Adesso sull’etichetta della bottiglia c’è scritto “libertarismo”. Il contenuto, però, è qualcosa che conosciamo molto bene: risponde a ciò che nel XIX secolo, e fino all’epoca di Franklin Roosevelt, era chiamato liberalismo — la difesa di limiti rigorosi al governo e della libera economia. (Se ci pensate, noterete ridondanza in questa formula, in quanto un governo con poteri limitati avrebbe poche possibilità d’interferire nell’economia.) I liberali furono derubati del loro nome tradizionale da socialisti e quasi socialisti, la cui avidità per i termini prestigiosi non conosce limiti. Quindi, forzati a cercare una diversa etichetta distintiva per la loro filosofia, adottarono il termine libertarismo — non male, sebbene in qualche modo ostico alla lingua.
Avrebbero forse potuto far meglio adottando il più antico ed eloquente nome d’individualismo, ma lo scartarono perché anch’esso era stato più che infangato dagli oppositori…
Il getto di fango era cominciato molto tempo fa, ma l’orgia più recente e conosciuta avvenne nella prima parte del secolo, quando i fanatici dello stato messianico affibbiarono all’individualismo un aggettivo impregnato di giudizio — estremo. Il termine in sé non ha contenuto morale; riferito ad una montagna è puramente descrittivo, riferito ad un atleta ha una connotazione positiva. Nello stile letterario di quei fanatici, però, denotava quello che in linguaggio comune rappresenterebbe un comportamento losco. Questa connotazione non ha nulla a che fare con la filosofia più di quanto abbia ogni forma di comportamento indecente. Quindi, “l’individualista estremo” era il tipo che minacciava il pignoramento della vecchia proprietà di famiglia se la fanciulla graziosa rifiutava la sua mano; oppure era lo speculatore che usava il mercato borsistico per derubare “vedove e orfani”; o, ancora, era il pirata grasso e florido che copriva di diamanti la sua amante. Era, in breve, un tipo la cui coscienza non metteva ostacoli alla sua inclinazione ad afferrare ogni dollaro, che non riconosceva alcun codice etico che potesse tenere a freno i suoi appetiti. Se c’è qualche differenza tra un ladro ordinario e un “individualista estremo”, è il fatto che il secondo quasi sempre si mantiene entro i limiti della legge, anche se deve riscrivere la legge per farlo…
“L’individualismo estremo” fu una mera espressione propagandistica: utilissima nel portare il fervore legato al motto “spenniamo i ricchi” al punto di ebollizione.
L’espressione si diffuse in un’epoca in cui la mania di livellamento stava costruendo la sua strada nella tradizione americana, prima che il governo, usando appieno il nuovo potere acquisito con la legge della imposta sul reddito, afferrasse l’individuo per la gola e ne facesse un uomo di massa. È un fatto bizzarro che i socialisti siano ben in accordo con gli “individualisti estremi” nel promuovere l’uso della forza politica per ottenere il proprio “bene”; la differenza tra loro sta solo nel determinare le occorrenze, o gli assegnatari, del “bene” fornito dallo stato. È dubbio che i “baroni” (un sinonimo di individualista estremo) abbiano mai usato lo stato, prima della imposta sul reddito, con qualcosa che si avvicinasse al successo dei socialisti. Comunque sia, lo stigma “dell’estremismo” attecchì, cosicché gli “intellettuali” collettivisti, che non dovrebbero essere così ingenui, ignorano la differenza tra furto e individualismo.
Le parole diffamatorie originali
La denigrazione dell’individualismo, inoltre, aveva avuto una buona partenza prima dell’era moderna. I diffamatori originali non erano socialisti ma solidi difensori dello status quo, i paladini dei privilegi speciali, i mercantilisti del XIX secolo. La loro contrarietà scaturiva in parte dal fatto che l’individualismo pendeva pesantemente verso la fiorente dottrina del libero mercato, dell’economia del laissez-faire, e per questo poneva una minaccia alla loro posizione prediletta. Allora cercarono nell’antico sacco della semantica al fine di ricavarne due aggettivi infanganti: egoista e materialista; proprio come i socialisti più tardi, non avevano rimorsi nel distorcere la verità per adattarla alle loro tesi.
