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venerdì 27 dicembre 2019
La giapponesizzazione dell'Unione Europea
di Jesùs Huerta de Soto
Il tema della mia lezione di oggi è "La giapponesizzazione dell'Unione Europea". Vorrei iniziare con un'osservazione che Hayek propone nella sua teoria del capitale: "Il miglior test di un buon economista è comprendere il principio che la domanda di materie prime non è domanda di lavoro". Ciò significa che è un errore pensare, come molti fanno, che un semplice aumento della domanda di beni di consumo dia luogo ad un aumento dell'occupazione. Chiunque abbia questa convinzione non riesce a comprendere i principi più elementari della teoria del capitale, il che spiega perché non è così: la crescita della domanda di beni di consumo è sempre a spese del risparmio e della domanda di beni di investimento, e poiché la maggior parte dell'occupazione risiede nelle fasi di investimento più lontane dal consumo, si verifica sempre un semplice aumento del consumo immediato a spese dell'occupazione dedicata agli investimenti, e quindi dell'occupazione netta.
Aggiungerei a questo il mio test di un buon economista: il test del professor Huerta de Soto. Secondo i miei criteri, il miglior test per determinare se abbiamo a che fare con un buon economista è se la persona capisce perché è un grave errore credere all'iniezione e alla manipolazione del denaro. In altre parole, il miglior test di un buon economista secondo il professor Huerta de Soto è capire perché l'iniezione e la manipolazione del denaro non siano mai la strada per una prosperità economica sostenibile.
Né i keynesiani, né i monetaristi supererebbero la mia prova né quella di Hayek. Ad esempio, Keynes non ha mai capito che è possibile guadagnare denaro anche quando le vendite di beni di consumo non aumentano. Vedete, il profitto è uguale al reddito meno il costo. Il reddito può rimanere invariato, ma se si riducono i costi, è ancora possibile fare soldi. E come si riducono i costi al margine in un ambiente a crescita economica normale? Si sostituisce il lavoro (che è più costoso) con l'attrezzatura di capitale. Tale equipaggiamento che sostituirà il lavoro nelle fasi più vicine al consumo deve essere prodotto da qualcuno e genera un numero enorme di posti di lavoro: le macchine non danneggiano mai l'occupazione; al contrario, la creano su vasta scala.
Questo è qualcosa che Keynes non ha mai capito, e quindi avrebbe fallito sia il test di Hayek che il mio. La stessa cosa sarebbe successa ad una delle figure che, insieme a Keynes, ha causato il maggior danno non solo alla nostra disciplina, alla scienza economica, ma anche alla società. Il danno si è verificato perché nel suo lavoro, A Monetary History of the United States, egli difende l'idea che la Grande Depressione del 1929 fu il risultato dell'incapacità della Federal Reserve di iniettare abbastanza denaro; cioè, il suo intervento o manipolazione dell'offerta di moneta non fu sufficiente. Ovviamente, mi riferisco a Milton Friedman (che ora è elogiato da tutti i banchieri centrali a favore di politiche monetarie ultra lassiste). Anche lui avrebbe anche fallito la mia prova, non capendo che le iniezioni monetarie e la manipolazione non sono mai la via per una prosperità economica sostenibile.
La storia ci fornisce diversi esempi sulla solidità della domanda che io e Hayek poniamo per determinare se un economista sa davvero di cosa sta parlando. Ad esempio, possiamo prendere in considerazione l'afflusso di metalli preziosi in Spagna dopo la scoperta delle Americhe. Lungi dal generare prosperità, questo afflusso fece della Spagna una terra desolata, un vero deserto economico che non raggiunse la prosperità economica dei Paesi vicini fino a molti secoli dopo. Infatti l'arrivo dell'oro fece salire i prezzi nominali; cioè, affondò il potere d'acquisto dell'unità monetaria in Spagna. Di conseguenza i prodotti spagnoli cessarono di essere competitivi e divenne molto più economico acquistare all'estero, quindi non appena l'oro entrò nel Paese, lasciò i nostri confini per pagare ingenti importazioni. Come conseguenza di questo processo, i prodotti tradizionali della penisola iberica non erano più competitivi e i loro produttori fallirono e furono costretti ad emigrare. Ricordate che in quel momento c'erano tre percorsi professionali che una persona poteva intraprendere in Spagna: "La chiesa, il mare o la famiglia reale". In altre parole, si poteva diventare un sacerdote ed entrare in un convento vivendo con i benefici ecclesiastici; attraversare l'Atlantico in cerca della propria fortuna nelle Americhe; o servire il re come soldato nelle Fiandre. Tutto ciò spiega la tradizionale arretratezza economica della Spagna, la sua relativa letargia ed il sottosviluppo per secoli.
