giovedì 30 settembre 2021

Cosa non è l'individualismo

 

 

di Frank Chodorov

Adesso sull’etichetta della bottiglia c’è scritto “libertarismo”. Il contenuto, però, è qualcosa che conosciamo molto bene: risponde a ciò che nel XIX secolo, e fino all’epoca di Franklin Roosevelt, era chiamato liberalismo — la difesa di limiti rigorosi al governo e della libera economia. (Se ci pensate, noterete ridondanza in questa formula, in quanto un governo con poteri limitati avrebbe poche possibilità d’interferire nell’economia.) I liberali furono derubati del loro nome tradizionale da socialisti e quasi socialisti, la cui avidità per i termini prestigiosi non conosce limiti. Quindi, forzati a cercare una diversa etichetta distintiva per la loro filosofia, adottarono il termine libertarismo — non male, sebbene in qualche modo ostico alla lingua.

Avrebbero forse potuto far meglio adottando il più antico ed eloquente nome d’individualismo, ma lo scartarono perché anch’esso era stato più che infangato dagli oppositori…

Il getto di fango era cominciato molto tempo fa, ma l’orgia più recente e conosciuta avvenne nella prima parte del secolo, quando i fanatici dello stato messianico affibbiarono all’individualismo un aggettivo impregnato di giudizio — estremo. Il termine in sé non ha contenuto morale; riferito ad una montagna è puramente descrittivo, riferito ad un atleta ha una connotazione positiva. Nello stile letterario di quei fanatici, però, denotava quello che in linguaggio comune rappresenterebbe un comportamento losco. Questa connotazione non ha nulla a che fare con la filosofia più di quanto abbia ogni forma di comportamento indecente. Quindi, “l’individualista estremo” era il tipo che minacciava il pignoramento della vecchia proprietà di famiglia se la fanciulla graziosa rifiutava la sua mano; oppure era lo speculatore che usava il mercato borsistico per derubare “vedove e orfani”; o, ancora, era il pirata grasso e florido che copriva di diamanti la sua amante. Era, in breve, un tipo la cui coscienza non metteva ostacoli alla sua inclinazione ad afferrare ogni dollaro, che non riconosceva alcun codice etico che potesse tenere a freno i suoi appetiti. Se c’è qualche differenza tra un ladro ordinario e un “individualista estremo”, è il fatto che il secondo quasi sempre si mantiene entro i limiti della legge, anche se deve riscrivere la legge per farlo…

“L’individualismo estremo” fu una mera espressione propagandistica: utilissima nel portare il fervore legato al motto “spenniamo i ricchi” al punto di ebollizione.

L’espressione si diffuse in un’epoca in cui la mania di livellamento stava costruendo la sua strada nella tradizione americana, prima che il governo, usando appieno il nuovo potere acquisito con la legge della imposta sul reddito, afferrasse l’individuo per la gola e ne facesse un uomo di massa. È un fatto bizzarro che i socialisti siano ben in accordo con gli “individualisti estremi” nel promuovere l’uso della forza politica per ottenere il proprio “bene”; la differenza tra loro sta solo nel determinare le occorrenze, o gli assegnatari, del “bene” fornito dallo stato. È dubbio che i “baroni” (un sinonimo di individualista estremo) abbiano mai usato lo stato, prima della imposta sul reddito, con qualcosa che si avvicinasse al successo dei socialisti. Comunque sia, lo stigma “dell’estremismo” attecchì, cosicché gli “intellettuali” collettivisti, che non dovrebbero essere così ingenui, ignorano la differenza tra furto e individualismo.


Le parole diffamatorie originali

La denigrazione dell’individualismo, inoltre, aveva avuto una buona partenza prima dell’era moderna. I diffamatori originali non erano socialisti ma solidi difensori dello status quo, i paladini dei privilegi speciali, i mercantilisti del XIX secolo. La loro contrarietà scaturiva in parte dal fatto che l’individualismo pendeva pesantemente verso la fiorente dottrina del libero mercato, dell’economia del laissez-faire, e per questo poneva una minaccia alla loro posizione prediletta. Allora cercarono nell’antico sacco della semantica al fine di ricavarne due aggettivi infanganti: egoista e materialista; proprio come i socialisti più tardi, non avevano rimorsi nel distorcere la verità per adattarla alle loro tesi.

La teoria del laissez-faire – in breve, un’economia libera dagli interventi e dalle sovvenzioni politiche — sostiene che l’istinto dell’interesse personale è il fattore motivante dello sforzo produttivo. Niente è prodotto se non dal lavoro umano, e il lavoro stesso rappresenta qualcosa a cui l’essere umano concede molta parsimonia: se potesse soddisfare i suoi desideri senza sforzo, eviterebbe quest’ultimo molto volentieri. Questo è il motivo per cui inventa dispositivi che fanno risparmiare lavoro. Tuttavia, egli è „congegnato“ in maniera tale per cui ogni gratificazione dà origine a nuovi desideri, ch’egli procede a soddisfare investendo il lavoro risparmiato. È insaziabile. La capanna fatta di tronchi, abitazione sufficiente nella terra selvaggia, sembra decisamente inadeguata non appena il pioniere accumula un’eccedenza di beni di prima necessità; allora comincia a sognare di tende e quadri, acqua corrente, una scuola o una chiesa, per non dire del baseball o di Beethoven. L’interesse personale prevale sull’avversione al lavoro: il costante impulso a migliorare le proprie circostanze e allargare i propri orizzonti…

È nel libero mercato che l’interesse personale trova la sua migliore espressione; questo è un punto cardine dell’individualismo. Se il mercato viene regolarmente saccheggiato, da ladri o dal governo, e la sicurezza della proprietà viene compromessa, l’individuo perde interesse nella produzione, per cui si riduce l’abbondanza delle cose create. Ne consegue che per il bene della società, l’interesse personale nella sfera economica deve procedere libero e senza impedimenti.

Invero, l’interesse personale non coincide con l‘egoismo. L’interesse personale stimolerà il produttore a migliorare i suoi prodotti in modo da favorire il commercio, mentre l’egoismo lo indurrà a cercare i privilegi speciali e il favore dello stato, finendo per distruggere proprio il sistema di libertà economica dal quale egli dipende. Il lavoratore che cerca di migliorare il suo destino attraverso un perfezionamento delle sue capacità, difficilmente può essere chiamato egoista; questo termine si addice piuttosto al lavoratore che pretende di essere pagato per non lavorare. Il cercatore di sussidi è egoista, così come lo è qualsiasi cittadino che usa la legge per arricchirsi a spese degli altri cittadini.


Il libero mercato

Vi è poi l’accusa di “materialismo”. Il laissez-faire, naturalmente, ha dalla sua l’argomento dell’abbondanza; se la gente vuole molte cose, il modo di ottenerle passa attraverso la libertà di produzione e di scambio;  da questo punto di vista, potrebbe essere definito “materialistico”. Però l’economista a favore del laissez-faire, in quanto economista, non discute né giudica i desideri degli uomini; non ha alcuna opinione su quali dovrebbero essere le loro aspirazioni. Che preferiscano la cultura ai gadget, o che attribuiscano maggior valore all’ostentazione rispetto alle cose spirituali, non è oggetto del loro studio; il libero mercato è meccanicistico e amorale. Se la preferenza di qualcuno è per il tempo libero, per esempio, è attraverso l’abbondanza che il suo desiderio può essere soddisfatto al meglio; infatti l’abbondanza delle cose le rende più economiche, più facili da ottenere, quindi diventa possibile concedersi d’indulgere in vacanze. Un concerto è probabilmente meglio apprezzato da un esteta ben nutrito che da uno affamato. Comunque sia, l’economista rifiuta di giudicare le predilezioni degli uomini; qualsiasi cosa vogliano, ne otterranno di più da un libero mercato che da un mercato che funziona sotto il comando di poliziotti.

Tuttavia, i critici del XIX secolo ignoravano allegramente questo punto; persino i socialisti moderni lo ignorano, insistendo nel collegare contenuto morale alla libera economia…

In realtà — mentre il libero mercato in se stesso è un meccanismo neutro rispetto ai valori espressi dai desideri degli uomini — la teoria del libero mercato si basa sulla tacita accettazione di un concetto puramente spirituale, e cioè: l’uomo è dotato della capacità di fare scelte, per libera volontà. Se non fosse per questo tratto puramente umano, non ci sarebbero mercati, la vita umana sarebbe analoga a quella degli uccelli e delle bestie. L’economista promuovente il laissez-faire cerca di soprassedere questo punto filosofico e teologico; nondimeno, se pressato a sufficienza, deve ammettere che la sua tesi è basata sull’assioma della libera volontà, nonostante egli possa chiamarlo in un altro modo. Tale assioma non è materialistico; ogni discussione al riguardo conduce ineluttabilmente a dover considerare l’anima.

Per contrasto, sono i socialisti (di qualsiasi sottospecie) che devono iniziare la loro tesi con il rifiuto dell’idea di libera volontà. La loro teoria richiede di descrivere l’individuo come puramente materialistico. Ciò che viene chiamata libera volontà, secondo loro, è un gruppo di riflessi derivanti dal condizionamento ambientale…


“Edonismo”

Tornando alla diffamazione dell’individualismo, un’altra parola carica di giudizio morale scagliata contro di esso, in passato e ancora adesso, è edonismo. Questa etichetta deriva dal fatto che un certo numero di individualisti auto-definitesi tali, discepoli di Adam Smith, si associarono ad un credo etico noto come utilitarismo: i più famosi furono Jeremy Bentham, James Mill e John Stuart Mill. Il principio base di questo credo postula che per costituzione l’uomo sia spinto ad evitare il dolore e ricercare il piacere. Quindi, nella natura delle cose, l’unica condotta moralmente buona è quella che favorisce questa ricerca. Sorge però un problema di definizione, dal momento che quel che può essere piacere per un filosofo può essere dolore per l’imbecille. Bentham, fondatore della scuola, interessato più alla legislazione che alla filosofia, risolvette il problema redigendo un calcolo grossolano del piacere; poi enunciò un principio legislativo basato su di esso: è moralmente buono ciò che produce il maggiore bene per il maggior numero di persone.

