venerdì 14 ottobre 2022

Il colpevole degli attuali disastri economici non è il riscaldamento globale o la “crisi climatica”, è lo stato

Non è un caso che di recente stiano comparendo articoli d'opinione come questo e che nientemeno che Draghi, in veste di presidente del consiglio, abbia spianato la strada alla decrescita imposta simboleggiata dalla Scelta di Hobson "o il condizionatore, o la pace". Secondo questo modo di pensare il perseguimento della crescita economica causi danni ecologici e si sviluppano tesi a favore di un'economia stazionaria, che rinunci a una crescita insaziabile e distruttiva per l'ambiente, riconosca i limiti fisici del nostro pianeta e cerchi un equilibrio economico ed ecologico sostenibile. Queste tesi sono state dapprima propagadante da Georgescu-Roegen, noto per il suo “The Entropy Law and the Economic Process” del 1971, in cui sosteneva che tutte le risorse naturali sono irreversibilmente degradate quando vengono utilizzate nell'attività economica, di conseguenza tutte le risorse minerarie sono a rischio d'esaurimento. Inutile dire che il passo successivo è sempre il solito: imposizione di restrizioni statali. Il lavoro di Georgescu-Roegen è stato decisivo per l'affermazione della cosiddetta economia ecologica come sottodisciplina accademica indipendente in economia. Quello che abbiamo qui, sostanzialmente, è l'ennesimo polpettone socialista riscaldato sin dal 1798, quando Thomas Malthus nel suo “An Essay on the Principle of Population” lo presentò per la prima volta. Secondo Malthus, l'approvvigionamento alimentare e altre risorse correlate si espandono con una progressione lineare mentre la popolazione cresce con una progressione geometrica, cosa che a un certo punto avrebbe minacciato la vita umana. Rothbard ha dimostrato che le sue erano enormi balle. Contrariamente all'economia ecologica, il fattore importante dietro l'inquinamento ambientale e ai vari problemi climatici non è la crescita economica, ma la mancanza di libero mercato. L'espansione della ricchezza unita alla protezione dei diritti di proprietà minimizza i problemi ecologici: è nell'interesse degli individui prendersi cura della loro proprietà senza violare i diritti di proprietà degli altri. Nel quadro dei regolamenti e dei controlli statali, in ​​cui la proprietà invece è diluita, vi è un minore incentivo a prendersene cura. Non sorprende, ad esempio, che nelle economie socialiste i problemi ecologici siano preponderanti. Inoltre la tesi che una forte crescita economica sia dannosa per l'ecologia è erronea, perché essa è misurata in termini di PIL in cui il fattore trainante chiave è l'offerta di denaro. L'interventismo monetario, infatti, intensifica l'indebolimento dell'allocazione efficiente delle risorse scarse e di conseguenza questo indebolisce il tenore di vita degli individui e crea problemi ecologici.

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di David Stockman

Il capo della Banca centrale europea (BCE) ha affermato che il cambiamento climatico è alla base dell'impennata dell'inflazione, affermando che siccità e carestie stanno facendo salire i prezzi. “Se si verificano sempre più disastri climatici, siccità e carestie in tutto il mondo, ci saranno ripercussioni sui prezzi, sui premi assicurativi e sul settore finanziario”, ha affermato la Lagarde. “Dobbiamo tenerne conto”.

No, quello che in realtà dobbiamo tenere in considerazione è che la cosiddetta crisi climatica è una sciocchezza, a cominciare dalle basi del cosiddetto riscaldamento globale causato dall'uomo. Il fatto è che l'era attuale è uno dei periodi più freddi e meno ad alta intensità di anidride carbonica degli ultimi 600 milioni di anni.

Detto in modo diverso, la vera scienza fa carne da macello della narrativa sposata dalla Lagarde, dalla burocrazia europea, dal Nord America e dai media generalisti. Ciononostante viene utilizzata come scusa per gli attuali disastri economici causati dalle banche centrali e dagli stati e un pretesto per nuovi giri di repressione autoritaria della libertà economica esemplificata dalla recente mossa della California di mettere fuori legge le auto con motore a combustione dopo il 2035.

Infatti le prove geologiche e paleontologiche affermano in modo schiacciante che la temperatura globale media odierna di circa 15 °C e le concentrazioni di CO2 di 420 ppm non sono nulla di cui preoccuparsi, e anche se salissero a circa 17-18 °C e 500-600 ppm alla fine del secolo, potrebbero nel complesso migliorare la sorte dell'umanità.

