giovedì 24 febbraio 2022

L'economia della Turchia è in grossi guai

 

 

di Joseph Solis-Mullen

Nel corso degli anni gli osservatori della politica turca si sono in qualche modo abituati alle oscillazioni irregolari nelle linee di politica di Ankara. Soprattutto dopo le riforme del 2017, il suo alto grado di controllo sulle funzioni primarie dello stato significa che il presidente Recep Tayyip Erdoğan deve affrontare pochi ostacoli per eseguire cambiamenti bruschi che considera corretti o necessari. Questa mancanza di un effettivo controllo istituzionale sulla sua autorità sta, attualmente, portando il Paese giù da un dirupo economico.

Già dal 2018 il Paese era in una crisi multifrontaliera. Caratterizzata da stagnazione, disoccupazione, forti oscillazioni del prezzo della lira, inflazione in aumento, bilancia commerciale in calo, oneri finanziari crescenti ed un aumento delle insolvenze aziendali, l'attuale interferenza di Erdoğan con la banca centrale invita a far esplodere l'intera faccenda in un catastrofe monumentale. Mentre i confronti con l'iperinflazione che ha sopraffatto Weimar in Germania sono spesso iperbolici, il pericolo in Turchia è reale.

L'insistenza di Erdoğan sul fatto che tassi più alti della banca centrale portino ad un'inflazione più alta, l'esatto opposto dell'ortodossia economica, ha portato la banca centrale turca a tagliare i tassi quattro volte in altrettanti mesi, anche se l'inflazione ha continuato a salire. Come mostrato nel grafico qui sotto, gli investitori globali sono fuggiti dalla lira, così come molti in Turchia, con il valore della valuta turca in forte calo.

L'apparente rianimazione della lira dopo l'annuncio di metà dicembre da parte di Erdoğan di un piano per proteggere i depositi in lire è un'illusione. Mentre consumatori e imprese hanno ridepositato circa ₺3 miliardi nelle banche turche, il vero rinvigorimento della lira è arrivato grazie alla banca centrale turca, che attraverso attività di mercato aperto e tramite banche statali si è impegnata in acquisti per oltre $7 miliardi in appena due giorni. Come tutte le crisi monetarie, quindi, la banca centrale sta svuotando le sue riserve estere per sostenere il prezzo della lira. Quando questo sostegno si rompe, come alla fine quasi sempre accade, nessuno sa dove andrà a finire la lira. Per parafrasare Ernest Hemingway, il processo sarà graduale e poi improvviso.

Sul piano interno, Erdoğan ha cercato di definire la serie di crisi come il risultato di dazi esteri ostili, come quelli emanati dagli Stati Uniti nel 2018, e la perfidia di una cabala bancaria globalista. Resta da vedere se sarà in grado di convincere o meno la classe media (ancora) numerosa e istruita della Turchia, e questo lo vedremo quando voteranno per le prossime elezioni nel 2023. Le prime indicazioni non sembrano promettenti. Nel 2019 il suo partito, l'AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, o Partito della giustizia e dello sviluppo), ha subito le peggiori sconfitte elettorali da quando prese il timone nel 2003, perdendo il controllo locale su Istanbul ed Ankara.

La coalizione elettorale di Erdoğan è cambiata gradualmente nel corso dei suoi due decenni al potere; tuttavia l'AKP ha sempre tratto il suo sostegno primario dai musulmani ortodossi, dalle comunità rurali e dai poveri (infatti tra le sue argomentazioni per abbassare i tassi d'interesse, di recente ha citato il divieto coranico all'usura). Inizialmente in servizio come primo ministro, Erdoğan ha supervisionato un'espansione dell'economia e dello stato sociale della Turchia, rendendo lui e l'AKP comprensibilmente popolari. Tuttavia la crescita dell'economia è stata sbilanciata: i disavanzi ampi e persistenti sono diventati la norma man mano che la spesa pubblica è cresciuta e la dipendenza dai mercati del credito globali è aumentata. In particolare durante il secondo decennio del suo mandato, quando i suoi piani di riforma si bloccarono e le sue disavventure in politica estera aumentarono, clientelismo e corruzione sono diventati sempre più pervasivi; così anche il perseguimento di coloro ritenuti ostili al regime. Fortemente dipendente da sussidi statali sempre più inaccessibili, l'ulteriore crollo della lira renderà proibitivi i necessari input importati richiesti dall'economia turca. Nonostante le speranze di Erdoğan, la bilancia commerciale turca calerà ulteriormente nonostante la svalutazione della lira, poiché la paralisi della sua economia a causa dell'inflazione creata dalle sue continue ingerenze farà crollare la capacità produttiva del settore privato e pubblico. Seguirà poi una disoccupazione di massa.

Dieci anni fa molti esperti di previsioni geopolitiche e geoeconomiche avevano intuito che Ankara sarebbe diventata la potenza dominante della regione ed un attore di importanza mondiale. Con la leva della sua geografia e l'appartenenza all'Organizzazione del Trattato del Nord America, aveva un alto grado di flessibilità strategica grazie ad un'economia in crescita ed una popolazione relativamente giovane e istruita. Quella popolazione si aspettava grandi cose ed è stata sempre più delusa.

Se Erdoğan continuerà su questa strada, lui e l'AKP potrebbero non arrivare alle elezioni del 2023. Indipendentemente dal fatto che il tentativo di colpo di stato del 2016 che Erdoğan afferma di aver respinto fosse legittimo o artificioso, trincerato nel suo palazzo dalle mille stanze, e costruito per un costo di diverse centinaia di milioni di dollari, è opinabile se un esercito sempre più pagato con denaro senza valore sarà disposto a respingere, o addirittura ad abbattere, i suoi connazionali nel tentativo di rovesciare un regime sempre più impopolare.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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