Provenendo da un oppositore dichiarato dei privilegi e da un sostenitore dei limiti al potere del governo, questa dottrina di “fare del bene” è una strana anomalia. Se la misura morale della legislazione è il maggior bene per il maggior numero, ne consegue che il bene della minoranza, ancor più una minoranza di una sola persona, è immorale. Questo proprio non si accorda con il principio di base dell’individualismo per il quale l’uomo è dotato di diritti con i quali la maggioranza non può interferire…


I punti cardine dell’individualismo

Metafisicamente, l’individualismo sostiene che la persona è unica, non è un campione della massa, dovendo la sua peculiare composizione e la sua lealtà al Creatore, non al suo ambiente. A ragione dell’origine della sua esistenza, egli è dotato di diritti inalienabili, che è dovere di tutti gli altri rispettare, come è suo dovere rispettare i loro; questi diritti sono la vita, la libertà e la proprietà. In accordo a tale premessa, la società non ha alcun permesso di invadere questi diritti, nemmeno sotto il pretesto di migliorare le sue circostanze di vita; il governo non può fornirgli altro servizio se non quello di proteggerlo dagli altri nell’esercizio di questi diritti. Nel campo dell’economia (del quale i libertari si preoccupano giustamente perché è qui che lo stato comincia le sue infrazioni), il governo non ha competenza; il meglio che può fare è mantenere una condizione di ordine, in modo che l’individuo possa portare avanti le sue attività con la sicurezza che potrà tenere ciò che produce. Questo è tutto.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


mercoledì 29 settembre 2021

Quattro motivi per cui la prossima recessione sarà peggiore di quella precedente

 

 

di Jon Wolfenbarger

Con il mercato azionario ai massimi storici e la liquidità apparentemente infinita fornita dalla FED, l'ultima cosa che la maggior parte delle persone può immaginare in questo momento è una grave recessione, in particolare quella che sarà la peggiore sin dalla Grande Depressione degli anni '30!

Ma i fatti che descriveremo in dettaglio in questo articolo mostrano che ciò è del tutto possibile. Questa è una dichiarazione straordinaria, ma stiamo vivendo tempi straordinari!

Ecco i quattro motivi principali per ritenere che la prossima recessione potrebbe essere peggiore della Grande Recessione del 2008-09, il che la renderebbe la peggiore dagli anni '30.


Motivo n°1: valutazioni degli asset estremamente elevate

Gli investitori informati sanno che attualmente siamo in un mercato in cui "tutto è in bolla", schema alimentato dalla creazione massiccia e persistente di denaro da parte del sistema bancario centrale.

Ad esempio, la misura di valutazione preferita di Warren Buffett, e quella che meglio prevede i rendimenti del mercato azionario a lungo termine, è il rapporto tra capitalizzazione di borsa e PIL, mostrato di seguito. Sulla base di questa misura, le azioni vengono trattate al 30% in più rispetto al precedente massimo storico durante il picco della bolla tecnologica nel 2000! Il valore delle azioni dovrebbe scendere di oltre il 60% affinché questo rapporto ritorni ai livelli raggiunti al bottom del mercato azionario nel marzo 2009.

Anche gli immobili sono costosi. Come mostrato nel grafico sottostante dell'indice S&P/Case-Shiller 20-City Home Price, i prezzi delle case sono attualmente del 27% più alti di quanto non fossero al picco della bolla immobiliare nel 2006!


Motivo n°2: fondamenti economici deboli

L'economia statunitense non è così forte come una volta. Questo è certamente vero sulla scia dell'epidemia Covid, ma era un trend già in atto negli ultimi due decenni. Tutte le tasse, i regolamenti e gli altri interventi dello stato nell'economia negli ultimi decenni hanno creato un'economia più debole e fragile che peggiorerà ulteriormente durante la prossima recessione.

Il grafico qui sotto, raffigurante la produzione industriale, mostra che è solo l'8% più alta rispetto al picco del 2000 e l'1% in meno rispetto al picco del 2007. Si è quasi appiattita negli ultimi due decenni. Molto più debole della crescita annuale del 3,9% dal 1920 al 2000.

L'occupazione totale non agricola, mostrata di seguito, è cresciuta a un tasso annuo del 2,5% dal 1940 al 2000. Analogamente alla produzione industriale, l'occupazione non agricola è quasi rimasta stabile negli ultimi due decenni. È aumentata solo del 10% dal picco del 2000 e solo del 6% dal picco del 2007. Purtroppo è ancora quasi il 4% al di sotto del picco di febbraio 2020.

 

Motivo n°3: livelli di debito spropositati

Il grafico seguente mostra che il rapporto debito/PIL totale degli Stati Uniti è vicino ai massimi storici a 3,8 (o 380%), persino più alto dei livelli precedenti durante la Grande Recessione. Anche il debito globale rispetto al PIL è a livelli record, oltre il 300%, così come il debito federale statunitense rispetto al PIL, al 125%.

L'eccesso di debito è stato il problema di ogni crisi finanziaria nella storia a causa della precedente creazione di denaro dal nulla, quindi la prossima promette di finire sui libri di storia, dati questi livelli di debito elevati e senza precedenti. La liquidazione del debito e le insolvenze porteranno ad un deleveraging, come abbiamo visto nella Grande Recessione e ancora di più nella Grande Depressione.


Motivo n°4: opzioni di politica monetaria limitate

Il motivo principale per la crescita economica negli ultimi dodici anni sin dalla fine della Grande Recessione è stata la liquidità fornita in quantità apparentemente infinite dalla Federal Reserve. È quasi come se il denaro crescesse davvero sugli alberi!

Ma il denaro creato dal nulla non genera nuovi beni e servizi che migliorano gli standard di vita. Se lo facesse, un posto come lo Zimbabwe sarebbe il Paese più ricco del mondo. Tuttavia il denaro fiat può fluire in asset finanziari, il che aiuta a spiegare perché i loro livelli di valutazione sono così alti.

Il grafico seguente mostra l'offerta di denaro "Austriaca" (AMS), la migliore misura dell'offerta di denaro che è coerente con questa definizione della Scuola Austriaca di economia (sebbene non includa più i traveller's cheque, che sono stati sospesi nel database della FED a causa dell'uso limitato in questi giorni). L'AMS è salita del 40% da febbraio 2020 ed è salita di un sorprendente 225% da quando la Grande Recessione si è conclusa nel giugno 2009!

Siamo ben al di sopra della crescita dell'offerta di denaro che ha alimentato i ruggenti anni '20 e alla fine portò alla Grande Depressione degli anni '30, come dettagliato nella storia definitiva di quel periodo dell'economista Murray N. Rothbard, America's Great Depression. In quel libro spiegò la causa del ciclo economico di boom/bust:

Il ciclo "boom/bust" è generato dall'intervento monetario sul mercato, in particolare dall'espansione del credito bancario alle imprese [...]. L'espansione del credito bancario mette in moto il ciclo economico in tutte le sue fasi: il boom inflazionistico, caratterizzato dall'espansione dell'offerta di denaro e da investimenti sbagliati; la crisi, che arriva quando cessa l'espansione del credito e si manifestano gli errori imprenditoriali; e la ripresa dalla depressione, il necessario processo di aggiustamento mediante il quale l'economia ritorna ai modi più efficienti di soddisfare i desideri dei consumatori.

Tutta questa creazione di denaro ha consentito alla FED di impostare il tasso sui fondi federali solo allo 0,1%, come mostrato di seguito. Sebbene questa cifra sia al di sopra dei tassi d'interesse negativi prevalenti in alcuni Paesi, non lascia molto spazio alla FED per tagliarli e cercare di prevenire una recessione, in particolare con l'inflazione a oltre il 5% ora. E come mostra il grafico, la FED ha tagliato i tassi durante le tre recessioni precedenti e non è stata in grado di fermarli, dal momento che l'economia è più grande della FED. Ciò lascia l'economia molto vulnerabile alla prossima recessione, senza "reti di sicurezza" per proteggerla.

Infine, per gli economisti keynesiani che credono ancora al dogma secondo cui i deficit di bilancio possono prevenire una recessione, nonostante nessuna prova o teoria logica a sostegno, l'attuale rapporto avanzo/disavanzo di bilancio in rapporto al PIL del -15% è il peggiore sin dalla seconda guerra mondiale, come mostrato di seguito. Dati i livelli record di debito pubblico e deficit, quanta spesa in disavanzo in più saranno disposti a finanziare gli investitori obbligazionari? E a cosa servirà, dal momento che i deficit non hanno impedito la Grande Recessione?


Conclusione

C'è molto di più che si potrebbe dire per dimostrare la nostra tesi, ma si spera che i fatti forniti in questo articolo siano sufficienti per consentire alle persone di comprendere i rischi attuali nell'economia. Sebbene i tempi esatti della prossima recessione siano sconosciuti, data la potenziale entità, ora è il momento per iniziare a prepararsi.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


martedì 28 settembre 2021

L'immunità naturale, più forte e robusta, elimina qualsiasi tesi a favore dei “lasciapassare vaccinali”

 

 

di Jon Sanders

Un crescente corpo di ricerca sta rendendo sempre più chiaro che l'immunità naturale al Covid-19, sulla scia di una precedente infezione, è più forte, più duratura e più ampia dell'immunità indotta dal vaccino. Oltre a non essere insolito tra le malattie infettive, questo fatto ha implicazioni significative per i piani statali, scolastici, dei datori di lavoro e aziendali che intendono molestare e limitare le persone che non sono vaccinate.