Dopotutto l'esplosione della civiltà negli ultimi 10.000 anni s'è verificata uniformemente durante la  parte rossa del grafico qui sotto: le civiltà fluviali, l'era minoica, l'era greco-romana, la prosperità medievale e le rivoluzioni industriali/tecnologiche dell'era attuale. Allo stesso tempo, quando il clima diventava più freddo (zona azzurra), si sono verificati i vari salti nei secoli bui.

Ed è solo una questione di logica: quando è più caldo e umido, le stagioni di crescita sono più lunghe e i raccolti sono migliori, indipendentemente dalla tecnologia e dalle pratiche agricole del momento. Ed è anche meglio per la salute umana e della comunità: la maggior parte delle piaghe mortali della storia si sono verificate in climi più freddi, come la peste nera del 1344-1350.

Eppure la narrativa sulla crisi climatica stronca questo enorme corpo di "scienza" per mezzo di due dispositivi ingannevoli che invalidano l'intera storia del riscaldamento globale antropogenico.

In primo luogo, ignora l'intera storia del pianeta nel periodo pre-Olocene (ultimi 10.000 anni), anche se la scienza mostra che più del 50% delle volte negli ultimi 600 milioni di anni le temperature globali erano nell'intervallo di 25 °C, o del 67 % superiori ai livelli attuali e di gran lunga superiori a quanto previsto dai modelli climatici più sfrenati di oggi. Ma, soprattutto, a quei picchi di temperatura, i sistemi climatici planetari non erano entrati in un ciclo apocalittico di fusione rovente: il riscaldamento è sempre stato controllato e invertito da potenti forze compensative.

Anche la storia che gli allarmisti riconoscono è stata grottescamente falsificata. Ci riferiamo alla cosiddetta "impennata" degli ultimi 1000 anni, che Al Gore ha reso famosa nel suo film di propaganda sul riscaldamento globale e che pretende di dimostrare che le temperature erano piatte fino al 1850 e ora stanno salendo a livelli presumibilmente pericolosi.

Non è falso, è super falso. È una tesi fraudolentemente fabbricata dall'IPCC (International Panel on Climate Change) per “cancellare” il fatto che le temperature nel mondo preindustriale del periodo caldo medievale (1000-1200 d.C.) erano in realtà più elevate di quelle attuali!

In secondo luogo, viene erroneamente affermato che il riscaldamento globale è una strada a senso unico in cui l'aumento delle concentrazioni di gas serra, e in particolare di CO2, sta causando un continuo aumento del bilancio termico terrestre. La verità, tuttavia, è che concentrazioni di CO2 più elevate sono una conseguenza e un sottoprodotto, non un elemento motore e una causa, dell'attuale aumento naturale delle temperature.

Durante il periodo Cretaceo, tra 145 e 66 milioni di anni fa, un esperimento naturale ha fornito la completa assoluzione alla molecola di CO2 così tanto diffamata oggi. Durante quel periodo, le temperature globali salirono da 17 °C a 25 °C, un livello molto al di sopra di qualsiasi cosa i Fanatici del Clima di oggi abbiano mai previsto.

Purtroppo la CO2 non era il colpevole. Secondo la scienza, le concentrazioni di CO2 nell'ambiente erano crollate durante quell'arco di 80 milioni di anni, scendendo da 2.000 ppm a 900 ppm alla vigilia dell'estinzione dei dinosauri 66 milioni di anni fa.

Potreste pensare che questo fatto compensativo possa dare una pausa ai cacciatori di streghe della CO2, ma ciò significherebbe ignorare la base su cui poggia tutta la storiella del cambiamento climatico. Cioè, non si tratta di scienza, salute e benessere umani o sopravvivenza del pianeta Terra; è una mera questione di politica e della ricerca incessante della classe politica e dei burocrati dell'ennesima scusa per esaltare il potere statale.

Infatti la narrativa sui cambiamenti climatici è il tipo di mantra politico ritualizzato che viene invocato più e più volte dalla classe politica e dalla nomenklatura dello stato moderno – professori universitari, think tank, lobbisti, burocrati in carriera, burocrazia – al fine di raccogliere ed esercitare potere statale.

Per parafrasare il grande Randolph Bourne, inventare presunti fallimenti del capitalismo, come la propensione a bruciare troppi idrocarburi, è la salute dello stato. Infatti la fabbricazione di falsi problemi e minacce che presumibilmente possono essere risolti solo con un intervento pesante dello stato è diventato il modus operandi di una classe politica che ha usurpato il controllo alla democrazia moderna.