Un altro esempio storico è fornito dall'emergere del sistema bancario a riserva frazionaria: un altro tentativo (inizialmente privato e in seguito in cooperazione con le banche centrali e le autorità pubbliche) di iniettare denaro, in base al concetto che l'economia beneficia di tali iniezioni. In altre parole, l'idea è che la creazione di prestiti dal nulla senza il sostegno del risparmio reale sia qualcosa di positivo e favorevole, e un numero cospicuo di economisti l'ha difesa (persino economisti di fama come Joseph Alois Schumpeter, che, quindi, non avrebbero superato il mio test). Tuttavia non discuteremo ora degli effetti destabilizzanti esercitati dalle banche a riserva frazionaria sul sistema economico. Conoscete già il contenuto del mio libro, Money, Bank Credit and Economic Cycles, e gli argomenti sviluppati in esso.
Infine, un'altra chiara illustrazione dell'importanza del nostro test può essere trovata nelle selvagge manipolazioni ed iniezioni monetarie con cui le autorità di tutto il mondo hanno reagito alla Grande Recessione del 2008. Questa reazione raggiunge il suo apice in quella che chiameremo "Malattia economica giapponese", o "malattia della giapponesizzazione economica". In che cosa consiste questa sindrome o malattia, questa "malattia economica giapponese"? Daremo prima un'occhiata ai suoi sintomi e poi la analizzeremo teoricamente secondo l'ottica della Scuola Austriaca. Quindi esamineremo in che misura questa malattia è contagiosa e il rischio di trasmissione ad altre aree economiche, in particolare all'Unione Europea. Ma prima di iniziare ad analizzare i sintomi di questa malattia, cerchiamo di delineare il contesto storico dell'economia giapponese.
Il background attuale dell'economia giapponese
Dobbiamo tornare agli anni '60, in particolare agli anni '70 e all'inizio degli anni '80. Non so se ne siate consapevoli, ma in quegli anni l'economia giapponese era una delle più invidiate e ammirate al mondo. In ogni scuola di business il "miracolo economico giapponese" veniva studiato con entusiasmo. La gente lodava e adorava persino la cultura economica e imprenditoriale giapponese, che in qualche modo sembrava aver fatto quadrare il cerchio. I lavoratori erano fortemente protetti in ogni azienda, in un'atmosfera quasi familiare, in cambio dell'assoluta lealtà reciproca. Ciò è avvenuto in un contesto di costante innovazione e continua crescita economica delle esportazioni. È vero che il modello si basava in gran parte sul copiare le innovazioni e scoperte precedenti negli Stati Uniti e in Europa e sulla loro vendita a prezzi molto più bassi e ad un livello di qualità inizialmente accettabile e, successivamente, persino molto elevato. Tuttavia questo modello idealizzato, che tutti volevano seguire in quei decenni, si è rivelato in gran parte un miraggio. Nascondeva il fatto che sia la cultura giapponese che (soprattutto) l'economia giapponese erano (e sono ancora) estremamente rigide e interventiste, e che ciò che appariva in quegli anni come un'economia altamente prospera e stabile si basava su un'enorme bolla alimentata dalla manipolazione monetaria e dall'espansione del credito. La bolla si gonfiò principalmente nel mercato immobiliare ed i prezzi nelle aree più apprezzate di Tokyo e in altre importanti città giapponesi raggiunsero le migliaia di yen per centimetro quadrato. E in quell'ambiente euforico e speculativo, i grandi conglomerati industriali giapponesi (zaibatsu) divennero di fatto istituzioni finanziarie speculative che, come attività secondaria, producevano anche veicoli, dispositivi elettronici, ecc. All'inizio degli anni '90 scoppiò la bolla giapponese, in perfetta sintonia con la nostra teoria Austriaca del ciclo economico. Giusto per darvi un'idea, l'indice Nikkei è passato da trentamila all'inizio degli anni '90 a dodicimila dieci anni dopo. E ancora oggi, quasi trent'anni dopo, deve riprendersi. Si è verificato un crollo catastrofico del mercato azionario e diverse banche e istituti finanziari hanno fallito, uno dopo l'altro.