La teoria del laissez-faire – in breve, un’economia libera dagli interventi e dalle sovvenzioni politiche — sostiene che l’istinto dell’interesse personale è il fattore motivante dello sforzo produttivo. Niente è prodotto se non dal lavoro umano, e il lavoro stesso rappresenta qualcosa a cui l’essere umano concede molta parsimonia: se potesse soddisfare i suoi desideri senza sforzo, eviterebbe quest’ultimo molto volentieri. Questo è il motivo per cui inventa dispositivi che fanno risparmiare lavoro. Tuttavia, egli è „congegnato“ in maniera tale per cui ogni gratificazione dà origine a nuovi desideri, ch’egli procede a soddisfare investendo il lavoro risparmiato. È insaziabile. La capanna fatta di tronchi, abitazione sufficiente nella terra selvaggia, sembra decisamente inadeguata non appena il pioniere accumula un’eccedenza di beni di prima necessità; allora comincia a sognare di tende e quadri, acqua corrente, una scuola o una chiesa, per non dire del baseball o di Beethoven. L’interesse personale prevale sull’avversione al lavoro: il costante impulso a migliorare le proprie circostanze e allargare i propri orizzonti…
È nel libero mercato che l’interesse personale trova la sua migliore espressione; questo è un punto cardine dell’individualismo. Se il mercato viene regolarmente saccheggiato, da ladri o dal governo, e la sicurezza della proprietà viene compromessa, l’individuo perde interesse nella produzione, per cui si riduce l’abbondanza delle cose create. Ne consegue che per il bene della società, l’interesse personale nella sfera economica deve procedere libero e senza impedimenti.
Invero, l’interesse personale non coincide con l‘egoismo. L’interesse personale stimolerà il produttore a migliorare i suoi prodotti in modo da favorire il commercio, mentre l’egoismo lo indurrà a cercare i privilegi speciali e il favore dello stato, finendo per distruggere proprio il sistema di libertà economica dal quale egli dipende. Il lavoratore che cerca di migliorare il suo destino attraverso un perfezionamento delle sue capacità, difficilmente può essere chiamato egoista; questo termine si addice piuttosto al lavoratore che pretende di essere pagato per non lavorare. Il cercatore di sussidi è egoista, così come lo è qualsiasi cittadino che usa la legge per arricchirsi a spese degli altri cittadini.
Il libero mercato
Vi è poi l’accusa di “materialismo”. Il laissez-faire, naturalmente, ha dalla sua l’argomento dell’abbondanza; se la gente vuole molte cose, il modo di ottenerle passa attraverso la libertà di produzione e di scambio; da questo punto di vista, potrebbe essere definito “materialistico”. Però l’economista a favore del laissez-faire, in quanto economista, non discute né giudica i desideri degli uomini; non ha alcuna opinione su quali dovrebbero essere le loro aspirazioni. Che preferiscano la cultura ai gadget, o che attribuiscano maggior valore all’ostentazione rispetto alle cose spirituali, non è oggetto del loro studio; il libero mercato è meccanicistico e amorale. Se la preferenza di qualcuno è per il tempo libero, per esempio, è attraverso l’abbondanza che il suo desiderio può essere soddisfatto al meglio; infatti l’abbondanza delle cose le rende più economiche, più facili da ottenere, quindi diventa possibile concedersi d’indulgere in vacanze. Un concerto è probabilmente meglio apprezzato da un esteta ben nutrito che da uno affamato. Comunque sia, l’economista rifiuta di giudicare le predilezioni degli uomini; qualsiasi cosa vogliano, ne otterranno di più da un libero mercato che da un mercato che funziona sotto il comando di poliziotti.