Così facendo la classe dirigente è diventata sciatta, superficiale, negligente e, soprattutto, disonesta. Ad esempio, nel momento in cui sperimentiamo una normale ondata di caldo estivo del tipo di cui parlava Christine Lagarde, questi eventi meteorologici naturali vengono sequestrati nella narrativa del riscaldamento globale senza pensarci due volte e ripetuti a pappagallo dai giornalisti.

Eppure non c'è assolutamente alcuna base scientifica per tutto questo tam tam mediatico. Infatti la NOAA pubblica un indice di ondate di calore basato su picchi di temperatura estesi che durano più di 4 giorni e che dovrebbero verificarsi una volta ogni dieci anni sulla base dei dati storici.

Come è evidente dal grafico qui sotto, gli unici veri picchi di calore che abbiamo avuto negli ultimi 125 anni sono stati durante le ondate di calore degli anni '30. La frequenza dei picchi di mini ondate di calore dal 1960 non è maggiore di quella del periodo 1895-1935.

Allo stesso modo, tutto ciò che serve è un buon uragano Cat 2 e si lanciano alle gare, parlando a gran voce di riscaldamento globale antropogenico. Naturalmente tutto questo ignora completamente i dati della NOAA riassunti in quello che è noto come indice ACE (energia ciclonica accumulata).

Questo indice è stato sviluppato per la prima volta dal famoso esperto di uragani e professore della Colorado State University, William Gray. Utilizza un calcolo dei venti massimi di un ciclone tropicale ogni sei ore e quest'ultimo viene quindi moltiplicato per sé stesso in modo da ottenere il valore dell'indice accumulato per tutte le tempeste di tutte le regioni ogni anno.

Questo grafico copre gli ultimi 170 anni, dove la linea rossa è la cifra annuale e la linea blu rappresenta la media mobile a sette anni.

Il sottoscritto ha un occhio di riguardo per l'esperienza di William Gray. Ai tempi del mio private equity abbiamo investito in una società, Property-Cat, che si occupava di un'attività super pericolosa: assicurazioni contro i danni estremi causati da uragani e terremoti molto violenti. Quindi impostare correttamente i premi non era un affare da poco e quegl iassicuratori dipendevano dalle analisi, dalle banche dati a lungo termine e dalle previsioni dell'anno in corso del professor Gray.

Vale a dire, centinaia di miliardi di coperture assicurative erano allora e vengono tuttora redatte con l'ACE come input cruciale.

Tuttavia se si esamina la media mobile a 7 anni (linea blu) nel grafico, è evidente che l'ACE era alto o superiore negli anni '50 e '60 come lo è oggi, e che lo stesso vale per la fine degli anni '30 e il periodo 1880-1900.

Quanto sopra è un indice aggregato di tutte le tempeste ed è quindi una misura completa.

Ma per fugare qualsiasi altro dubbio, i prossimi tre grafici esaminano i dati degli uragani a livello di conteggio delle tempeste individuali. La parte rosa delle barre rappresenta il numero di grandi tempeste Cat 3-5, mentre la parte rossa riflette il numero di tempeste Cat 1-2 e quella blu il numero di tempeste tropicali che non hanno raggiunto l'intensità Cat 1.

Le barre accumulano il numero di tempeste a intervalli di 5 anni e riflettono l'attività registrata fin dal 1851. Il motivo per cui presentiamo tre grafici, rispettivamente per i Caraibi orientali, i Caraibi occidentali e le Bahamas/Turks & Caicos, è che le tendenze in queste tre sottoregioni sono nettamente divergenti. E questa è la pistola fumante!

Se il riscaldamento globale generasse più uragani, come sostiene costantemente la narrativa mainstream, l'aumento sarebbe uniforme in tutte queste sottoregioni, ma chiaramente non lo è.

Dal 2000, ad esempio:

• I Caraibi orientali hanno avuto un modesto aumento sia delle tempeste tropicali che delle Cat di grado più elevato rispetto alla maggior parte degli ultimi 170 anni;

• I Caraibi occidentali non sono stati affatto insoliti e sono stati ben al di sotto dei conteggi registrati durante il periodo 1880-1920;

• La regione Bahamas/Turks & Caicos dal 2000 è stata in realtà molto più debole rispetto al periodo 1930-1960 e 1880-1900.