Dobbiamo concentrare la nostra analisi sulla reazione delle autorità economiche e finanziarie giapponesi allo scoppio della bolla e all'arrivo della crisi finanziaria. Ma prima di farlo, dobbiamo ricordare i quattro possibili scenari che possono seguire lo scoppio di una bolla finanziaria (come questa in Giappone).
I quattro possibili scenari che emergono dopo una crisi finanziaria
Ci sono quattro possibili scenari che possono emergere quando scoppia una bolla e arriva l'inevitabile crisi. In primo luogo, le autorità economiche e monetarie potrebbero insistere nel continuare a iniettare denaro nel tentativo di impedire l'arrivo della recessione. Alla fine ci sarà un'iperinflazione, come abbiamo visto in alcuni momenti in passato: ad esempio, dopo la prima guerra mondiale, l'iperinflazione in Germania ha quasi distrutto il sistema monetario tedesco e ha contribuito a portare Hitler al potere. Questo primo scenario è possibile ed è emerso in varie occasioni in passato, ma non si è sviluppato nell'ultimo ciclo, né nel caso del Giappone.
Il secondo scenario è esattamente l'opposto. Consiste in un crollo totale del sistema bancario e finanziario. Quando il sistema monetario scompare, deve evolversi di nuovo da zero e deve essere scelta una nuova forma di denaro per sostituire quello fiduciario distrutto e defunto. Questo è un altro possibile scenario catastrofico che non si è sviluppato nell'ultimo ciclo (né nei cicli precedenti, poiché le banche centrali sono state create proprio per supportare le banche commerciali quanto necessario per impedire loro di sospendere i pagamenti, una dopo l'altra, in una reazione a catena ).
Il terzo scenario è generalmente il più comune. Con grande difficoltà, e nonostante manipolazioni monetarie che possono essere più o meno timide o isolate, retoriche o reali, l'economia reale finisce per essere ristrutturata e adattarsi alla nuova situazione. In altre parole, i fattori produttivi vengono rimossi su larga scala da linee di investimento insostenibili e, in un ambiente di (relativa) libera impresa, gli imprenditori alla fine recuperano la loro fiducia e iniziano a rilevare nuove linee di business e progetti di investimento sostenibili; in questo modo la ripresa inizia gradualmente. È vero che gli esseri umani non imparano, e una volta che si è verificata una ripresa sostenuta, gli incentivi politici e istituzionali prima o poi porteranno ad una nuova espansione del credito artificiale che pianterà i semi per il ciclo successivo, e così via.
Questo terzo scenario è quello che di solito si è sviluppato nel mondo occidentale a seguito delle diverse crisi finanziarie che lo hanno devastato. Ad esempio, questo scenario si è manifestato negli Stati Uniti in seguito al più recente ciclo economico. Dobbiamo ricordare che la bolla ha avuto origine nell'economia americana e, dopo la crisi, la Federal Reserve ha iniettato un'enorme quantità di denaro. Tuttavia l'economia americana è una delle più flessibili al mondo. Infatti, in termini relativi, se qualcosa caratterizza l'economia americana, è la sua grande flessibilità, la sua notevole capacità di rimuovere rapidamente i fattori produttivi e riallocarli in altri investimenti sostenibili, scoperti da un'imprenditoria abbastanza libera e creativa. Pertanto, nonostante tutta l'aggressività monetaria e il crescente interventismo nell'economia americana, finisce sempre per ristrutturarsi e iniziare un percorso verso una ripresa sostenibile. È vero che a volte la ripresa inizia in modo lento, e in effetti anche oggi l'economia americana non è stata ancora completamente ristrutturata, né la politica monetaria è stata normalizzata. Come sappiamo, i banchieri centrali trovano estremamente difficile rialzare i tassi d'interesse e sono costantemente alla ricerca della scusa più piccola per abbassarli. In questo contesto, i tassi d'interesse a lungo termine sono stati portati al 3% (il che è insufficiente, poiché i tassi d'interesse dovrebbero aggirarsi intorno al 4 o 5% quando l'inflazione attesa è del 2%). E più di recente, in risposta alle pressioni politiche e con il pretesto di un aumento dell'incertezza, non solo è stata paralizzata la normalizzazione monetaria, ma è stato fatto un passo indietro e i tassi d'interesse sono stati abbassati di un quarto di punto. Ma in ogni caso l'economia americana è altamente flessibile e quindi fornisce l'esempio tipico di una ripresa che prima o poi diventa realtà.