Ad esempio, il 4 giugno il medico ed economista della Stanford Medical School, Jay Bhattacharya, il biostatistico ed epidemiologo della Harvard Medical School, Martin Kulldorff, e l'epidemiologo dell'Università di Oxford, Sunetra Gupta, lo hanno riassunto in questo modo (incorporando diversi studi):

È ormai accertato che l'immunità naturale si sviluppa in seguito all'infezione da SARS-CoV-2 in modo analogo ad altri coronavirus. Anche se l'infezione naturale non può fornire l'immunità infezione di blocco permanente, offre sia immunità contro la malattia sia contro la versione grave e tale immunità è permanente. Tra i milioni che sono guariti dal COVID19, quasi nessuno s'è ammalato di nuovo.

Più di recente una nuova ricerca israeliana dimostra che una precedente infezione da Covid-19 offre un'immunità di gran lunga superiore rispetto alle vaccinazioni. Gazit et al. (medRxiv, pubblicato il 25 agosto 2021) hanno confrontato le persone vaccinate senza precedenti infezioni da Covid-19 con persone non vaccinate che erano guarite da precedenti infezioni. Abbinandoli in base ai periodi di infezione/vaccinazione per testare il loro tempo di "attivazione immunitaria" (16.125 persone in ciascun gruppo, ovvero 32.250 persone), hanno scoperto che i vaccinati avevano da sei a 13 volte più probabilità di ammalarsi rispetto a quelli con immunità naturale. Aggiustando i dati in base alle comorbidità, hanno scoperto che i vaccinati avevano 27 volte più probabilità di sviluppare infezioni sintomatiche inaspettate rispetto a coloro con immunità naturale.

Inoltre per le persone precedentemente infettate la vaccinazione potrebbe essere dannosa a causa della loro risposta immunitaria. Camara et al. (bioRxiv, pubblicato il 22 marzo 2021) hanno scoperto che "gli individui guariti da COVID-19 non ottengono alcun beneficio dalla vaccinazione. Al contrario, negli individui con un'immunità preesistente contro SARS-CoV-2, il secondo vaccino non solo non riesce a potenziare l'immunità umorale, ma determina una risposta auto-immune delle cellule T stimolata dalla proteina spike". Per chi è stato già contagiato, quindi, c'è motivo di ritenere che il vaccino non comporti benefici, ma solo costi.

Il professore di legge della George Mason, Todd Zywicki, aveva diverse ragioni convincenti per opporsi all'obbligo di vaccinazione emanato dalla sua università. Come si evince dalla lettera del 21 luglio a suo nome dalla New Civil Liberties Alliance, Zywicki era stato precedentemente infettato, ha offerto una ricerca sostanziale che attestava che l'immunità al Covid-19 dei guariti era "più robusta e duratura di quella ottenuta attraverso la vaccinazione", ha offerto prove per essere timoroso delle reazioni avverse data la sua esperienza con l'herpes zoster, ed era anche preoccupato che tutti gli studi sui vaccini avessero specificamente escluso i guariti dal Covid, citando uno studio in cui i ricercatori hanno affermato “non possiamo escludere la possibilità che la vaccinazione di un numero crescente di [individui] con immunità preesistente al SARS-Cov-2 possa innescare reazioni infiammatorie e trombotiche inaspettatamente intense in pazienti precedentemente immunizzati e soggetti predisposti” (Angeli et al., European Journal of Internal Medicine, giugno 2021).

Non ci sarebbe bisogno di dirlo, ma a quanto pare in questo periodo storico bisogna sottolineare anche l'ovvio: tale ricerca e discussione non intendono in alcun modo sconsigliare la vaccinazione, che dovrebbe essere una decisione personale basata su una valutazione spassionata dei vantaggi e dei costi personali senza coercizione. Né si vuole sostenere di contrarre deliberatamente un'infezione.

Questi risultati sono in netto contrasto con la tesi dei "lasciapassare vaccinali", l'eufemismo per rendere sub-umani chiunque non si sia vaccinato contro il Covid-19. Joe Biden ha parlato di vietare i viaggi interstatali ai non vaccinati. Le università stanno aspettando di incassare gli assegni delle tasse scolastiche prima di imporre obblighi di vaccinazione. Gli ospedali, le strutture sanitarie, fino alle strutture di riabilitazione, stanno negando i servizi di assistenza medica ai non vaccinati. I governi locali, le scuole, gli ospedali e alcune aziende – spinti da politici, saccenti nella sanità pubblica e media terroristi – stanno minacciando il lavoro stesso dei non vaccinati. Anche ristoranti, luoghi di intrattenimento e altri stanno negando i loro servizi ai non vaccinati.

Ancora e ancora, questi editti tirannici non tengono conto delle persone con un'immunità naturale. Non dovrebbe essere compito dei governanti prendersi cura e promuovere la salute pubblica? La loro difesa, dopotutto, è che stanno cercando di fare pressione sulle persone affinché facciano ciò che è bene per loro; ad esempio, la Casa Bianca considera l'obbligo di vaccinazione "la leva giusta al momento giusto". Quanta buona fede si può attribuire ad un comportamento così inutile ed insensibile? Le persone allontanate dalle scuole, le persone a cui sono state negate le cure mediche, le persone allontanate dai loro ristoranti preferiti, le persone a cui è stato vietato di fuggire in uno stato più libero, ecc. Tutte queste persone senza un lasciapassare vaccinale potrebbero benissimo avere una risposta immunitaria più forte contro il virus rispetto a chi li possiede invece.

Oh, ma la risposta è che, a differenza dei vaccinati, è difficile sapere chi è guarito da una precedente infezione. Giusto, e questo fatto indebolisce anche la tesi dei "lasciapassare vaccinali". Lasciate che vi spieghi come.

Il Center for Disease Control and Prevention stima che solo 1 su 4.2 infezioni da Covid-19 sono segnalate negli Stati Uniti. Questa stima ha senso se si considera, ad esempio, un membro positivo di una famiglia di quattro, mentre anche gli altri in casa si sentono male; o anche tante infezioni lievi o asintomatiche che non richiederebbero la visita di un medico (questi sono, per inciso, segni di "una risposta immunitaria virus-specifica altamente funzionale", per Le Bert et al., Journal of Experimental Medicine, 1 marzo 2021).

Al momento della stesura di questo articolo, ci sono stati quasi 39.280.000 casi (cioè infezioni segnalate) e quasi 639.000 decessi. Moltiplicare il conteggio dei casi per 4,2 e quindi sottraete i decessi, il che implica che ci sono circa 164,3 milioni di persone con una robusta immunità naturale. Questa è già quasi la metà della popolazione negli Stati Uniti (332,7 milioni secondo le stime dell'Ufficio censimento degli Stati Uniti al momento della stesura di questo articolo).

Senza tenere conto della vaccinazione, quindi, circa la metà della popolazione degli Stati Uniti ha già un'immunità al Covid-19 che è più forte, più duratura e più ampia di qualsiasi vaccino. Solo circa un quarto di loro, tuttavia, sarebbe in grado di “dimostrarlo” con la documentazione di caso segnalato.

Quindi sì, è "difficile sapere" chi ha già l'immunità naturale. Tale incertezza, tuttavia, prende di mira metà del Paese quando si tratta di negare loro la comune decenza umana ed i privilegi mondani di viaggiare, frequentare l'università, ricevere cure mediche, usufruire dei servizi pubblici, cenare fuori, o persino fare la spesa.

Tali atti sono fatti con la presunzione che non ci siano buone ragioni per non farsi vaccinare. Certo, ci sono diversi buoni motivi per scegliere la vaccinazione, soprattutto se si fa parte di gruppi vulnerabili come gli anziani e le persone con malattie croniche. Ma come ha mostrato Zywicki, ci sono anche buone e convincenti ragioni per cui qualcuno potrebbe decidere di non farla.

Come hanno scritto Kulldorff e Bhattacharya sul Wall Street Journal il 6 aprile:

L'idea che tutti debbano essere vaccinati è scientificamente infondata quanto l'idea che nessuno lo faccia. I vaccini Covid sono essenziali per le persone anziane e ad alto rischio. Ma quelli che sono stati infettati sono già immuni. I giovani sono a basso rischio ed i bambini, per i quali nessun vaccino è stato comunque approvato, corrono un rischio di morte molto inferiore rispetto addirittura all'influenza. Se le autorità impongono la vaccinazione di coloro che non ne hanno bisogno, la popolazione inizierà a mettere in discussione i vaccini in generale [...].

I lasciapassare vaccinali sono ingiusti e discriminatori. La maggior parte di coloro che sostengono tale idea appartengono alla classe alta: professionisti privilegiati che hanno lavorato comodamente a casa durante l'epidemia. Milioni di americani hanno svolto lavori essenziali nei loro soliti luoghi di lavoro e sono diventati immuni nel modo più duro. Ora sarebbero costretti a rischiare reazioni avverse da un vaccino di cui non hanno bisogno. I lasciapassare invoglierebbero i giovani professionisti a basso rischio, in Occidente e nei Paesi in via di sviluppo, a farsi vaccinare prima dei membri della società più anziani, ad alto rischio ma meno abbienti. Ne deriverebbero molte morti inutili.

La risposta giusta in questi tempi incerti è – come sempre – la risposta che tutela la libertà delle persone e ne rispetta l'autonomia. Combattete contro i "lasciapassare vaccinali" ed obblighi simili che vietano alle persone di godere di tutti i privilegi di cui godevano prima del marzo 2020. Resistete alla tentazione di caricare di un fardello inutile i vostri dipendenti, studenti, pazienti e clienti. Anche presi per i propri meriti, questi divieti non hanno nulla di sanitario. Infatti sono crudeli, discriminatori e, in definitiva, controproducenti.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


lunedì 27 settembre 2021

Confutare Paul Krugman sulla pandemia “Austriaca”

 

 

di Robert Murphy

In un recente articolo per il New York Times, il keynesiano più famoso del mondo, Paul Krugman, ha attaccato la teoria Austriaca del ciclo economico (ABCT). Oltre a ripetere la sua affermazione decennale secondo cui l'ABCT soffre di una contraddizione interna, così come la sua accusa che gli Austriaci abbiano diagnosticato erroneamente la crisi finanziaria del 2008, nel suo ultimo pezzo Krugman ha sostenuto che la pandemia del 2020 è stata davvero uno "shock da riallocazione" in base alle tesi Austriache. Eppure anche qui, sostiene Krugman, la prescrizione Austriaca del laissez-faire è assolutamente sbagliata: come dovrebbe presumibilmente dimostrare un nuovo paper presentato alla conferenza monetaria di Jackson Hole, abbiamo bisogno di soldi facili dalla FED per riorganizzare il lavoro senza causare disoccupazione inutile.

