornito un modello nazionale di come Bitcoin possa essere utilizzato non solo come strumento di risparmio per investire nel futuro, ma anche come rete di pagamento che può consentire ai cittadini di connettersi istantaneamente con chiunque nel mondo.

La Palestina potrebbe essere l'El Salvador del Medio Oriente? Il presidente Nayyib Bukele è, dopotutto, palestinese. I suoi nonni emigrarono in El Salvador dalle aree di Gerusalemme e Betlemme durante lo sfilacciamento dell'Impero Ottomano. Suo padre si convertì persino all'Islam e divenne un importante imam a San Salvador e un forte difensore della causa palestinese.

Bukele ha detto di essere molto orgoglioso delle sue origini palestinesi, affermando che “vorrebbe vedere un fiorente stato palestinese”. È ironico che una persona di origine palestinese sia il primo leader mondiale ad adottare Bitcoin come valuta nazionale.

Non c'è dubbio che il governo israeliano, il governo americano, l'Autorità palestinese, la Banca mondiale e le Nazioni Unite si opporrebbero tutti a una simile mossa. Sono tutti troppo coinvolti nello status quo, quindi qualsiasi tipo di adozione dovrebbe provenire da un movimento popolare.

Per quanto riguarda i tradizionali tentativi di riforma, si è discusso di riavviare la Joint Economic Committee (JEC) — l'organizzazione creata all'epoca del Protocollo di Parigi che alla fine avrebbe il potere di creare una nuova moneta per i palestinesi. La JEC non si riunisce dal 2009 ed è stata utilizzata per supervisionare le operazioni nei Territori Palestinesi Occupati, ma i ministri israeliani e quelli dell'Autorità palestinese stanno pianificando di riportarla in auge e di "rimuovere gli ostacoli" all'attività economica dell'Autorità palestinese.

I palestinesi hanno già visto questo copione: in precedenza una spinta del governo israeliano per aiutare l'Autorità palestinese non ha mai fatto molto per la persona media in Cisgiordania o a Gaza, oltre a sottrarre più denaro alla leadership dell'Autorità Palestinese e introdurre nuovi controlli sul campo. Gli obiettivi dichiarati questa volta sono di rilasciare altri 17.000 permessi ai lavoratori palestinesi per “lavorare nell'edilizia e nell'industria in Israele” e rafforzare l'amministrazione palestinese. Ancora una volta, qualsiasi riforma probabilmente approfondirà la dipendenza palestinese dall'economia israeliana.

Di recente è arrivata la notizia che l'Autorità monetaria palestinese sta pensando a una valuta digitale della banca centrale, un nuovo tipo di asset destinato a sostituire banconote e monete con una passività direttamente sulla banca centrale e che gli individui manterrebbero sui loro telefoni. I critici sono stati schietti: “Non sostituirà lo shekel o il dinaro o il dollaro. Certamente non sarà una riserva di valore o un'unità di contabilità”, ha affermato Barry Topf, ex-consulente senior della Banca d'Israele.

I palestinesi non sono stati in grado di coniare il proprio tipo di denaro — secondo il Protocollo di Parigi — ma anche se avessero potuto, non vi è alcuna garanzia che l'Autorità palestinese non avesse abusato del suo potere e creto un'enorme inflazione. Il suo storico in materia fiscale è decisamente terribile e Topf potrebbe avere ragione.

Inoltre la creazione di una valuta palestinese (digitale o meno) rischia di prolungare gli squilibri di potere che esistono oggi nell'economia palestinese. Fornirebbe "inclusione" finanziaria o esclusione finanziaria globale?

Peggio ancora, il passaggio dell'economia palestinese a un'economia digitale — che sia controllata dall'Autorità palestinese, dalla Banca mondiale, da Israele o da chiunque altro — sarebbe disastroso rispetto all'attuale libertà, seppur piccola, di cui godono i palestinesi quando usano il contante e la loro economia informale, dove possono risparmiare ed effettuare transazioni al di fuori del controllo del governo. Una CBDC consentirebbe un maggior grado di confisca e sorveglianza, indipendentemente da chi è responsabile della sua progettazione.


XII. ATTIVISMO CONCRETO O SOLAMENTE A PAROLE?

Gran parte dell'attivismo online per la Palestina può essere classificato come "a parole". Che cosa ottiene pubblicare #FreePalestine? Di solito, molto poco. Ma aiutando le persone a capire come usare Bitcoin, si può permettere loro di raggiungere un grado di vera libertà: la capacità di proteggere il valore dalla confisca e connettersi con chiunque nel mondo.