Infine esiste anche un quarto scenario ed emerge quando l'ambiente economico, in netto contrasto con quello degli Stati Uniti, è molto rigido e pieno di tasse, interventismo e normative. In questo contesto estremamente rigido, quando le autorità monetarie insistono sull'iniezione di una grande quantità di denaro, si verifica inevitabilmente la sindrome che ho definito la "malattia economica giapponese", o "giapponesizzazione economica". E questo cocktail di grande rigidità istituzionale, tasse, mercati del lavoro altamente regolamentati, un crescente intervento statale nell'economia a tutti i livelli, manipolazione intensa ed iniezioni sfrenate di denaro, è precisamente ciò che caratterizza l'economia del Giappone e minaccia di diffondersi ad altre aree economiche nel mondo, a partire dall'Unione Europea.
Infatti le autorità giapponesi hanno risposto allo scoppio della loro bolla con una politica monetaria eccessivamente lassista, in cui è stato anche deciso che ci sarebbe stato un rinnovamento continuo dei prestiti. In altre parole, alle aziende incapaci di rimborsare i propri prestiti ne sono stati offerti di nuovi con cui ripagare quelli vecchi, e così via; e la banca centrale giapponese ha sostenuto e promosso il tutto. In Giappone è culturalmente inaccettabile che un'azienda fallisca; è culturalmente inaccettabile che i lavoratori vengano lasciati andare. Ogni azienda è come la madre di una famiglia numerosa e deve mantenere tutti i membri al sicuro e impiegati. Sebbene ufficialmente le cifre sulla disoccupazione potrebbero essere molto basse e sembra che tutti abbiano un lavoro, dobbiamo ricordare le fotografie di quei grandi dipartimenti di molte aziende giapponesi, in cui i dipendenti sono stati colti a dormire o a non fare nulla. Ufficialmente stanno lavorando, ma ovviamente la disoccupazione nascosta è enorme, e il calo della produttività e la perdita di competitività relativa sono molto elevati (soprattutto rispetto alla Cina, alla Corea del Sud e alle altre economie asiatiche emergenti). Inoltre i tassi d'interesse sono stati ridotti quasi a zero e, oltre a ciò, il governo ha aggiunto una politica fiscale aggressiva che ha spinto la spesa pubblica alle stelle.
Bene, questo mix di misure di politica economica è responsabile della generazione del quarto scenario, che abbiamo chiamato "giapponesizzazione", e al quale oggi dedico la mia lezione. In un ambiente di grande rigidità istituzionale ed economica, come in Giappone, la massiccia manipolazione monetaria e l'aumento sfrenato della spesa pubblica bloccano ogni possibile incentivo alla ristrutturazione spontanea dell'economia. Di conseguenza i fattori produttivi non vengono trasferiti da progetti improduttivi a linee di investimento alternative e sostenibili, che gli imprenditori possono scoprire solo in un ambiente di libertà, flessibilità economica e fiducia. È così che il Giappone è entrato in un periodo indefinito di recessione e letargia economica, che dura già da diversi decenni e da cui non è ancora riuscito a sfuggire.
Abenomics ed i sintomi principali della giapponesizzazione economica
Sarebbe inutile e noioso analizzare ora tutte le vicissitudini dell'economia giapponese negli ultimi decenni, ma ci concentreremo sull'Abenomics, l'ennesimo e più recente tentativo di stimolare l'economia giapponese. L'Abenomics prende il nome dal suo ideatore, il Primo Ministro giapponese, Shinzo Abe, che ha designato Haruhiko Kuroda, il governatore della banca centrale giapponese, di attuare quello che s'è dimostrato un tentativo fallito.
In cosa consiste l'Abenomics? Come ho detto, consiste nel fare di più, molto di più, della stessa cosa che in precedenza ha fallito. Se qualcosa caratterizza la politica economica del Giappone, è che ha usato e applicato (e con grande entusiasmo e ingenuità) l'intero arsenale di prescrizioni interventiste monetarie e fiscali contenute nei manuali del monetarismo e del keynesismo, ma senza ottenere nulla. Nell'ultimo capitolo dell'Abenomics, la Banca del Giappone ha adottato una politica monetaria ancora più aggressiva. Infatti le "politiche monetarie non convenzionali" non hanno avuto origine dalla Federal Reserve, ma, a partire dal marzo del 2011, proprio con l'implementazione pionieristica del quantitative easing da parte della banca centrale giapponese. Tutto ciò è stato combinato con una dose aggiuntiva, ancora più grande e più sproporzionata di spesa pubblica, che ha fatto salire alle stelle il deficit fiscale. E questa prescrizione è ciò su cui le autorità giapponesi hanno fatto affidamento per tirare fuori il Giappone dal suo letargo. A parte un breve "miglioramento" economico che ha avuto origine dal deprezzamento dello yen e che inizialmente ha favorito un po' le esportazioni, la letargia è tornata prorompente. In breve, non è stato realizzato nulla, se non rendere l'economia giapponese la più indebitata al mondo.