Non sorprenderà i lettori di questo blog apprendere che non sono affatto d'accordo con l'articolo di Krugman. Fa alcune osservazioni casuali che inducono in errore i suoi lettori sulla storia degli anni '30, ma, cosa più grave, fraintende ciò che effettivamente dice l'ABCT. Questa confusione lo porta a rifiutare la visione Austriaca sdoganandola come illogica, quando in realtà è perfettamente coerente e spiega i dati meglio di un approccio keynesiano.


La storia difettosa di Krugman

Krugman inizia la sua discussione sulla teoria Austriaca facendo riferimento alla sua collocazione negli anni '30:

L'idea che ci fosse una battaglia intellettuale titanica negli anni '30 tra Hayek e John Maynard Keynes è fondamentalmente una fan fiction; le opinioni di Hayek sulla Grande Depressione non ottennero molta trazione intellettuale all'epoca, e la sua fama arrivò in seguito, con la pubblicazione del suo trattato politico del 1944 "The Road to Serfdom".

Krugman sta già inventando cose (come ho scritto altrove, quando Krugman usa il termine "fondamentalmente", ciò che intende è "questa affermazione è letteralmente falsa"). Anche se lo scontro potrebbe non aver coinvolto testi rap, Hayek era davvero il principale rivale di Keynes nei primi anni '30. Come spiega Bruce Caldwell:

Nel 1929 [Lionel] Robbins aveva iniziato quello che sarebbe diventato il suo lungo incarico come capo del dipartimento di economia presso la London School of Economics (LSE). Robbins invitò Hayek a Londra nel gennaio 1931 e il mese successivo il giovane austriaco tenne una serie di conferenze sul ciclo economico. Le lezioni furono pubblicate nello stesso anno (con un'esauriente prefazione di Robbins) con il titolo, Prezzi e produzione. Le lezioni di Hayek, sebbene a volte opache, suscitarono molto scalpore. Nell'autunno del 1931, Hayek era stato nominato Tooke Professor of Economic Science and Statistics all'Università di Londra. Aveva trentadue anni.

Sir John Hicks rimase alla LSE dal 1926 al 1935 e ricorda bene l'impatto dell'arrivo di Hayek. Infatti divide il proprio soggiorno all'Università di Londra in un periodo pre-hayekiano e uno hayekiano [...]. Nel suo articolo, "La storia di Hayek", Hicks riflette sull'importanza dei primi lavori di Hayek:

«Quando verrà scritta la storia definitiva dell'analisi economica negli anni Trenta, un protagonista del dramma (era un bel dramma) sarà il professor Hayek. Gli scritti economici di Hayek – non mi interessa il suo lavoro successivo in teoria politica e sociologia – sono quasi sconosciuti allo studente moderno; si ricorda appena che c'è stato un tempo in cui le nuove teorie di Hayek erano le principali rivali delle nuove teorie di Keynes. Chi era nel giusto, Keynes o Hayek?»

Ludwig Lachmann scrive dell'"ingresso trionfale sul palcoscenico londinese di Hayek con le sue lezioni sui prezzi e la produzione" e ricorda che quando lui (Lachmann) arrivò alla LSE due anni dopo, "tutti gli economisti importanti erano hayekiani" [...].

È innegabilmente vero che agli occhi della professione economica, Hayek abbia perso il dibattito con Keynes ma Krugman ha torto a sostenere che Hayek fosse un attore minore noto solo per i suoi scritti politici.


Krugman semplifica eccessivamente la teoria Austriaca del ciclo economico

Dopo aver minimizzato la sua importanza all'epoca, Krugman ammette che c'era un'analisi Austriaca della Grande Depressione, e la riassume in questo modo:

Tuttavia c'era un'analisi Austriaca identificabile della Depressione, condivisa da Hayek e altri economisti, tra cui Joseph Schumpeter. Laddove Keynes sosteneva che la Depressione fosse stata causata da un calo generale della domanda, Hayek e Schumpeter sostenevano che stavamo guardando alle inevitabili difficoltà di adattamento alle conseguenze di un boom. A loro avviso, l'eccessivo ottimismo aveva portato all'allocazione di troppo lavoro e altre risorse alla produzione di beni di investimento, e una depressione era solo il modo dell'economia per riportare quelle risorse al loro posto. (grassetto aggiunto)

Nell'estratto sopra, Krugman fa un sottile ma importante errore nella spiegazione Austriaca del ciclo boom/bust. Krugman infatti sta imputando che l'ABCT sia una teoria di investimenti eccessivi in beni strumentali e carenza d'investimenti in beni di consumo.[1]

Invece l'ABCT, specialmente negli scritti di Mises, è descritta più propriamente come teoria degli investimento sbagliati tra i vari tipi di beni capitali insieme ad un consumo eccessivo.

È questa semplice confusione alla base della maggior parte delle obiezioni errate sull'ABCT che manda fuori strada i suoi critici. Nel Quarterly Journal of Austrian Economics del 2012, Joe Salerno cita ampiamente questi critici (tra cui Krugman) e poi chiarisce:

Se i critici avessero studiato seriamente le fonti originali in cui è esposta l'ABCT, avrebbero appreso che non si tratta affatto di una teoria degli "investimenti in eccesso". Infatti Mises, Rothbard e, in modo un po' meno enfatico, Hayek hanno sostenuto esplicitamente che il "consumo eccessivo" e gli "investimenti sbagliati" erano le caratteristiche essenziali del boom inflazionistico. A loro avviso la divergenza tra il prestito ed i tassi d'interesse naturali causata dall'espansione del credito bancario, falsifica sistematicamente i calcoli monetari degli imprenditori che scelgono tra progetti d'investimento di diversa durata e in fasi diverse della produzione rispetto ai consumatori. Ma ciò distorce anche i calcoli di reddito e ricchezza, e quindi le scelte di consumo/risparmio dei destinatari di salari, affitti, profitti e plusvalenze. In altre parole, mentre il tasso di prestito artificialmente ridotto incoraggia le imprese a sopravvalutare la disponibilità presente e futura di risorse investibili ed a investire male nell'allungamento della struttura della produzione, allo stesso tempo induce in errore le famiglie ad una valutazione falsamente ottimistica del loro reddito reale e del loro patrimonio netto che stimola i consumi e deprime il risparmio. (grassetto aggiunto)

Nel resto dell'attuale articolo continuerò a citare il recente articolo di Krugman e poi mostrerò perché la sua confusione iniziale sull'ABCT è alla base di tutti i suoi problemi. Ma giusto per ripeterlo: Krugman vede l'ABCT come una semplice teoria degli investimenti eccessivi nei beni capitali e carenza di investimenti nei beni di consumo (come fanno altri critici dell'ABCT). Ma in realtà la teoria misesiana dice che l'espansione del credito porta a tassi d'interesse artificialmente bassi, che a loro volta fanno sì che gli imprenditori investano nelle linee produttive sbagliate e inducono i consumatori a credere di essere più ricchi di quanto non siano in realtà e quindi a consumare troppo. Vediamo come questa confusione porta Krugman fuori strada.


Krugman dice che l'ABCT ha problemi teorici ed empirici

Tornando alla sua recente rubrica, di seguito riportiamo due delle obiezioni di lunga data di Krugman sull'ABCT, vale a dire che fallisce sia a livello teorico che empirico:

[Il punto di vista di Hayek/Schumpeter] aveva problemi logici: se il trasferimento di risorse dai beni d'investimento causa disoccupazione di massa, perché non è successa la stessa cosa quando le risorse venivano trasferite dentro e fuori da altre industrie? Era anche in contrasto con l'esperienza: durante la Depressione e, del resto[,] dopo la crisi del 2008, c'era un eccesso di capacità e disoccupazione in quasi tutti i settori – viscosità in alcuni e carenze in altri.

Nella citazione sopra, il "problema logico" di Krugman con l'ABCT deriva dalla sua comprensione superficiale della teoria. Sì, se Mises avesse sostenuto che il periodo del boom è semplicemente un cambio di preferenze in un modo, mentre il crollo è un ritorno – un po' come i consumatori che decidono di provare la Mountain Dew per alcuni anni, solo per poi tornare alla Coca – allora sarebbe strano associare il primo cambiamento alla prosperità e il secondo alla privazione.

Per questo Salerno ha posto enfasi sul consumo eccessivo durante il periodo del boom, quando gli individui credono falsamente di essere più ricchi di quanto non siano in realtà. Il boom è insostenibile in termini fisici: i membri della società non risparmiano abbastanza dal reddito totale per completare tutti i processi di produzione a lungo termine avviati durante il boom. Armati di credito a basso costo, gli imprenditori usano le iniezioni di nuovo denaro per invitare i lavoratori ad allontanarsi dai loro posti di lavoro originali e ad entrare in nuove linee di produzione. Ciò comporta necessariamente salari (reali) più elevati e quindi induce una sensazione di "bei tempi".

Ma quando la realtà torna a riaffermarsi, in genere quando le banche si tirano indietro e smettono di iniettare nuovo credito nel sistema, molti imprenditori realizzano che i loro progetti devono essere chiusi. Licenziano i lavoratori ed interrompono i loro acquisti di altri fattori produttivi. Salari e altri prezzi devono calare (almeno in termini reali) per riflettere la nuova realtà. È doloroso essere licenziati: i lavoratori sono più poveri di quanto pensassero e devono cercare un nuovo lavoro che paghi bene quanto quello durante il periodo del boom.

