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martedì 29 novembre 2022

L'attuale politica monetaria della FED condurrà alla stagflazione, non alla deflazione

 

 

di Mihai Macovei

Gli analisti mainstream sembrano convinti che le banche centrali si stiano muovendo in modo aggressivo per affrontare l'inflazione, forse anche esagerando. Dopo aver creduto fino a poco tempo fa che l'impennata dei prezzi fosse solo transitoria, le banche centrali ora insistono sul fatto che ripristineranno la stabilità dei prezzi (quasi) ad ogni costo. A settembre la FED ha rialzato il suo tasso di riferimento a un intervallo compreso tra il 3 e il 3,25% da quasi zero all'inizio dell'anno.

Diversi membri del Federal Open Market Committee prevedono che il tasso ufficiale raggiungerà il 4,25% quest'anno e supererà il 4,5% nel 2023. Il presidente della FED ha anche ammesso che l'attenuazione dell'inflazione non sarà indolore, ma l'orientamento monetario della FED sarà sufficiente a frenarla dato che si è attestata al di sopra dell'8% per sette mesi? O è più probabile che la FED inverta la rotta piuttosto che rischiare una grave recessione economica? Poiché la stagflazione è diventata una possibilità concreta, lo scenario disinflazionistico della FED appare sempre meno plausibile.


L'inflazione è principalmente un fenomeno monetario

La FED deve ridurre la crescita dell'offerta di denaro al di sotto della crescita della produzione per frenare l'inflazione dei prezzi. Altrimenti troppi soldi inseguiranno troppo pochi beni, facendo salire i prezzi. La FED deve anche smorzare le aspettative sull'inflazione, in modo che una minore domanda di denaro non aumenti la velocità con cui il denaro insegue le merci e quindi indebolisca gli sforzi per contenere la crescita degli aggregati monetari. Finora la FED ha attribuito l'accelerazione dell'inflazione dei prezzi a fattori dal lato dell'offerta: le interruzioni delle catene di approvvigionamento durante la crisi sanitaria, seguite dall'impennata dei prezzi dell'energia a causa della guerra in Ucraina.

Questa è solo una parte della storia, perché la creazione di denaro è sempre stata il principale motore dell'inflazione dei prezzi. Gli shock dell'offerta hanno solo esacerbato il flusso di denaro nei prezzi al consumo piuttosto che nelle bolle immobiliari o finanziarie. Tuttavia senza un eccesso di offerta di denaro rispetto alla produzione, nessuno shock dell'offerta avrebbe potuto portare a un aumento generale del livello dei prezzi. Infatti il Grafico 1 mostra che dall'inizio della crisi finanziaria mondiale l'aumento dell'offerta di denaro M3 ha superato la crescita del prodotto interno lordo (PIL) reale a un ritmo elevato e ha fatto registrare un picco durante la crisi sanitaria. Questo differenziale di crescita è paragonabile a quello degli anni '60 e '70.

Grafico 1: offerta di denaro M3 & crescita del PIL reale

L'aumento di M3 è rallentato in modo significativo, al 4,3% su base annua nell'agosto 2022, ma supera ancora il PIL reale. Quest'ultimo è crollato quando gli Stati Uniti sono entrati in recessione tecnica con una crescita negativa sia nel primo che nel secondo trimestre di quest'anno. Ciò indica una probabile recessione a tutti gli effetti, cosa che normalmente dovrebbe ridurre le pressioni inflazionistiche. È naturale che la grande espansione del credito fiduciario negli ultimi anni sia seguita da una recessione curativa accompagnata da deflazione dei prezzi.

Secondo la teoria del ciclo economico di Ludwig von Mises, un calo dei prezzi è inevitabile quando si interrompe l'afflusso di ulteriori mezzi fiduciari. Le banche smettono di espandere il credito, o perché prevedono bancarotte imminenti o perché i debiti insoluti non verranno rimborsati. Inoltre l'incertezza fa sì che sia le famiglie che le imprese aumentino le proprie riserve di liquidità, mentre le aziende in difficoltà liquideranno le scorte a prezzi stracciati.