Infatti il debito pubblico del Giappone è pari al 250% del suo PIL. E noi che in Europa critichiamo il Portogallo e l'Italia il cui indebitamento è compreso tra il 110 e il 130%, e la Grecia, con una cifra del 170%. Cioè, questi Paesi hanno circa la metà del debito rispetto al Giappone. Per quanto riguarda il disavanzo annuale nei conti pubblici giapponesi, non è, ad esempio, il 3% stabilito come limite nella zona Euro, e neppure il 4 o 5%. Il disavanzo annuale nei conti pubblici giapponesi è del 6%, mentre la crescita economica è quasi piatta. In altre parole, si tratta di una chiara letargia economica e di un'inflazione molto bassa (di cui parleremo più avanti): tassi d'interesse intorno allo zero o addirittura negativi, inflazione dell'1% e occupazione apparentemente "piena" (con un volume molto elevato di disoccupazione nascosta e continue perdite di produttività e competitività).
Per usare un termine militare, il Giappone ha già esaurito tutte le sue munizioni interventiste disponibili e non solo non ha ottenuto nulla, ma il risultato è stato controproducente e deludente. Tutto ciò che poteva essere provato è stato provato, e non è stato raggiunto alcun obiettivo tangibile. E ora la domanda chiave è: perché non è stato raggiunto nulla? E la risposta è chiara: perché in tutti questi decenni non ci sono state riforme strutturali per liberalizzare l'economia, liberalizzare il mercato del lavoro, deregolamentare l'interventismo soffocante a tutti i livelli, abbassare le tasse su tutta la linea, riorganizzare ed equilibrare i conti pubblici, né ridurre la spesa pubblica.
E sebbene questo sia un risultato molto pietoso, il messaggio principale della mia lezione di oggi è che questa malattia o sindrome economica giapponese potrebbe essere facilmente trasmessa ad altre economie e non essere più esclusiva al Giappone. In altre parole, questo scenario di giapponesizzazione potrebbe emergere in qualsiasi altra economia in cui esistano le stesse condizioni e alle quali si risponda allo stesso modo; vale a dire, in qualsiasi ambiente altamente rigido senza flessibilità economica, dove gli imprenditori non sono in grado di recuperare la fiducia necessaria perché sopraffatti dalle normative, dalle tasse, dagli interventi e dalle molestie dello stato, insieme a gravi manipolazioni monetarie e fiscali. Ma prima di analizzare se esiste o meno un rischio che ciò accada anche all'Unione Europea, facciamo prima alcune riflessioni analitiche che ci consentiranno di interpretare meglio ciò che potrebbe accadere (a meno che non stia già accadendo). In particolare, che cosa ha da dire la teoria economica Austriaca su questi fenomeni legati alla malattia economica giapponese, o sindrome della giapponesizzazione?
L'analisi Austriaca della giapponesizzazione economica
In breve, il messaggio principale rivelato dagli strumenti analitici della Scuola Austriaca è che l'unico modo per recuperare una prosperità economica sostenibile a seguito di una bolla speculativa e di un'espansione del credito (che, come già sappiamo, portano inevitabilmente ad una crisi finanziaria e ad una recessione economica) è promuovere la liberalizzazione economica e la libera impresa a tutti i livelli. Non c'è altro modo.
Ciò significa che nelle economie molto rigide è necessario attuare una serie di riforme strutturali, tutte di natura microeconomica e nessuna ha a che fare con la manipolazione macroeconomica dell'offerta di moneta o della spesa fiscale. I politici e le autorità monetarie cedono inevitabilmente alla tentazione di impegnarsi in tale manipolazione in contesti di grande rigidità istituzionale, crisi finanziaria e recessione economica. In cosa consistono esattamente le necessarie riforme microeconomiche? Deregolamentazione sistematica dell'economia; liberalizzazione dei mercati, in particolare il mercato del lavoro (elemento chiave nel caso del Giappone e dell'Unione Europea); riduzione e riabilitazione del settore pubblico e della spesa pubblica; minimizzazione dei sussidi e riformare dello "stato sociale" per restituire responsabilità ai cittadini; e abbassamento delle tasse che sovraccaricano gli agenti economici, in particolare le tasse sugli utili imprenditoriali e sull'accumulo di capitale.