La verità è che l'attività degli uragani atlantici è generata dalle condizioni della temperatura atmosferica e oceanica nell'Atlantico orientale e nel Nord Africa. Queste forze, a loro volta, sono fortemente influenzate dalla presenza di un El Niño o La Niña nell'Oceano Pacifico.

Gli eventi di El Niño aumentano il gradiente del vento sull'Atlantico, producendo un ambiente meno favorevole per la formazione di uragani e diminuendo l'attività delle tempeste tropicali nel bacino atlantico. Al contrario, La Niña provoca un aumento dell'attività degli uragani a causa della diminuzione del gradiente del vento.

Questi eventi nell'Oceano Pacifico, ovviamente, non sono mai stati correlati al basso livello dell'attuale riscaldamento globale naturale.

Il numero e la forza degli uragani atlantici possono anche subire un ciclo di 50-70 anni noto come oscillazione multidecennale atlantica. Ancora una volta, questi cicli non sono correlati alle tendenze di un riscaldamento globale sin dal 1850.

Tuttavia gli scienziati hanno ricostruito l'attività dei principali uragani dell'Atlantico all'inizio del diciottesimo secolo (≈1700) e hanno trovato cinque periodi con una media di 3-5 grandi uragani all'anno e della durata di 40-60 anni ciascuno; e altri sei periodi con una media di 1,5–2,5 grandi uragani all'anno e della durata di 10–20 anni ciascuno. Questi periodi sono associati a un'oscillazione decennale correlata  all'irraggiamento solare, responsabile dell'aumento/smorzamento del numero di grandi uragani di 1–2 all'anno e chiaramente non è un prodotto del riscaldamento globale antropogenico.

Inoltre, come in tutto il resto, anche le registrazioni a lunghissimo termine dell'attività temporalesca escludono il riscaldamento globale antropogenico, perché per la maggior parte degli ultimi 3.000 anni, ad esempio, l'essere umano non può esserne stato responsabile. Secondo un record proxy da un lago costiero a Cape Cod, l'attività degli uragani è aumentata in modo significativo negli ultimi 500-1.000 anni, molto prima dell'industrializzazione e della combustione di combustibili fossili, rispetto ai periodi precedenti.

In breve, non c'è motivo di credere che queste condizioni precursori ben note e le tendenze a lungo termine siano state influenzate dal modesto aumento delle temperature medie globali dalla fine della LIA (Piccola Era Glaciale) nel 1850.

Guarda caso, la stessa storia è vera per quanto riguarda gli incendi, la terza categoria di disastri naturali su cui si sono concentrati i Fanatici del Cilma, ma in questo caso è stata una cattiva gestione forestale, non il riscaldamento globale provocato dall'uomo, che ha trasformato gran parte della California in una discarica di legna secca.

E non credetemi sulla parola. Il seguente estratto viene da Pro Publica finanziata da George Soros, che non è esattamente un covo di complottisti di destra. Sottolinea che gli ambientalisti hanno talmente incatenato le agenzie federali e statali per quanto riguarda la gestione forestale che i piccoli "incendi controllati" di oggi non sono che una frazione infinitesimale di ciò che Madre Natura stessa realizzava prima che la mano delle autorità politiche arrivasse sulla scena:

Gli accademici ritengono che c'erano tra i 4,4 milioni e gli 11,8 milioni di acri bruciati ogni anno nella California preistorica. Tra il 1982 e il 1998 i gestori del territorio dell'agenzia della California hanno bruciato, in media, circa 30.000 acri all'anno; tra il 1999 e il 2017 quel numero è sceso a 13.000 acri all'anno. Lo stato ha approvato nuove leggi nel 2018, progettate per facilitare incendio intenzionali, ma pochi sono ottimisti che questo, da solo, porterà a cambiamenti significativi.

Ci portiamo dietro un arretrato mortale. Nel febbraio 2020 Nature Sustainability ha pubblicato questa terrificante conclusione: la California avrebbe bisogno di bruciare 20 milioni di acri – un'area delle dimensioni del Maine – per ristabilirsi in termini di incendi.

In breve, se non pulite e bruciate il legno morto, si accumula propellente naturale che poi richiede solo un fulmine, una scintilla da una linea elettrica non riparata o la negligenza umana per accendersi in un inferno di fiamme. Come ha riassunto un ambientalista con un'esperienza quarantennale nel settore:

[...] C'è solo una soluzione, quella che conosciamo ma che ancora evitiamo. Dobbiamo  fare un bel falò e ridurre parte di quel carico di carburante naturale.