In linea di principio, una recessione potrebbe facilitare il compito della FED nel domare l'inflazione e ridurre la necessità di ulteriori e sostanziali rialzi dei tassi, ma questo non è coerente con lo scenario ottimista della FED di un "atterraggio morbido" e che potrebbe innescare un rinnovato allentamento della politica monetaria al fine di far ripartire l'economia. Inoltre un aumento duraturo dei prezzi dell'energia, l'allentamento fiscale e il disancoraggio dalle aspettative sull'inflazione potrebbero trasformare l'attuale contesto recessivo in un prolungato periodo di stagflazione.


La stagflazione potrebbe far deragliare lo scenario ottimista della FED

La stagflazione negli anni '70 è stata una sorpresa per la maggior parte degli economisti keynesiani, perché la combinazione di crescita tiepida e prezzi in rapido aumento era in contrasto con le precedenti recessioni. Contraddiceva anche la famosa Curva di Philips, la quale sosteneva una relazione inversa tra inflazione e disoccupazione. La spiegazione "popolare" dell'alta inflazione negli anni '70 fu la triplicazione dei prezzi del petrolio in seguito ai due shock petroliferi del 1973 e del 1979.

In realtà, l'impennata dell'inflazione fu causata da uno stimolo fiscale e monetario keynesiano che negli anni '60 alimentò un boom economico insostenibile negli Stati Uniti, come spiegato da Thornton. Ciò costrinse gli Stati Uniti ad abbandonare il gold standard nel 1971 e portò al crollo di Bretton Woods. L'elevata inflazione negli Stati Uniti, salita al 6,4% nel febbraio 1970, precedette gli shock dell'offerta energetica, i quali furono principalmente un sintomo di un'eccessiva stampa di denaro. L'aumento dei prezzi del petrolio influenzò l'inflazione in modo diverso nei vari Paesi, con prezzi che aumentarono molto più rapidamente negli Stati Uniti rispetto a Svizzera e Germania, indicando il ruolo chiave svolto dalla politica monetaria e dalle aspettative sull'inflazione.

Grafico 2: inflazione dei prezzi al consumo negli anni '70

Le banche centrali tedesca e svizzera capirono che l'inflazione era principalmente un fenomeno monetario e cercarono di controllare la crescita degli aggregati monetari per contenerla e orientare le aspettative inflazionistiche. Questo divenne il loro punto di riferimento quando il legame con l'oro venne interrotto: la Bundesbank lasciò salire i tassi d'interesse in anticipo ed ex post i tassi d'interesse reali rimasero positivi in ​​Germania, mentre divennero negativi negli Stati Uniti per l'intero periodo tra l'agosto 1971 e l'ottobre 1979. Di conseguenza la crescita dell'offerta di denaro non solo continuò a salire a ritmo sostenuto negli USA, ma fu accompagnata anche da un disancoraggio dalle aspettative sull'inflazione. Anche se l'aumento dell'offerta di denaro negli Stati Uniti fu solo leggermente peggiore che in Germania, il disancoraggio dalle aspettative sull'inflazione spinse quest'ultima molto più in alto negli Stati Uniti.

Grafico 3: offerta di denaro M3 negli Stati Uniti, in Germania e in Svizzera


Allarme stagflazione

L'esperienza degli anni '70 sottolinea il ruolo chiave svolto dalle aspettative sull'inflazione nel far salire i prezzi. Un aumento sostenuto di questi ultimi riduce la domanda di una valuta che perde costantemente il suo potere d'acquisto, rafforzando la spirale inflazionistica. Oggi possiamo già vedere un aumento delle aspettative sull'inflazione sia da parte dei previsori professionisti che dei consumatori, le quali potrebbero amplificarsi ulteriormente in futuro.

