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giovedì 17 giugno 2021

In Africa la povertà aumenta a causa della mentalità anti-capitalista

Ripassiamo ancora una volta perché il capitalismo di libero mercato offre più benefici di qualsiasi altra organizzazione socio-economica. X non ha lavoro e non possiede mezzi di produzione. Per dar da mangiare alla sua famiglia ha solo le mani, da usare per produrre beni e sopravvivere. La produttività di X sarà vicina allo zero e la sussistenza è il massimo a cui può sperare. Per essere più produttivo ha bisogno di beni capitali e quindi aumentare la sua produttività. X si trova di fronte ad una scelta: acquisire beni capitali da utilizzare per produrre beni, o andare a lavorare per un capitalista che fornisce mezzi di produzione con cui X può combinare il suo lavoro in cambio di un salario. Ci sono tre vantaggi principali forniti dal capitalista che portano X, e la maggior parte delle persone, a trovare più vantaggioso lavorare per un capitalista. 1) I beni capitali forniti dal capitalista rendono l'operaio molto più produttivo di quanto sarebbe stato da solo. La maggior parte degli individui ha risorse limitate e sarebbe in grado di ottenere relativamente meno beni capitali, o comunque meno produttivi, di quelli che il capitalista può fornire. Una maggiore produttività si tradurrà in salari più alti per il lavoratore rispetto alle entrate che avrebbe potuto generare producendo e vendendo beni da solo. 2) Lavorare in un'azienda consente al lavoratore di guadagnarsi da vivere immediatamente. Invece di dover attendere il completamento del processo produttivo e la vendita del prodotto finito, andare a lavorare per un capitalista consente al lavoratore di incassare subito il reddito. I salari degli operai sono di fatto un anticipo sul reddito dei prodotti finiti; un anticipo non concesso all'individuo che produceva egli stesso beni capitali. 3) Il capitalista si assume il rischio di potenziali perdite. L'appetito per il rischio è limitato, infatti la maggior parte delle persone non è disposta a rischiare di perdere i propri fondi (o i fondi presi in prestito che dovranno rimborsare) nel caso in cui i beni prodotti non siano valutati dai consumatori ad un prezzo superiore ai costi di produzione.

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di Ferghane Azihari

Il progetto di punta dell'Unione Africana (AU), l'Africa Continental Free Trade Area (ACFTA), è infine entrato in vigore.

L'espansione globale dell'economia di mercato ha generato una prosperità senza precedenti per tutta l'umanità e ora anche gli africani vogliono accedere a questi guadagni. I vantaggi sono chiari: quasi l'80% degli esseri umani viveva in condizioni di estrema povertà all'inizio del XX secolo, rispetto a poco più del 10% di oggi. Alla fine della seconda guerra mondiale, metà della popolazione mondiale soffriva ancora di denutrizione. Ma ora questo flagello colpisce "solo" il 10% degli individui in tutto il mondo.

In generale, gli indicatori umanitari in tutto il globo continuano a migliorare. L'aspettativa di vita sta progredendo, la mortalità infantile è in calo, sempre meno bambini devono lavorare per sopravvivere e l'analfabetismo sta diventando l'eccezione.

L'Asia è stata l'obiettivo principale di questo progresso negli ultimi anni. Ma mentre la globalizzazione capitalista rompe il monopolio occidentale dell'opulenza, ci sono regioni in cui la penetrazione della ricchezza è ancora troppo lenta.

È il caso dell'Africa subsahariana. La percentuale di persone in condizioni di estrema povertà nel mondo è diminuita dal 36% al 10% tra il 1990 e il 2015 in tutto il mondo. Questo felice sviluppo, tuttavia, è stato più modesto nel continente nero: la povertà estrema è passata solo dal 54,3% al 41,1% nello stesso periodo, secondo i dati della Banca Mondiale. Le dinamiche demografiche unite a questi scarsi risultati economici fanno dell'Africa subsahariana una delle poche regioni in cui la povertà è aumentata negli ultimi anni in termini assoluti.

Si è tentati di guardare ai fattori storici, incolpando le potenze imperiali di un tempo; è vero, non hanno avvantaggiato i Paesi dominati più di quanto non abbiano servito le metropoli coloniali. Tuttavia la tesi antimperialista non può spiegare come alcuni Paesi abbiano fatto così tanti progressi partendo da zero. Nel 1950 il PIL pro capite della Corea del Sud era equivalente a quello della maggior parte dei Paesi dell'Africa subsahariana. Oggi la Corea è una forza trainante nell'economia globale e la sede di molte aziende che competono senza sosta con le più grandi multinazionali statunitensi.

Al contrario, molti Paesi africani hanno visto la loro situazione deteriorarsi sin dall'indipendenza. I pochi successi africani, come Botswana e Mauritius, si contano purtroppo ancora sulle dita di una mano. Non c'è bisogno di rifugiarsi nella geografia, geologia o emigrazione delle forze produttive del continente nero per spiegare la sua stagnazione: gran parte delle battute d'arresto africane è causata dalla mentalità anti-capitalista e dall'ostilità verso l'Occidente, cose che hanno prevalso sin dalla fine della colonizzazione.

In altre parole, il problema dell'Africa è ideologico oltre che economico. La maggior parte degli intellettuali affiliati ai movimenti nazionalisti e antimperialisti africani sono stati influenzati dal catechismo marxista-leninista. I seguaci di Lenin finirono per convincere le élite africane che l'economia di mercato era un complotto occidentale per schiavizzare il Terzo Mondo.

Che importa, ci dicono, se il collettivismo, a differenza del capitalismo, ha fallito ovunque sia stato attuato? Per alcuni l'aggiunta della lotta razziale alla lotta di classe prevale sull'adozione di ideologie e politiche che assicurano la prosperità economica. Gli anti-capitalisti insistono sul fatto che il sano pensiero economico debba essere respinto se le idee vengono dalle ex-potenze coloniali.

Questo discorso razzista ha molta più risonanza ora visto che è incorporato nelle scuole di pensiero postcoloniali la cui autorità si sta diffondendo in tutta Europa e negli Stati Uniti. Queste scuole tentano di fondere gli ideali universalisti della cultura liberale occidentale con gli sforzi per indebolire l'indipendenza e l'identità africane. Tuttavia se gli africani lo volessero, non dovrebbero essere liberi di abbandonare tratti ideologici e culturali locali meno utili per un tenore di vita più elevato? Se la conservazione della cultura indigena ha la meglio su tutto il resto, allora gli europei dovrebbero rifiutare le cifre indo-arabe a favore dei numeri romani più "tradizionali".

L'anti-capitalismo, alimentato da sentimenti ostili nei confronti dell'Occidente, è molto più paradossale in quanto condanna il continente nero a vivere sotto l'assistenza finanziaria delle odiate potenze. Il "fardello dell'uomo bianco", per usare il titolo del libro di William Easterly, diventa l'orizzonte esclusivo della lotta alla povertà attraverso l'attuazione di un "aiuto" inefficiente attraverso programmi di sviluppo paternalistici.

Questo paternalismo è tanto più perverso in quanto le dipendenze che crea indeboliscono ogni dubbio sulle istituzioni che ostacolano lo sviluppo del continente. In un momento in cui i flussi migratori sono sempre meno tollerati dall'opinione pubblica occidentale, diventa urgente decostruire le ideologie che impediscono agli africani di prosperare nelle loro terre d'origine. Chi avrà il coraggio di affrontare questo grande progetto culturale?


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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