Dobbiamo ricordare che i profitti sono i segnali che guidano gli imprenditori nella loro costante ricerca di investimenti sostenibili. E un sistema fiscale che cade sui profitti, confonde i segnali che ci guidano e questo inevitabilmente rende caotico il calcolo economico e provoca un'errata allocazione delle risorse scarse. Inoltre le imposte sul capitale hanno un effetto particolarmente sfavorevole sui lavoratori dipendenti, e in particolare sui più vulnerabili, poiché la loro retribuzione dipende dalla loro produttività, che a sua volta dipende dalla quantità accumulata di capitale ben investito per lavoratore. Pertanto, per stimolare lo sviluppo economico e aumentare i salari, è necessario l'accumulo pro capite di un volume sempre crescente di beni strumentali ben investiti. Se i capitalisti vengono molestati e il capitale viene tassato, l'accumulo di capitale viene bloccato a spese della produttività del lavoro e, in definitiva, dei salari.
Tutte le riforme menzionate mirano ad incoraggiare l'efficienza dinamica delle nostre economie e a promuovere un ambiente in cui la fiducia imprenditoriale viene rapidamente recuperata e gli imprenditori possono rilevare gli errori di investimento commessi nella fase della bolla e trasferire i fattori produttivi dai progetti in cui si trovavano investiti erroneamente in progetti di investimento sostenibili. Ovviamente questi nuovi progetti di investimenti sostenibili non saranno scoperti dallo stato, né dai ministeri del governo, né da funzionari pubblici o esperti, ma solo da un esercito di imprenditori motivati in un contesto in cui hanno recuperato la loro fiducia. Pertanto abbiamo bisogno di un ambiente favorevole al mondo dell'imprenditoria e della libera impresa, un ambiente in cui le tasse sono basse e in cui vale la pena per gli imprenditori accettare l'incertezza nella continua ricerca e realizzazione di investimenti redditizi.
Cosa succede quando, invece di incoraggiare queste riforme strutturali, nessuna di esse viene attuata, l'economia rimane rigida e le uniche reazioni, come abbiamo visto nel caso del Giappone, sono una massiccia iniezione di moneta, l'abbassamento dei tassi d'interesse a zero e un aumento della spesa pubblica? Emergono due effetti molto importanti. In primo luogo, una politica monetaria ultra lassista è autolesionista; in altre parole, non raggiunge gli obiettivi prefissati e quindi non può produrre alcun risultato atteso (per motivi che presto prenderemo in considerazione). In secondo luogo, una politica monetaria ultra lassista agisce come una droga che blocca qualsiasi incentivo politico e istituzionale per avviare, sostenere e completare le necessarie riforme strutturali. Questi sono i due effetti più importanti. Una politica monetaria ultra lassista è autolesionista e non riesce a raggiungere i suoi obiettivi e, allo stesso tempo, blocca quasi automaticamente qualsiasi incentivo a portare avanti le riforme strutturali nella giusta direzione. E, come vedremo, questo ci interessa in prima persona in Europa, soprattutto se ricordiamo la politica monetaria che la Banca Centrale Europea ha impiegato.
Vi sono altri motivi per cui una politica monetaria estremamente lassista è autolesionista. Tanto per cominciare, se il tasso d'interesse è praticamente ridotto a zero, il costo di opportunità di detenere saldi di cassa viene praticamente eliminato. Cioè, in un'economia normale in cui i tassi d'interesse sono compresi tra il 2 e il 4%, detenere denaro in contanti comporta tal costo di opportunità. Se non investite i soldi, non riceverete suddetto tasso d'interesse. Se le banche centrali abbassano artificialmente il tasso d'interesse a zero, il costo di detenere contanti in tasca è zero in termini d'interesse. Questo spiega perché le politiche monetarie ultra lassiste sono sempre accompagnate pari passu da un aumento della domanda di moneta. In altre parole, le persone tengono in tasca gran parte del denaro iniettato. Soprattutto se, come accade nel nostro ambiente, non vengono attuate riforme strutturali. L'economia quindi rimane molto rigida, alimentando così una notevole incertezza sul futuro. Infatti uno dei motivi principali per detenere saldi di cassa è proprio quello di essere in grado di far fronte e rispondere a qualsiasi evento imprevisto che può verificarsi. Il desiderio di essere in grado di far fronte alle incertezze future è uno dei motivi principali per cui mettiamo da parte denaro. E in tali circostanze di grande incertezza e un'economia rigida e altamente controllata, oltre ad essere inondata di denaro creato ex novo, dove il costo di opportunità di detenere saldi di cassa è pari a zero, la cosa più sensata da fare è senza dubbio trattenere la liquidità.