Per un'esposizione sistematica della narrativa Austriaca, che mostri come sia logicamente coerente e possa spiegare l'asimmetria tra boom e bust, si veda il mio "articolo sul sushi" del 2008 (che molti lettori mi hanno detto che è uno dei loro preferiti). Lo stesso Krugman ha elogiato il mio articolo all'epoca, e smise di dire che l'ABCT avesse problemi logici limitandosi ad affermare che non si adattava ai dati.

I vincoli di spazio mi impediscono di ripetere qui gli argomenti proposti allora, ma sulla questione della validità empirica, ancora una volta gli Austriaci trionfano sui keynesiani. In questo articolo ho riassunto alcuni dei "test" che Krugman aveva provato per confutare la spiegazione Austriaca della bolla immobiliare e della crisi del 2008. Come abbiamo scoperto, usando le regole di Krugman per i test, la spiegazione Austriaca aveva più senso; ad esempio, il calo percentuale dell'occupazione è stato maggiore nelle costruzioni che nel settore manifatturiero e maggiore nei beni durevoli rispetto ai beni non durevoli, e la disoccupazione era più alta negli stati che hanno avuto le maggiori oscillazioni dei prezzi delle case. Questi risultati sono riscontrabili in base ad un approccio "riaggiustamento settoriale" di stampo Austriaco, in contrapposizione ad un approccio keynesiano in cui "tutti si fanno prendere dal panico e smettono di spendere".


Esilarante: Krugman risolve il “problema logico” quando giustifica l'inflazione

Prima di chiudere il presente articolo, voglio sottolineare un aspetto esilarante dell'ultimo commento di Krugman. La notizia specifica per la sua discussione sull'ABCT è stata un documento formale presentato da economisti d'élite alla conferenza di Jackson Hole della Federal Reserve, tenutasi ad agosto. Ecco il riassunto del documento offerto da Krugman e la sua rilevanza per gli Austriaci:

Sebbene non si senta molto sull'economia Austriaca in questi giorni, la pandemia ha davvero prodotto uno shock di riallocazione in stile Austriaco, con la domanda per alcune cose in aumento mentre la domanda per altre crollata [...].

Quindi stiamo finalmente avendo il tipo di crisi economica che persone come Hayek e Schumpeter credevano erroneamente che stavamo attraversando negli anni '30. Questo significa che dovremmo seguire i consigli che ci diedero allora?

No.

Questo è il messaggio di un documento di Veronica Guerrieri, Guido Lorenzoni, Ludwig Straub e Iván Werning che è stato preparato per l'incontro di Jackson Hole di quest'anno [...]. Guerrieri et al. non menzionano mai esplicitamente gli Austriaci, ma il loro documento può comunque essere interpretato come una confutazione delle loro prescrizioni di politica.

Hayek e Schumpeter erano fermamente contrari a qualsiasi tentativo di combattere la Grande Depressione con stimoli monetari e fiscali. Hayek criticò l'uso di "stimoli artificiali", insistendo sul fatto che dovevamo invece "lasciare al tempo di effettuare una cura permanente attraverso il lento processo di adattamento della struttura della produzione" [...].

Ma queste conclusioni non sono logiche anche se si accetta la loro analisi errata di cosa fosse la Depressione. Perché la necessità di spostare i lavoratori fuori da un settore dovrebbe portare alla disoccupazione? Perché non dovrebbe portare semplicemente a salari più bassi?

La risposta in pratica è la rigidità dei salari nominali verso il basso: i datori di lavoro sono riluttanti a tagliare i salari, a causa degli effetti sul morale dei lavoratori [...].

Guerrieri et al. sostengono, con un modello formale a sostegno, che la risposta ottimale ad uno shock di riallocazione è una politica monetaria molto espansiva che provochi un picco temporaneo dell'inflazione. I lavoratori avrebbero ancora un incentivo a cambiare lavoro, perché i salari reali diminuirebbero nei loro vecchi posti di lavoro ma aumenterebbero altrove. Ma non dovrebbe esserci disoccupazione su larga scala [...].

[...] Ora che abbiamo finalmente avuto lo shock che gli economisti Austriaci continuavano ad immaginare, possiamo vedere come continuino a dare pessimi consigli.

E nel caso ve lo stiate chiedendo, la FED, accettando l'inflazione transitoria, lo sta facendo nel modo giusto. (grassetto aggiunto)

Per riassumere, il nuovo articolo di Guerrieri et al. sostiene che se accomodati da un'esplosione di inflazione, possiamo trasferire i lavoratori da un settore all'altro senza la necessità di una disoccupazione su larga scala. Tuttavia se la FED non inflaziona, allora la necessità di lavoratori da riallocare porterà a disoccupazione su larga scala.

Il lettore vede l'ironia? Questa asimmetria è stata per decenni la principale obiezione di Krugman ("problema logico") all'ABCT. Non importa quante volte gli Austriaci glielo abbiano spiegato, non riesce proprio a capire che l'inflazione monetaria potrebbe spostare i lavoratori senza causare un'impennata iniziale della disoccupazione.

Tuttavia quando si invoca lo stesso identico meccanismo per giustificare l'inflazione, piuttosto che per condannarla, come fanno gli Austriaci, allora all'improvviso Krugman è in grado di capire il processo. Gli incentivi contano davvero.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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Note

[1] Un altro problema è che Krugman afferma che Hayek pensava che l'investimento in eccesso nel periodo del boom fosse dovuto ad un "eccessivo ottimismo", quando in realtà Hayek incolpò gli errori d'investimento sulla distorsione dei tassi d'interesse causata dall'espansione del credito. Infatti è per questo che il libro di Hayek sull'ABCT si chiama Prezzi e produzione, non ottimismo e produzione.

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venerdì 24 settembre 2021

Ludwig von Mises: un ritratto — Parte #1

 

 

di Francesco Simoncelli

Con l'appropinquamento del 140° anniversario della nascita di Ludwig von Mises, il caso ha voluto che ritrovassi questo saggio che ritenevo fosse andato perso. Presentato dapprima per il Von Mises Italia rappresenta un elogio a tutto tondo della vita, le opere e le idee che il grande economista Austriaco ci ha lasciato in eredità. Studiarle, coltivarle e diffonderle sono tre azioni che noi, venuti dopo, possiamo perseguire in modo da omaggiare chi le ha sviluppate ed utilizzarle come base per l'ulteriore progressione della materia. Ludwig von Mises è stato un economista, un filosofo, e un pensatore politico. È stato uno dei più grandi liberali del XX secolo, senza il quale le più importanti novità del pensiero liberale, e i più importanti sviluppi del pensiero economico della Scuola austriaca, non sarebbero stati possibili.

Tanto per farsi un’idea, senza Mises non ci sarebbe stato Hayek: il pensiero economico di Hayek (teoria del calcolo economico, teoria del ciclo economico, teoria del processo concorrenziale) nasce con Mises, e Hayek lo espande e lo perfeziona, e anche la filosofia politica e giuridica di Hayek è il risultato delle discussioni di Hayek con uno studioso che cercava di applicare le idee di Mises al diritto, Bruno Leoni.

Ludwig von Mises nacque a Lemberg (Lviv in ucraino, Leopoli in italiano), oggi Ucraina, all’epoca parte dell’Impero Austro-Ungarico, il 29 Settembre 1881. Laureatosi in legge, letti gli scritti del fondatore della Scuola austriaca Carl Menger divenne un economista.

Carl Menger fu il fondatore della Scuola austriaca, una delle tre varianti della Scuola economica marginalista sorte negli anni ’70 del XIX secolo. Il contributo fondamentale della Scuola marginalista fu di risolvere il problema del valore, che gli economisti classici non riuscivano a risolvere, data la loro teoria del valore-lavoro. Perché un quadro dipinto da me in mille ore di fatica vale un miliardesimo di un quadro dipinto da Caravaggio in un decimo del tempo? Perché un chilo di grano vale meno di un chilo di diamanti? La Scuola marginalista di Walras (il terzo marginalista fu Jevons) ha dato origine all’economia matematica contemporanea, con la sua analisi dell’equilibrio economico, cioè la condizione “statica” in cui ogni possibile opportunità di profitto è stata sfruttata e non c’è più niente da fare.

La Scuola austriaca è invece sempre stata interessata al processo anziché all’equilibrio, cioè le interazioni di individui che portano allo sfruttamento delle opportunità di profitto, fino – nel caso limite di nulla rilevanza pratica – all’equilibrio. La Scuola austriaca parla di processi e non di equilibrio, di imprenditorialità e creatività e non di ottimizzazione, di ignoranza e non di struttura dell’informazione imposta dall’alto, di tempo e non di produzione istantanea, di uomini e non di automi.

Nel 1912 scrisse un libro di teoria monetaria in cui fondò, in conclusione al lavoro, la teoria austriaca del ciclo economico, oggi nota anche come teoria del ciclo di Hayek, o di Mises-Hayek.

Dopo esser tornato dalla Prima Guerra Mondiale scrisse un saggio sull’economia socialista in cui ne dimostrò l’impossibilità, gettando le basi per la teoria del calcolo economico che è stata al centro di un dibattito che occupò gli anni ’20 e ’30, in cui Mises e Hayek cercarono di spiegare ai socialisti che le loro idee erano  irrealizzabili. Breve nota: “socialismo” significa nazionalizzazione dell’economia tramite pianificazione, non cleptocrazia partitocratica come in italiano.

Negli anni ’20 difese anche il liberalismo dalle politiche interventiste, mostrando come la logica inerente in queste politiche portava a risultati opposti rispetto a quanto affermato dai loro difensori. Nel 1934 fuggì a Ginevra, essendo lì stato invitato ad insegnare, perché l’Austria avrebbe potuto finire da un giorno all’altro in mano ai nazisti, e lui era ebreo. Nel 1940 fuggì negli Stati Uniti perché la Svizzera non era più un posto sicuro: le autorità svizzere temevano un ospite così meritatamente odiato dai nazisti.