Tuttavia, i critici del XIX secolo ignoravano allegramente questo punto; persino i socialisti moderni lo ignorano, insistendo nel collegare contenuto morale alla libera economia…
In realtà — mentre il libero mercato in se stesso è un meccanismo neutro rispetto ai valori espressi dai desideri degli uomini — la teoria del libero mercato si basa sulla tacita accettazione di un concetto puramente spirituale, e cioè: l’uomo è dotato della capacità di fare scelte, per libera volontà. Se non fosse per questo tratto puramente umano, non ci sarebbero mercati, la vita umana sarebbe analoga a quella degli uccelli e delle bestie. L’economista promuovente il laissez-faire cerca di soprassedere questo punto filosofico e teologico; nondimeno, se pressato a sufficienza, deve ammettere che la sua tesi è basata sull’assioma della libera volontà, nonostante egli possa chiamarlo in un altro modo. Tale assioma non è materialistico; ogni discussione al riguardo conduce ineluttabilmente a dover considerare l’anima.
Per contrasto, sono i socialisti (di qualsiasi sottospecie) che devono iniziare la loro tesi con il rifiuto dell’idea di libera volontà. La loro teoria richiede di descrivere l’individuo come puramente materialistico. Ciò che viene chiamata libera volontà, secondo loro, è un gruppo di riflessi derivanti dal condizionamento ambientale…
“Edonismo”
Tornando alla diffamazione dell’individualismo, un’altra parola carica di giudizio morale scagliata contro di esso, in passato e ancora adesso, è edonismo. Questa etichetta deriva dal fatto che un certo numero di individualisti auto-definitesi tali, discepoli di Adam Smith, si associarono ad un credo etico noto come utilitarismo: i più famosi furono Jeremy Bentham, James Mill e John Stuart Mill. Il principio base di questo credo postula che per costituzione l’uomo sia spinto ad evitare il dolore e ricercare il piacere. Quindi, nella natura delle cose, l’unica condotta moralmente buona è quella che favorisce questa ricerca. Sorge però un problema di definizione, dal momento che quel che può essere piacere per un filosofo può essere dolore per l’imbecille. Bentham, fondatore della scuola, interessato più alla legislazione che alla filosofia, risolvette il problema redigendo un calcolo grossolano del piacere; poi enunciò un principio legislativo basato su di esso: è moralmente buono ciò che produce il maggiore bene per il maggior numero di persone.
Provenendo da un oppositore dichiarato dei privilegi e da un sostenitore dei limiti al potere del governo, questa dottrina di “fare del bene” è una strana anomalia. Se la misura morale della legislazione è il maggior bene per il maggior numero, ne consegue che il bene della minoranza, ancor più una minoranza di una sola persona, è immorale. Questo proprio non si accorda con il principio di base dell’individualismo per il quale l’uomo è dotato di diritti con i quali la maggioranza non può interferire…
I punti cardine dell’individualismo
Metafisicamente, l’individualismo sostiene che la persona è unica, non è un campione della massa, dovendo la sua peculiare composizione e la sua lealtà al Creatore, non al suo ambiente. A ragione dell’origine della sua esistenza, egli è dotato di diritti inalienabili, che è dovere di tutti gli altri rispettare, come è suo dovere rispettare i loro; questi diritti sono la vita, la libertà e la proprietà. In accordo a tale premessa, la società non ha alcun permesso di invadere questi diritti, nemmeno sotto il pretesto di migliorare le sue circostanze di vita; il governo non può fornirgli altro servizio se non quello di proteggerlo dagli altri nell’esercizio di questi diritti. Nel campo dell’economia (del quale i libertari si preoccupano giustamente perché è qui che lo stato comincia le sue infrazioni), il governo non ha competenza; il meglio che può fare è mantenere una condizione di ordine, in modo che l’individuo possa portare avanti le sue attività con la sicurezza che potrà tenere ciò che produce. Questo è tutto.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/