A ciò dobbiamo aggiungere che la maggior parte degli imprenditori è ancora cauta e timorosa, a causa di quello che è successo nell'ultima crisi economica e finanziaria, in cui ha perso molto, e vede che l'economia è ancora altamente controllata, dove è praticamente impossibile fare un solo passo senza chiedere il permesso alle autorità, ci sono molte difficoltà burocratiche, e così via. Inoltre gli imprenditori sono pienamente consapevoli che se avranno successo, lo stato, attraverso varie imposte (imposta sulle società, imposta sul reddito e imposta sul patrimonio), prenderà più della metà degli utili guadagnati. In tali condizioni possiamo capire che la grande tentazione che gli imprenditori affrontano è quella di gettare la spugna ed evitare guai.
Dobbiamo tenere presente che tutte le azioni economiche sono incrementali e che al margine non vengono fatti passi per cercare progetti imprenditoriali sostenibili e lanciarli. E questo spiega la differenza tra un'economia che inizia a riprendersi in modo sostenibile, anche se forse con grande difficoltà, come nel caso degli Stati Uniti, e un'economia che rimane indefinitamente letargica o in recessione, come nel caso del Giappone.
Tuttavia le banche centrali ci vendono l'idea che la soluzione risieda nell'iniettare ingenti somme di denaro e abbassare i tassi d'interesse a zero, in modo che il sistema bancario garantirà prestiti (sostenibili o meno) e le persone saranno ispirate a richiederli. E affinché i banchieri evitino errori e concedano prestiti saggiamente (non alle persone sbagliate), verranno istituiti ogni sorta di precauzioni, ispezioni e nuovi regolamenti bancari (Basilea I, II e III), insieme a requisiti patrimoniali sempre più elevati, ecc. E alla fine cosa succede? Il sistema bancario non è in grado di prestare soldi che praticamente sono quasi gratis, perché gli imprenditori ordinari come gruppo rimangono diffidenti in un ambiente di grande incertezza e sfiducia, e quindi rimborsano i loro vecchi prestiti più velocemente di quanto ne richiedano di nuovi. Ciò provoca un'ulteriore contrazione monetaria che blocca, compensa e sterilizza gli effetti dell'iniezione di denaro.
Quindi le iniezioni monetarie si autodistruggono; non raggiungono nessuno dei loro obiettivi; bloccano e paralizzano la ripresa economica; e non aumentano mai la prosperità.
A questo punto arriviamo al massimo dello sdegno: tassi d'interesse negativi. In un'economia di mercato naturale e non ostacolata, i tassi d'interesse non possono mai essere negativi. Se il tasso d'interesse è negativo (ad esempio, se presto €1000 e alla fine di un anno mi vengono restituiti solo €990), questo è un incoraggiamento affinché le persone non facciano nulla ed evitino di investire. Motiva le persone a lasciare il denaro in tasca e un anno dopo a rimborsare esattamente €990 euro, intascando €10 senza fare nulla e senza dover correre alcun rischio imprenditoriale o sopportare le molestie e l'incomprensione dei burocrati. Se, come imprenditore, vado alla ricerca di guai, investo e le cose vanno male, potrei non essere in grado di restituire anche i €990; e se guadagno qualcosa la metà mi verrà tolta dai funzionari pubblici ed i sindacati renderanno la mia vita impossibile. Con tassi d'interesse negativi la cosa migliore da fare è richiedere prestiti all'infinito, sedersi e non fare nulla, quindi rimborsare meno dell'importo preso in prestito, mantenere la differenza e realizzare un profitto sicuro senza correre alcun rischio. Pertanto, in termini concettuali, un tasso d'interesse negativo porta direttamente a non fare nulla, alla letargia e alla giapponesizzazione economica.