Negli anni ’40 sviluppò le sue teorie sul calcolo economico e sulla metodologia economica per fondare, insieme ad Hayek, la teoria austriaca del processo di mercato, che di fatto è la base microeconomica della teoria austriaca, in contrapposizione alla teoria dell’equilibrio che va per la maggiore. Divenne distinguished fellow dell’American Economic Association nel 1969, l’anno della pensione, a 88 anni, e il 10 Ottobre 1973, a 92 anni, morì. L’anno dopo il suo migliore allievo, Hayek, vinse il Nobel per l’Economia. Alcuni dicono che avrebbero dovuto darlo anche a Mises, ed è certamente vero.

Sia a Vienna che a New York, Mises tenne un circolo, cioè un gruppo di discussione. Ai due circoli di Mises, spesso chiamati Mises Kreis, o “Privatseminar”, parteciparono decine di persone illustri. Il Premio Nobel Hayek, il fondatore della teoria dei giochi Oskar Morgenstern, il fondatore del libertarismo Murray Rothbard, il più importante economista austriaco vivente Israel Kirzner, economisti come Wilhelm Roepke, Gottfried Haberler, Lionel Robbins e Fritz Machlup, il sociologo Alfred Schutz, e il filosofo Felix Kaufmann.

Mises è sempre stato uomo di minoranza: remò tutta la vita contro lo spirito dei suoi tempi, e perse tutte le battaglie politiche. Remare controcorrente è l’unica vocazione possibile per un liberale, perché la politica spinge sempre ad espandersi a danno della libertà. Il tempo ha dato ragione a Mises su moltissime cose, come vedremo.

Mises si recò nel 1959 a Buenos Aires, in Argentina, per tenere sei conferenze, che furono poi raccolte nel libro di cui vi sto parlando. Si trattava di un Paese che fino a poco prima era stato uno dei più ricchi del mondo. È pieno di italiani perché era molto più ricco dell’Italia, e in termini pro capite era paragonabile agli Stati Uniti. Poi però prese la strada dell’interventismo, col populista Juan Peron e il suo regime.

Nel 1959 Peron era stato cacciato e si respirava aria di ottimismo: Mises voleva fare qualcosa per instradare il Paese verso il liberalismo. La differenza tra Argentina e Stati Uniti è che la prima ha avuto nel XX secolo una sfilza di politici come Franklin Delano Roosevelt. Il mercato è molto resistente, ma non invulnerabile. Esattamente come i suoi consigli di riforma per l’Impero Austro-Ungarico, e successivamente per la Repubblica Austriaca, non furono ascoltati, col risultato del totale tracollo economico e sociale; esattamente come le sue idee sul socialismo furono inascoltate per decenni, fino al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991; esattamente come le sue idee contro l’inflazionismo furono trascurate, portando prima alla Grande Depressione, e poi  all’inflazione degli anni ’70; probabilmente nessuno in Argentina gli diede retta. Peron ridivenne presidente poco dopo, e oggi l’Argentina, dopo un tracollo finanziario nel 2001, è retta da una scriteriata che per finanziare il deficit pubblico ha derubato i cittadini dei loro risparmi pensionistici.

Il primo capitolo di “Politica economica” di Ludwig von Mises è molto semplice e non contiene molti ragionamenti teorici: è una confutazione del termine capitalismo. Sembra strano, ma parrebbe che nel 1959, e in realtà anche oggi, era necessario ricordare banalità come il fatto che non c’è mai stata prosperità senza capitalismo, e che lo stato naturale dell’uomo non è l’abbondanza ma la miseria.

Mises afferma molto chiaramente una serie di cose importanti, come che il capitalismo è stato il primo sistema sociale non basato sulle caste in cui ogni persona nasceva, viveva e moriva allo stesso livello nella scala sociale, e che la sovrappopolazione pre-capitalistica (5 milioni di persone nel ‘600, in Inghilterra, sembravano troppe) ha come soluzione il capitalismo: quando si dice “c’è troppa gente in Africa” in realtà bisognerebbe dire “non c’è abbastanza capitale in Africa”, visto che di gente ce n’è decisamente di più in Italia, a parità di spazio, e quello che manca sono i mezzi di produzione capitalistici.

Il capitalismo, dice Mises, è il diritto di ognuno di servire meglio il consumatore. È un sistema dove non bisogna chiedere il permesso dello Stato per aprire una pizzeria, portare in giro le persone (taxi e autobus), dare consigli legali, lavorare, e far lavorare la gente. Non è l’Italia, decisamente. Mises ricorda poi come l’odio per il capitalismo – rimando a “La fine dell’economia” di Ricossa – nasce non dai proletari, a cui il capitalismo consentì la sopravvivenza prima e la prosperità poi, ma dagli aristocratici, preoccupati per il Landflucht (la fuga dalla campagna) dei loro servi verso le città. Il più grave problema di una società liberale è che non ha bisogno di leader: chi vuole comandare, deve prima minarne le basi. Forse su una cosa ci si può sorprendere: che il capitalismo porti ad una forte uguaglianza delle condizioni. La differenza tra un ricco e un povero è quella che c’è tra una Cadillac e una Chevrolet, dice Mises.

Chi ha osservato gli Stati Uniti, da Tocqueville (1830) a Hoffer (1950) ha sempre sottolineato la forte uguaglianza delle condizioni e l’assenza di un’aristocrazia. Eppure negli ultimi venti anni alcuni sostengono che ci sia stato un aumento della disuguaglianza all’interno dei Paesi, anche se certamente c’è stata anche una diminuzione di questa tra Paesi grazie alla globalizzazione. La prima tesi non è considerata empiricamente ben dimostrata, comunque, mentre i benefici della globalizzazione per i poveri sono evidentissimi. Anche se fosse, bisognerebbe poi capire se l’aumento della disuguaglianza sia legato alla dinamica di un mercato “libero” oppure ad eventuali protezioni corporative imposte dallo Stato tramite i consueti processi di “rent seeking”.


SOCIALISMO

La libertà economica e la libertà sono la stessa cosa. La libertà è infatti il diritto di impiegare i propri mezzi per perseguire i propri fini: niente libertà sui mezzi (libertà economica) implica niente libertà sui fini. Senza mercato, in Unione Sovietica chiunque poteva essere mandato a produrre gelati al pistacchio in Siberia, mentre sul mercato qualsiasi cosa sia considerata utile dagli altri trova di norma un finanziatore, anche se non piace allo Stato.

Cosa sarebbe la libertà senza libertà economica? Nei Paesi dell’Europa Orientale sotto il giogo comunista si diffuse una forma di lotta non-violenta al regime chiamata Samizdat: la stampa clandestina di libri vietati dalle autorità, fatta a mano, a volte con la macchina da scrivere e la carta carbone, raramente con tecniche più avanzate come il ciclostile. Qual era la difficoltà? Che la proprietà privata di queste attrezzature era vietata, ovviamente per controllare le idee eversive come la libertà. La libertà è una e indivisibile: la compressione di una libertà porta alla compressione delle altre. Cos’è la libertà di stampa, ad esempio, se i finanziamenti ai giornali vengono forniti dallo Stato? È la libertà di ingraziarsi i politici.

La libertà, dice Mises, esiste all’interno del sistema di cooperazione sociale. Non è libertà dalla società, è libertà nella società: è il diritto di scegliere se e come cooperare con gli altri individui. C’è ancora chi dice che il liberalismo sia atomistico e disdegni la società, e ci sono ignoranti che parlano di Mises come di un individualista atomista: in realtà il liberalismo disdegna i dittatori sociali – anche democratici – che vogliono decidere al posto degli altri, ma non la cooperazione sociale. La politica non è la società: la società è anche e soprattutto collaborazione volontaria, e questa, nel liberalismo, c’è sempre stata.

L’esempio di van Gogh è particolarmente bello. Van Gogh, dice Mises, fece una vita misera e non fu capito, visse a spese del fratello, e vendette in vita un solo quadro. Eppure ne dipinse centinaia, che oggi valgono milioni di euro. Che cosa sarebbe successo a Van Gogh in Unione Sovietica? Una commissione di esperti di pittura l’avrebbe giudicato pazzo, e l’avrebbero rinchiuso in una fabbrica per fare ciò che il pianificatore pensava fosse più utile per la società. Cosa è meglio? Sul mercato basta trovare acquirenti o benefattori, e se si è disposti a patire la fame è possibile anche far a meno di loro, senza libertà si è alla mercé dei politici.

Da qui si evince l’importante idea di Mises riguardo l’armonia degli interessi: nel lungo termine cooperare con gli altri permette di vivere meglio, perché la divisione del lavoro, come già notato da Adam Smith ne “La ricchezza delle nazioni”, permette di creare ricchezza. Lo scambio è un gioco a somma positiva dove un lattaio con due bicchieri di latte e un pasticcere con due fette di crostata possono scambiare un bicchiere con una fetta e fare entrambi una colazione completa.

Questa cosa è fondamentale per capire la teoria sociale di Mises: la proprietà consente il mercato, e il libero scambio crea ricchezza per tutti, almeno nel lungo termine. In società, ognuno serve sé stesso servendo gli altri: l’”utilitarismo” di Mises (che non c’entra nulla con l’utilitarismo classico, che si basava sul “calcolo della felicità totale”, che per Mises non ha senso) sta nell’idea che stare in società conviene, e che le regole del liberalismo permettono alle persone di godere dei benefici dalla cooperazione sociale.

Sul piano teorico la cosa più importante da sapere sul socialismo è il problema del calcolo economico. Facciamo un esempio. Domani c’è un’inondazione in Cile e la produzione di rame mondiale diminuisce del 5%. Dopo pochi minuti il prezzo del rame aumenta del 15%. Il giorno dopo una società che produce fili elettrici si accorge di dover pagare di più la materia prima, e aumenta il prezzo dei cavi. Dopo due giorni una miniera in Australia viene riaperta perché conviene estrarre rame, al nuovo prezzo. Dopo tre giorni, le azioni di una società che produce sistemi senza fili aumentano del 20% e i manager decidono di espandere la produzione per via della nuova domanda di dispositivi che fanno un minor uso di cavi.