Infatti un'impronta umana notevolmente più grande nelle aree arbustive soggette a incendi e nelle aree chaparral (alberi nani) lungo le coste, aumenta il rischio che i residenti possano appiccare incendi. La popolazione della California è quasi raddoppiata dal 1970 al 2020, da circa 20 milioni di persone a 39,5 milioni di persone, e quasi tutti nelle zone costiere.

In queste condizioni, i forti venti naturali della California, che si alzano periodicamente, sono i principali colpevoli che alimentano e diffondono le fiamme nelle terre arbustive. I venti di Diablo a nord e quelli di Santa Ana a sud possono raggiungere la forza di un uragano. Quando il vento si sposta a ovest sulle montagne della California e scende verso la costa, si comprime, si riscalda e s'intensifica. I venti alimentano le fiamme e trasportano braci, diffondendo rapidamente i fuochi prima che possano essere contenuti.

Tra le altre prove che l'industrializzazione e i combustibili fossili non sono i colpevoli c'è il fatto che i ricercatori hanno dimostrato che quando la California fu occupata dalle comunità indigene, gli incendi avrebbero bruciato circa 4,5 milioni di acri all'anno. È quasi 6 volte il periodo 2010-2019, quando gli incendi hanno bruciato una media di soli 775.000 acri all'anno in California.

Al di là dello scontro indesiderato di tutte queste forze naturali del clima con le politiche governative scellerate sull'ambiente, c'è in realtà una pistola ancora più fumante, per così dire.

I Fanatici del Clima non hanno ancora abbracciato l'assurdità che le temperature presumibilmente in aumento del pianeta abbiano preso di mira specificamente la California per punirla. Tuttavia, quando esaminiamo i dati da inizio anno fino ad agosto riguardo gli incendi boschivi, scopriamo che a differenza della California e dell'Oregon, gli Stati Uniti nel loro insieme stanno ora vivendo gli anni di incendio più deboli sin dal 2010.

Proprio così. Al 24 agosto di ogni anno, la proporzione decennale media degli incendi era di 5,114 milioni di acri negli Stati Uniti, ma nel 2020 era inferiore del 28% a 3,714 milioni di acri.

Dati nazionali sugli incendi dall'inizio di ogni anno

Infatti ciò che mostra la tabella qui sopra è che su base nazionale non c'è stato alcun peggioramento durante l'ultimo decennio, solo enormi oscillazioni di anno in anno alimentate non da qualche grande vettore di calore planetario ma dal cambiamento delle condizioni meteorologiche ed ecologiche locali.

Non si può semplicemente passare da 2,7 milioni di acri bruciati nel 2010 a 7,2 milioni di acri bruciati nel 2012 e poi tornare a 3,9 milioni di acri bruciati nel 2019 e 3,7 milioni di acri nel 2020 e sostenere, insieme ai Fanatici del Clima, che il pianeta è arrabbiato.

Al contrario, l'unica vera tendenza evidente è che su base decennale negli ultimi tempi la superficie media degli incendi boschivi in ​​California è aumentata lentamente, a causa del triste fallimento sopra descritto delle politiche governative di gestione forestale. Ma anche la tendenza media della superficie incendiata in lieve aumento sin dal 1950 è un errore di arrotondamento rispetto alle medie annuali della preistoria: quasi 6 volte maggiori rispetto al decennio più recente.

Inoltre la tendenza in lieve aumento sin dal 1950, come mostrato di seguito, non deve essere confusa con l'affermazione fasulla dei Fanatici del Clima secondo cui gli incendi della California "sono diventati più apocalittici ogni anno", come riportato dal New York Times.

Infatti significa mettere a confronto gli incendi sopra la media del 2020 con il 2019, anno che ha visto una quantità insolitamente piccola di superficie bruciata: appena 280.000 acri rispetto ai 1,3 milioni e 1,6 milioni nel 2017 e nel 2018, rispettivamente, e 775.000 in media nell'ultimo decennio.

Né questa mancanza di correlazione con il riscaldamento globale è solo un fenomeno della California e degli Stati Uniti. Come mostrato nel grafico qui sotto, l'entità globale della siccità, misurata da cinque livelli di gravità di cui il marrone è il più estremo, non ha mostrato alcuna tendenza al peggioramento negli ultimi 40 anni.

Questo ci porta al cuore del problema. Non c'è alcuna crisi climatica, ma la bufala del riscaldamento globale ha contaminato così tanto la narrativa mainstream e l'apparato politico a Washington, e nelle capitali di tutto il mondo, che la società contemporanea si sta preparando a commettere un seppuku economico.