Grafico 4: proiezioni dell'inflazione da parte di previsori professionisti. Fonte: Federal Reserve Bank of Filadelfia

Grafico 5: Proiezioni sull'inflazione da parte dei consumatori. Fonte: Indagine della FED di New York sulle aspettative dei consumatori

Secondo Ludwig von Mises, l'inflazione causata dall'espansione del credito differisce da quella causata dalla monetizzazione diretta dei disavanzi del bilancio pubblico. La prima è solitamente accompagnata da deflazione quando cessa l'emissione di mezzi fiduciari, mentre la secondo no, a meno che lo stato non ritiri la quantità aggiuntiva di denaro dal mercato.

L'attuale picco dell'inflazione è un misto tra un boom del credito di lunga durata e generose sovvenzioni pubbliche sia alle imprese che alle famiglie. La dissolutezza fiscale è continuata dopo la crisi sanitaria con un condono dei prestiti agli studenti e un pacchetto di spesa "green" che paradossalmente avevano lo scopo di ridurre l'inflazione. È probabile che l'allentamento fiscale contrasti le pressioni deflazionistiche derivanti dalla fine dell'espansione del credito, poiché i deficit di bilancio hanno raggiunto livelli storicamente elevati con un picco di quasi il 15% del PIL nel 2020.

I prezzi dell'energia rimarranno molto probabilmente elevati mentre la guerra in Ucraina e il disaccoppiamento dall'economia russa continueranno, rafforzati dalla transizione verde. Ciò spingerà gli stati ad accogliere lo shock dell'approvvigionamento energetico con ulteriori cicli di spesa in deficit per sovvenzionare i prezzi dell'energia e aumentare i salari e i redditi del settore pubblico. Anche la crescita delle retribuzioni private ha subito un'accelerazione in un mercato del lavoro teso e in cui si stanno affermando anticipazioni di un'inflazione persistente. Ultimamente sia la BCE che l'FMI hanno espresso preoccupazione per il fatto che l'inflazione abbia iniziato ad “auto-rafforzarsi” a causa dei pacchetti fiscali degli stati e di un aumento delle aspettative sull'inflazione.

Grafico 6: salari nominali USA


La posizione monetaria della FED è troppo accomodante

Con il concretizzarsi delle prospettive di stagflazione, l'attuale scenario di stretta monetaria della FED è ovviamente troppo accomodante. La storia mostra che la Grande Inflazione degli Stati Uniti negli anni '70 poteva essere conclusa solo rialzando i tassi d'interesse in territorio positivo per diversi anni al fine di ammansire le aspettative sull'inflazione. L'inflazione dei prezzi era arrivata a quasi il 12% quando Volcker divenne presidente della FED nel novembre 1979.

A quel tempo il tasso d'interesse di riferimento era ancora relativamente alto e il tasso reale era solo leggermente negativo (-0,8%). Tuttavia, con l'accelerazione dell'inflazione dei prezzi sopra al 14% a metà giugno 1980, Volcker rialzò il tasso di riferimento fino al 19% nel dicembre 1980. Sebbene lo riabbassò gradualmente nei cinque anni successivi, il tasso reale fu sempre positivo e superò il 5% in media dal 1981 al 1984, tanto che l'inflazione dei prezzi scese sotto il 4%.

Grafico 7: tasso d'interesse di riferimento e inflazionedei prezzi

Il rialzo dei tassi innescò anche una forte recessione economica nel 1981-82 e spazzò via il settore S&L. Con gli attuali tassi reali negativi oltre il –5% e voci che già chiedono un ammorbidimento della posizione monetaria della FED, gli Stati Uniti molto probabilmente finiranno in stagflazione piuttosto che in uno scenario di bassa inflazione.