Qualcuno di voi pensa che una cosa così complicata possa essere capita da una sola persona? Che un burocrate possa seguire ogni piccolo aggiustamento conseguente ad un’inondazione in Cile? Che un economista di Harvard possa capire di quanto deve aumentare il prezzo del prodotto di una società di dispositivi wireless grazie alla nuova configurazione di prezzi? Che un pianificatore possa sapere dall’alto del suo ufficio del Reichsfuhrerwirtschaftsministerium (il Ministero dell’Economia della Germania nazional-socialista) che c’è una miniera abbandonata in Australia?

La pianificazione è impossibile: il mercato è troppo complicato per farlo funzionare come una caserma. Le informazioni sono troppo decentrate, tacite, diffuse per poter essere accentrate ed usate efficacemente da un comitato di burocrati, ci ricorda Hayek. Serve un sistema di “divisione del lavoro intellettuale” (dice Mises altrove) perché il mercato è troppo complicato per l’intelligenza di ogni singolo individuo: serve che ognuno ne capisca una sola piccola parte, e che un meccanismo impersonale coordini le azioni individuali. Questo meccanismo è il sistema dei prezzi. I prezzi esistono perché c’è la libertà di scambiare, che implica la libertà di inserire nel sistema dei prezzi nuove informazioni sulla domanda e l’offerta di ogni merce. Proprietà, prezzi e profitti sono le tre ‘P’ che rendono possibile il funzionamento del mercato.

Il socialismo è impossibilitato a funzionare efficientemente. Deve necessariamente portare allo spreco e alla miseria. Non è una questione di incentivi: non è possibile per un comitato di pianificatori prendere decisioni in assenza di mercati. Ci sono cose che un mercato di agricoltori analfabeti fa benissimo, ma che sono impossibili per un comitato di pianificatori con IQ elevatissimi, dotati di PhD e decenni di esperienza alle spalle, forniti di tutte le statistiche e dei più potenti computer, e disposti a lavorare duramente e onestamente per il bene della società. Non possono fare nulla di buono, tranne togliersi di mezzo.


👉 Qui il link alla Seconda Parte: https://www.francescosimoncelli.com/2021/10/ludwig-von-mises-un-ritratto-parte-2.html

👉 Qui il link alla Terza Parte: https://www.francescosimoncelli.com/2021/10/ludwig-von-mises-un-ritratto-parte-3.html


giovedì 23 settembre 2021

Come avere legge senza legislazione

 

 

di Murray Rothbard

[Nel suo libro La libertà e la legge,] la tesi principale del Professor [Bruno] Leoni è che perfino i più devoti economisti di libero mercato hanno imprudentemente ammesso che le leggi devono essere create da una legislazione governativa; Leoni mostra che questa concessione fornisce un’inevitabile porta per la tirannia dello Stato sull’individuo. L’altro lato della medaglia, derivato dall’aumentare l’intervento governativo nel mercato libero, è stato l’aumento della legislazione, con la sua conseguente coercizione da parte di una maggioranza – o, più spesso, da parte di un’oligarchia di pseudo -”rappresentativi” di una maggioranza – sul resto della popolazione. In questa connessione, Leoni presenta una brillante critica dei recenti scritti di F.A. Hayek sullo “stato di diritto”. In contrasto con Hayek, che chiede di avere regole legislative generali in contrapposizione alle bizzarrie di arbitrari burocrati o di “amministratori della legge”, Leoni fa notare che la reale e sottostante minaccia alla libertà individuale non è l’amministratore, ma lo stato legislativo che rende la regolamentazione amministrativa possibile.[1] Leoni dimostra che non è sufficiente avere regole generali applicabili a tutti e scritte in anticipo, in quanto queste stesse regole possono invadere la libertà – e, in generale, lo fanno.

Il grande contributo di Leoni è quello di mettere in evidenza persino ai più fedeli teorici del laissez-faire un’alternativa alla tirannia nel campo della legislazione. Piuttosto che accettare o la legge amministrativa o la legislazione, Leoni si appella ad un ritorno alle antiche tradizioni e principi della “legge fatta dal giudice” [in assenza di precedenti, ndt] come metodo per limitare lo Stato ed assicurare la libertà. Nella legge privata dell’antica Roma, nei codici civili continentali, nella common law anglosassone, “legge” non significava ciò che pensiamo oggi: promulgazione senza fine da parte di un legislatore o di un esecutivo. La “legge” non era promulgata, bensì trovata o scoperta; era un corpo di regole usuali che erano cresciute tra le persone, come i linguaggi o le mode, spontaneamente ed in modo puramente volontario. Queste regole spontanee costituirono “la legge”; ed era il lavoro degli esperti di legge – vecchi uomini della tribù, giudici, o avvocati – determinare quale fosse la legge e come la legge si applicasse ai numerosi casi di dispute che nascevano continuamente.

Se la legislazione fosse rimpiazzata da una tale legge fatta-dal-giudice, dice Leoni, stabilità e certezza (uno dei requisiti base della “regola della legge”) sostituirebbero la capricciosa mutevolezza degli editti di legislazione statuaria. Il corpo della legge fatta-dal-giudice cambia molto lentamente; inoltre, poiché le decisioni del giudice possono essere prese solo quando le parti presentano casi di fronte alle corti, e poiché le decisioni si applicano propriamente solo al caso particolare, la legge fatta-dal-giudice – in contrasto con la legislazione – permette ad un vasto corpo di regole volontarie e liberamente adattate, negoziazioni ed arbitrati di proliferare secondo necessità nella società. Leoni mostra brillantemente l’analogia tra queste regole libere e le negoziazioni, che esprimono intimamente il “desiderio comune” di tutti i partecipanti, e le negoziazioni volontarie e gli scambi del libero mercato.[2] Il gemello dell’economia di libero mercato, dunque, non è una legislatura democratica che continuamente sforna nuovi diktat per la società, ma una proliferazione di regole volontarie interpretate ed applicate da esperti nel settore della legge.

Mentre Leoni è vago ed indeciso sulla struttura che le sue corti dovrebbero prendere, almeno egli indica la possibilità di giudici e corti privatamente in competizione. Alla domanda, chi nominerebbe i giudici? Leoni risponde con la domanda, chi oggi “nomina” i massimi esperti in medicina o scienza nella società? Loro non sono nominati, ma guadagnano un generale e volontario consenso in base ai loro meriti. In modo simile, mentre in alcuni passaggi Leoni accetta l’idea di una corte suprema governativa, che egli ammette diventi essa stessa una quasi-legislatura,[3] egli invoca la restaurazione dell’antica pratica della separazione del governo dalla funzione giudicante. Se non anche per altre ragioni, il lavoro del Professor Leoni è di estremo valore per sollevare, nella nostra era di Stato-confuso, la possibilità di una fattibile separazione della funzione giudicante dall’apparato dello Stato.

Un grande difetto nella tesi di Leoni è l’assenza di qualsiasi criterio per il contenuto della legge fatta-dal-giudice. È una felice coincidenza della storia che un grande accordo tra la legge privata e la common law sia libertario – ovvero il fatto che abbiano elaborato i mezzi per preservare la proprietà e l’integrità di una persona contro un’“invasione” – ma un buon accordo della vecchia legge era anti-libertario e, di sicuro, la tradizione non può sempre essere considerata coerente con la libertà. L’antica tradizione, dopo tutto, può essere un debole baluardo infatti; se le tradizioni sono oppressive della libertà, devono ancora servire come struttura legale in modo permanente, o almeno per secoli? Supponiamo che la tradizione antica decreti che le vergini debbano essere sacrificate agli dei al chiaro della luna piena, o che vengano macellati quelli con i capelli rossi in quanto demoni. Dunque? Non potrebbe la tradizione essere soggetta ad un più alto test – la ragione?

La common law contiene alcuni elementi anti-libertari quali la legge di “cospirazione” e la legge del “seditious libel” (che dichiarano fuori legge le critiche mosse contro il governo), in gran parte introdotte nel corpo legislativo dai re e dai loro leccapiedi. E forse l’aspetto più debole del libro è la venerazione di Leoni per la legge dell’antica Roma. Se il diritto romano avesse fornito un paradiso di libertà, come si riesce a spiegare la schiacciante tassazione, la periodica inflazione ed il deterioramento della moneta, la rete repressiva di controlli e le misure di “welfare”, l’illimitata autorità imperiale, presenti nell’impero romano?

Leoni offre molti diversi criteri per (determinare) il contenuto della legge, ma nessuno è molto ben riuscito. Uno è l’unanimità. Ma sebbene possa essere superficialmente plausibile, persino l’unanimità esplicita non è necessariamente libertaria. Supponiamo, infatti, che non ci siano musulmani in un paese e che tutti, unanimemente, decidano – e si fissa nella tradizione – che ogni musulmano dovrebbe essere giustiziato. E cosa accadrebbe se, in seguito, alcuni musulmani apparissero in quel territorio? Inoltre, come riconosce lo stesso Leoni, c’è il problema del criminale; certamente egli non si esprime in favore della propria pena. Qui Leoni ripiega su di una tortuosa costruzione di unanimità implicita, ovvero, quella per cui, in casi come l’omicidio o il furto, il criminale sarebbe d’accordo con la pena se qualcun altro fosse il criminale, cosicché egli davvero è in accordo con la giustizia della legge. Ma supponiamo che questo criminale, o altri nella comunità, abbiano il credo filosofico che certi gruppi di persone (siano essi quelli coi capelli rossi, i musulmani, i proprietari terrieri, i capitalisti, i generali o qualsivoglia) meritino di essere uccisi. Se la vittima fosse un membro di uno di questi gruppi aborriti, allora né il criminale né gli altri che mantengono questa credenza sarebbero d’accordo con la giustizia né della regola generale contro l’omicidio né della pena per questo particolare omicidio. Anche solo su questo terreno, la teoria dell’unanimità-implicita deve cadere.