Per un popolo la cui storia è piena di confische, Bitcoin offre ai palestinesi un modo per prendere i frutti del proprio lavoro e tempo e bloccarli nel cyberspazio con la matematica, al di là del controllo di Hamas, Israele, Autorità palestinese o Banca Mondiale. È una protesta pacifica, uno scudo digitale, che potrebbe portare a grandi cambiamenti.

Ciò è stato sottolineato dalle numerose interviste che ho condotto per comporre questo saggio. Oltre a coloro le cui storie sono state raccontate, ho parlato con una mezza dozzina di altri palestinesi per avere informazioni. Tutti hanno parlato di 3 cose in particolare:

  1. “Se non prendiamo in mano la situazione, non ci saranno progressi”. C'è una tremenda (e comprensibile) mancanza di fiducia nelle autorità e la consapevolezza che lo status quo continuerà a meno che non si provi qualcosa di nuovo.
  2. Se solo poche persone usano Bitcoin, allora tutti sembrano concordare sul fatto che le autorità li perseguiterebbero e li sbatterebbero in prigione. Ma se lo usano 100.000 persone, allora non ci sarà niente che potranno fare. Costruire un movimento è fondamentale.
  3. Se i critici di sinistra non lo capiscono e continuano ad attaccare Bitcoin dalla loro posizione di privilegio, allora “è evidente che sono più interessati a parlare del problema piuttosto che a risolverlo. Dov'è la loro soluzione?”

La sinistra tradizionalmente non ama o ignora Bitcoin. I critici e gli economisti di sinistra lo definiscono spesso inutile: uno schema Ponzi, uno strumento per criminali, un disastro ambientale e così via. Amnesty International e Human Rights Watch continuano a tacere su Bitcoin. Sì, hanno svolto un lavoro ammirevole per dettagliare la sofferenza dei palestinesi, ma perché non parlare apertamente di una tecnologia che così tanti di loro stanno già usando per emanciparsi? Lo stesso si può dire per la comunità internazionale in generale. Se si vuole davvero un cambiamento della situazione sul campo, bisogna partire dal denaro e Bitcoin è un modo per farlo.

Il silenzio su Bitcoin è tristemente riflesso da una ricerca del termine sui siti web del think tank palestinese MAS o del gruppo israeliano per le libertà civili B'Tselem: zero risultati. È chiaro che i palestinesi continueranno ad adottare Bitcoin, ma non è chiaro se i loro sostenitori in tutto il mondo li aiuteranno in questo senso.

Oggi i palestinesi non hanno indipendenza monetaria, sono sempre più costretti a utilizzare la valuta del loro occupante, non sono in grado di aumentare la loro base di capitale, sono diventati più consumisti e gravati dai debiti, dipendono interamente dagli aiuti esteri e, a Gaza, affrontano il collasso della civiltà.

Quando Sarah Roy ha riflettuto su “cosa debba essere fatto”, una delle sue conclusioni è stata che “la produzione di conoscenza è essa stessa una forma di resistenza”.

Non c'è niente da perdere condividendo informazioni su Bitcoin, il quale ha già aiutato tanti palestinesi. Forse il più grande progetto monetario open source al mondo può aiutare, dove tutto il resto ha fallito.


XIII. SE SI AGGIUSTA IL DENARO, SI AGGIUSTA IL MONDO

Nella comunità Bitcoin, c'è un detto: "Se si aggiusta il denaro, si aggiusta il mondo".

Ovviamente il denaro è solo una parte del nostro tessuto sociale, ma è una parte molto importante e alla fine se i palestinesi non saranno in grado di aggiustare i loro soldi, non saranno in grado di aggiustare il loro mondo.

Alla fine della mia telefonata con Uqab, egli mi ha detto che molte persone a Gaza sono così disperate da vendere le loro case in cambio di Bitcoin. Vale lo stesso per le imprese: “Qualsiasi impresa che viene aperta a Gaza è destinata a fallire, quindi i proprietari preferirebbero venderla piuttosto che tenerla”.

Mi ha detto che il loro calcolo è il seguente: il settore immobiliare “sta andando a zero” a Gaza, quindi, nel peggiore dei casi, se Bitcoin crolla “è lo status quo per noi”.

Ma se Bitcoin continua sulla sua traiettoria storica e guadagna valore rispetto alle valute fiat? “Allora abbiamo una porta per la libertà”.

“Sto risparmiando per i miei figli”, mi ha detto appena prima di riattaccare. “Bitcoin sarà il mio biglietto per uscire da qui”.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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