In contraddizione con la tesi fasulla secondo cui l'aumento dell'uso dei combustibili fossili dopo il 1850 ha causato lo scollamento del sistema climatico planetario, c'è stata invece una massiccia accelerazione della crescita economica globale e del benessere umano. E un elemento essenziale dietro questo salutare sviluppo è stato il massiccio aumento dell'uso dei combustibili fossili a basso costo per alimentare la vita economica.

Il grafico qui sotto non potrebbe essere più chiarificatore. Durante l'era preindustriale tra il 1500 e il 1870, il PIL reale mondiale aumentava ad appena lo 0,41% annuo. Al contrario, negli ultimi 150 anni dell'era dei combustibili fossili la crescita del PIL globale è accelerata al 2,82% annuo, o quasi 7 volte più velocemente.

Questa maggiore crescita, ovviamente, è in parte il risultato di una popolazione mondiale più grande e molto più sana resa possibile dall'aumento del tenore di vita.

Non sono stati solo i muscoli umani a far diventare parabolico il livello del PIL, ma soprattutto la fantastica mobilitazione del capitale intellettuale e della tecnologia.

E uno dei vettori più importanti di quest'ultima è stata l'ingegnosità dell'industria dei combustibili fossili nello sbloccare l'enorme tesoro di lavoro immagazzinato che Madre Natura aveva condensato durante i lunghi eoni più caldi e umidi dei precedenti 600 milioni di anni.

Inutile dire che la curva del consumo energetico mondiale corrisponde strettamente all'aumento del PIL mondiale mostrato sopra.

Nel 1860 il consumo mondiale di energia ammontava a 30 exajoule all'anno e praticamente il 100% era rappresentato dallo strato blu etichettato come "biocarburanti", che è solo un sostantivo educato per il legno e la decimazione delle foreste che esso comportava.

Da allora il consumo energetico annuo è aumentato di 18 volte a 550 exajoule (≈100 miliardi di barili di petrolio equivalenti), ma il 90% di tale aumento è stato dovuto a gas naturale, carbone e petrolio. Il mondo moderno e la prospera economia mondiale non esisterebbero senza il massiccio aumento dell'uso di questi combustibili efficienti, il che significa che il reddito pro capite e il tenore di vita sarebbero altrimenti solo una piccola frazione dei livelli attuali.

Sì, quell'aumento della prosperità che genera il consumo di combustibili fossili ha dato origine a un aumento proporzionato delle emissioni di CO2. Ma contrariamente alla narrativa sui cambiamenti climatici, la CO2 non è affatto un inquinante!

Come abbiamo visto, l'aumento correlato delle concentrazioni di CO2, da circa 290 ppm a 415 ppm sin dal 1850, equivale a un errore di arrotondamento sia nel lungo trend storico che in termini di carichi atmosferici da fonti naturali.

Per quanto riguarda il primo, le concentrazioni inferiori a 1000 ppm sono solo sviluppi recenti dell'ultima era glaciale, mentre durante le precedenti ere geologiche le concentrazioni raggiungevano fino a 2400 ppm.

Allo stesso modo, gli oceani contengono circa 37.400 miliardi di tonnellate di anidride carbonica sospesa, la biomassa terrestre ne ha 2.000-3.000 miliardi di tonnellate e l'atmosfera contiene 720 miliardi di tonnellate di CO2, o 20 volte più delle attuali emissioni fossili mostrate di seguito.

Naturalmente il lato opposto dell'equazione è che gli oceani, la terra e l'atmosfera si scambiano continuamente CO2, quindi i carichi incrementali dalle fonti umane sono molto piccoli.

Ancora più importante, anche un piccolo cambiamento nell'equilibrio tra oceani e aria causerebbe un aumento/riduzione delle concentrazioni di CO2 molto più grave di qualsiasi altra cosa attribuibile all'attività umana.

Ma dal momento che i Fanatici del Clima postulano falsamente che il livello preindustriale di 290 parti per milione esistesse sin dal Big Bang e che il modesto aumento sin dal 1850 sia un biglietto di sola andata per far bollire vivo il pianeta, sono ossessionati dall'equilibrio nel ciclo dell'anidride carbonica senza alcun motivo valido a supporto.

In realtà il bilanciamento dinamico dell'anidride carbonica da parte del pianeta, in qualsiasi periodo di tempo ragionevole, equivale a un gigantesco dito medio nei confronti dei Fanatici del Cilma.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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