Un secondo criterio proposto per il contenzioso della legge è la regola d’oro negativa: “Non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”. Ma anche questa non è soddisfacente per un motivo: alcuni atti generalmente considerati criminali continuerebbero a passare il test della regola d’oro negativa. Così, un sadomasochista può torturare un’altra persona, ma finché egli provasse piacere nell’essere torturato, la sua azione, sotto la regola d’oro negativa, non potrebbe essere considerata criminale. D’altro canto, la regola d’oro è un criterio troppo vasto. Molte azioni sarebbero condannate come criminali quando certamente non dovrebbero esserlo. Così, la regola decreta che gli uomini non dovrebbero mentire gli uni agli altri (un uomo non vorrebbe che un altro gli mentisse) e così alcuni potrebbero adoperarsi affinché tutti i bugiardi vengano banditi come fuorilegge. Inoltre, la regola d’oro decreterebbe che nessun uomo potrebbe voltare le spalle ad un mendicante, perché il primo non vorrebbe che il mendicante gli voltasse le spalle qualora i ruoli fossero invertiti – e di nuovo è difficilmente libertario dichiarare fuorilegge il rifiutare la carità ad un mendicante.[4]

Leoni suggerisce un criterio molto più promettente: che la libertà venga definita come l’assenza di costrizioni o coercizione – eccetto contro i costrittori. In questo modo, l’iniziazione della coercizione sarebbe fuorilegge e la funzione “governativa” diventerebbe strettamente limitata a forzare i coercitori. Ma, assai sfortunatamente, Leoni cade proprio nella stessa trappola che incastrò Hayek nel suo Constitution of Liberty: la “coercizione” o “costrizione” non è definita in un modo proprio o convincente.[5] All’inizio, Leoni promette di dare una corretta comprensione della coercizione quando dice che un uomo non può essere detto “costringere” un altro quando rifiuta di comprare i beni o i servizi del secondo o quando rifiuta di salvare un uomo in procinto di affogare. Ma poi, nel suo sventurato capitolo 8, Leoni concede che possa esserci costrizione quando una persona religiosamente devota si senta “costretta” perché un altro uomo non osserva la pratiche religiose del primo. E questo sentimento di costrizione può apparire per giustificare tali invasioni della libertà come le Sunday blue laws. Qui, di nuovo, Leoni sbaglia nel collocare il suo test sulla costrizione o coercizione non sugli atti oggettivi del difensore ma sui sentimenti soggettivi del querelante. Sicuramente questa è un’autostrada estremamente larga verso la tirannia!

Inoltre, Leoni apparentemente non vede che la tassazione è un primo esempio di coercizione, ed è difficilmente compatibile con la sua stessa rappresentazione della società libera. Infatti, se la coercizione deve essere limitata solo ai coercitori, allora sicuramente la tassazione è l’ingiusta estrazione coercitiva di proprietà da un vasto corpo di cittadini non coercitivi. Dunque, come può essere giustificato tutto ciò? Leoni, di nuovo nel capitolo 8, concede anche l’esistenza di una qualche legislazione nella sua società ideale, includendo, mirabile dictu, alcune industrie nazionalizzate![6] Una specifica nazionalizzazione favorita da Leoni è quella relativa all’industria dei fari. La sua argomentazione è che un faro non potrebbe tassare consumatori individuali per il suo servizio e che, dunque, tale servizio dovrebbe essere fornito dal governo.

Le principali risposte a questo argomento sono di tre tipi:

  1. la tassazione per i fari impone coercizione ed è perciò un’invasione della libertà;
  2. anche se non è possibile far pagare agli individui il funzionamento dei fari, cosa vieta alle compagnie navali di costruire o sovvenzionare i loro propri fari? La tipica risposta è che poi vari “scrocconi” beneficerebbero del servizio senza pagare. Ma questo è universalmente vero in ogni società. Se io faccio di me una migliore persona, o se io curo il mio giardino meglio, sto aggiungendo qualcosa ai benefici goduti dalle altre persone. Sono quindi autorizzato ad imporre un tributo su questi a causa di questo fatto felice?
  3. Di fatto, i gestori dei fari potrebbero facilmente far pagare le navi per i loro servizi, se a loro fosse permesso di possedere quelle superfici di mare che loro modificano con la loro illuminazione. Un uomo che prende una terra non posseduta e la trasforma per uso produttivo è prontamente riconosciuto proprietario della terra, che può da quel momento in avanti essere usata economicamente; perché non dovrebbe applicarsi la stessa regola a quest’altra risorsa naturale, il mare? Se al proprietario del faro fosse concessa la proprietà della superficie di mare che egli illumina, egli potrebbe far pagare ogni nave come ci passa attraverso. La manchevolezza qui è un fallimento non del libero mercato, ma del governo e della società nel non permettere un diritto di proprietà al proprietario legittimo di una risorsa.

Sulla necessità di tassare per i fari governativi ed altri servizi, Leoni aggiunge lo sbalorditivo commento che “in questi casi il principio di libera scelta nelle attività economiche non è abbandonato e nemmeno messo in dubbio” (p.171). Perché? Perché “si ammette” che le persone desidererebbero pagare per questi servizi ad ogni modo, se disponibili sul mercato. Ma chi ammette ciò, e fino a che punto? E quali persone pagherebbero?

Il nostro problema può essere risolto, comunque; un valido criterio che accontenti la legge libertaria esiste. Tale criterio definisce come coercizione o costrizione, semplicemente, l’iniziazione di violenza, o la minaccia di questa, contro un’altra persona. Diventa quindi chiaro che l’uso della coercizione (violenza) deve essere confinato per forzare gli iniziatori di violenza contro i loro compagni. Una ragione per confinare la nostra attenzione sulla violenza è che l’unica arma impiegata dal governo (o da qualsiasi altra agenzia incaricata contro il crimine) è precisamente la minaccia di violenza. Mettere “fuorilegge” una qualsivoglia azione equivale precisamente a minacciare violenza contro chiunque la commetta. Perché allora non usare violenza solo per inibire coloro i quali stanno iniziando violenza, e non contro qualsiasi altra azione o non-azione che qualcuno potrebbe scegliere di definire come “coercitiva” o “costrittiva”?

Ed ancora una volta, il tragico mistero è che così tanti pensatori quasi-libertari hanno, nel corso degli anni, fallito nell’adottare questa definizione di costrizione o hanno fallito nel limitare la violenza a contro-azione di violenza, ed hanno invece aperto le porte allo statismo usando così vaghi e confusi concetti come “nuocere”, “interferire”, senso di costrizione”, etc. Decretate che nessuna violenza possa essere iniziata contro un altro uomo e tutte le scappatoie per la tirannia che persino uomini come Leoni concedono – blue laws, fari governativi, tassazione, etc. – sarebbero spazzate via.

In breve, esiste un’altra alternativa per la legge in società, un’alternativa non solo al decreto amministrativo o alla legge statuaria, ma persino alla legge fatta-dal-giudice. Tale alternativa è la legge libertaria, basata sul criterio che la violenza può essere usata solo contro coloro che iniziano violenza e basata, dunque, sull’inviolabilità della persona e della proprietà di ogni individuo dall’“invasione” eseguita con violenza. In pratica, questo significa prendere la common law, che è in grande parte libertaria, e correggerla usando la ragione dell’uomo, prima di venerarla come un codice libertario permanentemente immutabile o come una costituzione. E significa la continua interpretazione e applicazione di questo codice della legge libertaria da parte di esperti e giudici in corti private in competizione tra loro.

Il Professor Leoni conclude il suo altamente stimolante ed importante libro dicendo che “fare-leggi è molto più un procedimento teorico che un atto di volontà” (p. 189). Tuttavia, di sicuro un “procedimento teorico” implica l’uso della ragione umana per stabilire un codice di leggi che sia un’inviolabile e duratura fortezza per la libertà umana


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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Note

[1] Leoni presenta anche un’efficace critica della difesa di Hayek delle “corti amministrative” speciali. Se ci deve essere una legge per i burocrati ed un’altra per i cittadini comuni, allora non ci sarebbe uguaglianza di fronte alla legge per tutti e, quindi, non ci sarebbe una genuina “regola della legge”. Qui, come altrove, Leoni riabilita la forma pura della regola della legge, sostenuta dal grande giurista inglese del XIX secolo A.V. Dicey, in contrasto con le versioni moderne di Hayek e C.K. Allen.

[2] Questo contrasta con la canzonatoria pretesa di avere legislature “democratiche” – che coercitivamente impongono le loro regole ai dissidenti – che siano espressione della “volontà comune”. Leoni nota che per essere “comune”, la volontà comune deve essere unanime.

[3] Ad un certo punto, Leoni sembra credere che il requisito di unanimità dell’autorità giudiziale della Corte Suprema per qualsiasi cambiamento delle precedenti regole stabilirebbe approssimativamente il “modello di Leoni” per quanto riguarda la scena americana. Ma qui tutto dipende dal “punto di zero” al quale la richiesta di unanimità viene introdotta. Nel mondo odierno, pesantemente oppresso dallo Stato, una richiesta di unanimità per cambiare tenderebbe a velocizzare le nostre regolamentazioni stataliste in modo permanente sulla società.

[4] Un errore critico – in questo ed in altri punti – è la tendenza di Leoni di eseguire il test della criminalità sui sentimenti soggettivi dei partecipanti, piuttosto che sui fatti oggettivi.

[5] Per un’eccellente critica della concezione di coercizione di Hayek, vedi Ronald Hamowy, “Hayek’s Concept of Freedom: A Critique”, New Individualist Review, (aprile 1961), pp. 28-31.

[6] Così, Leoni afferma che, in quei casi nebulosi in cui la criminalità o la costrizione non possano essere determinati oggettivamente, esiste spazio per avere una legislazione coercitiva sul soggetto. Ma sicuramente la regola appropriata – e libertaria – è che i casi nebulosi vengano decisi in favore del “laissez-faire” – del lasciare che l’attività continui.

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