Il settore finanziario potrebbe gettare un po' di sabbia negli ingranaggi della stampante monetaria agendo più cautamente e inasprendo le condizioni di prestito più della FED. Infatti lo spread tra il tasso fisso dei mutui a 30 anni e il tasso Federal funds è aumentato da una media di 275 punti base nel 2020 a 385 punti base nei primi nove mesi del 2022, ma la stretta sul settore finanziario ha compensato solo in parte la stretta della FED sulla sua posizione monetaria ancora troppo accomodante.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


1 commento:

  1. Quando mi capita di sentire analisti e commentatori dire che "a questo giro la FED invertirà la marcia", mi viene in mente questa scena tratta dal film "Nick mano fredda".

    Prima dei recenti rialzi dei tassi, l'indice S&P ha ogni volta provato un rally guidato dal wishful thinking dei mercati e dalla liquidità offerta dal settore bancario commerciale (una porzione di questo, non tutte le grandi banche hanno lasciato aperti i rubinetti del credito), solo per sbattere prontamente contro il muro del FOMC. La prossima volta non sarà diverso.

    Infatti la FED è stata chiara sin dalla prima riunione di quest'anno: è decisamente prematuro pensare a una pausa del programma di tightening avviato da Powell da inizio anno. Come ha ripetuto poi a Jackson Hole, domanda/offerta nei mercati dei capitali sono fuori sincrono e c'è bisogno di ristabilire un certo ordine all'interno dei conti della nazione. Sebbene si cercherà di salvaguardare la classe media statunitense, ciò non significa che sarà al riparo dal dolore economico proveniente da una recessione necessaria. E la chiarezza della FED è confermata da come procede la base monetaria, strumento direttamente sotto il suo controllo. Infatti se lo si confronta col credito bancario, si noterà che ha temporaneamente bloccato una discesa più marcata del mercato finanziario, fornendo liquidità, e non è stata la FED. Questo punto è importante perché secondo alcuni analisti la FED non solo starebbe pensando d'invertire la rotta, ma lo avrebbe già fatto.

    Il compito attuale della FED non è tanto quello di "combattere" l'inflazione dei prezzi, altrimenti si sarebbe già posizionata davanti i relativi numeri, bensì quello di comprare tempo a scapito dell'Europa principalmente e nel frattempo lasciare che l'inflazione sgonfi i numeri del debito pubblico. La fuga di capitali dall'euro al dollaro è un piano precisamente voluto e riconfermato di recente quando la FED ha aiutato volutamente la BNS sulla scia del caos Credit Suisse. Niente dollari invece per le banche europee e Dio solo sa quanto ne abbiano bisogno.

    Ma al di là degli scopi meno visibili, ce ne sono altri più visibili che suggeriscono una impossibilità a smettere di rialzare i tassi. Eccone uno. La relazione recente sul mondo del lavoro, secondo cui i costi unitari del lavoro hanno continuato a salire durante il terzo trimestre, potrebbe essere sufficiente a riportare una parvenza di sobrietà nei canyon di Wall Street. L'aumento su base annua del 6,1% è leggermente diminuito rispetto allo shock del secondo trimestre (+7,9%), ma le implicazioni non sono meno minacciose: quando si ha a che fare con questo tipo d'inflazione spinta dai costi e dalla liquidità, non c'è modo in cui il deflatore IPC o PCE tornerà a numeri "normali" con il costo del lavoro in aumento del 6% annuo. Gli aumenti del costo unitario del lavoro degli ultimi due trimestri sono i più alti dalla metà del 1982 e non è necessario essere uno studente di economica per capire cosa ciò significhi: Volcker "ruppe la schiena" all'inflazione spinta dai costi portando i tassi d'interesse reali a livelli che oggi sono difficilmente immaginabili e che si fanno beffe dei ripetuti "pivot" mostrati nei grafici qui.

    Il dollaro, quindi, non ha ancora smesso di salire e l'euro non ha ancora smesso di scendere. Forse al prossimo rialzo dei tassi, i mercati finanziari finalmente capiranno l'antifona.

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