Inoltre la politica monetaria aberrante dei tassi d'interesse negativi ha un altro effetto collaterale molto dannoso: è utilizzata per finanziare automaticamente e senza limiti il deficit pubblico, bloccando così i pochi incentivi che potrebbero spingere gli stati ad attuare qualsiasi riforma strutturale. Al contrario, una tale politica monetaria incoraggia le autorità ad aumentare le politiche di sussidio e l'acquisto di voti, che inevitabilmente affondano le nostre società nella demagogia e nel populismo. Infatti ne abbiamo un chiaro esempio nel nostro Paese: lo stesso giorno nel 2015 in cui la Banca Centrale Europea ha introdotto in Spagna e nel resto d'Europa un quantitative easing, tutte le riforme sono state paralizzate. E i Paesi che ne avevano maggiormente bisogno e che stavano per adottarle, ma non l'avevano ancora fatto, le hanno accantonate indefinitamente. Pertanto le politiche di manipolazione monetaria non raggiungono nessuno dei loro obiettivi prefissati; sono autolesioniste e bloccano l'unica cosa che potrebbe destare il Paese dal suo letargo: le riforme strutturali necessarie e la liberalizzazione economica.
E ora, il colpo finale. Storditi e sconcertati, i banchieri centrali vedono che non stanno raggiungendo nessuno dei loro obiettivi prefissati e stanno trasformando le loro economie in tossicodipendenti, poiché alla minima menzione della fine degli stimoli suddette economie affonderanno nella recessione. E poiché le autorità non vedono via d'uscita da questo circolo vizioso che esse stesse hanno creato, tutto ciò che viene loro in mente è di raccomandare l'adozione di una politica fiscale che implichi forti aumenti della spesa pubblica. Questo è ancora peggio, perché distorce ulteriormente l'economia reale incanalando un numero crescente di fattori produttivi in progetti che dipendono dallo stato e dalle decisioni politiche. Ad esempio, in Spagna l'occupazione è aumentata principalmente a causa del settore pubblico e dei progetti ad esso collegati (e, nel caso del Giappone, a progetti collegati ai Giochi Olimpici del 2020). Tuttavia il crescente volume di posti di lavoro nel settore pubblico non è sostenibile e la sua continua esistenza non è supportata dai consumatori e dipenderà esclusivamente dalla futura decisione dei politici di mantenere in piedi tali spese o meno. Ancora una volta, tali politiche fiscali preparano il terreno per lo sviluppo della malattia economica giapponese.
Le possibilità che la malattia giapponese si diffonda ad altre aree economiche: il caso dell'Unione Europea
Analizzeremo ora l'influenza che questa malattia giapponese ha esercitato su altre aree economiche, in particolare a seguito dell'ultima crisi finanziaria del 2008.
Non ho intenzione di parlare troppo degli Stati Uniti. Ho già detto che la differenza fondamentale tra l'economia giapponese e quella americana è che quest'ultima è molto più agile e flessibile. Ecco perché, nonostante tutti gli errori e le iniezioni monetarie, l'economia americana si è riallineata abbastanza rapidamente. In altre parole, nonostante il quantitative easing, gli USA sono usciti dalla recessione perché hanno notevolmente ristrutturato e corretto molti degli errori commessi. Tuttavia non completamente: ci sono ancora società molto grandi e settori nell'economia americana che rimangono fortemente dipendenti dal denaro a basso costo. In ogni caso gli americani hanno osato rialzare i tassi d'interesse, sebbene lo abbiano fatto con molta esitazione e successivamente li abbiano abbassati, il che potrebbe significare che si trovano nella tipica fase iniziale di una nuova espansione del credito, che a sua volta indicherebbe l'inizio di un nuovo ciclo entro pochi anni. L'ostacolo è rappresentato dalla politica protezionista di Trump, perché se imponesse nuovi dazi essi alimenterebbero un'allocazione errata dei fattori produttivi verso una struttura economica e imprenditoriale più chiusa, che quindi sarebbe meno produttiva e meno aperta al commercio estero. Questa ulteriore incertezza è stata utilizzata dalla Federal Reserve proprio come una scusa per sospendere temporaneamente e poi invertire la sua politica di normalizzazione monetaria. Con il minimo pretesto, i banchieri centrali sono sempre pronti a giustificare l'abbassamento dei tassi d'interesse, ma trovano estremamente difficile tornare a rialzarli. Tuttavia, sebbene l'economia statunitense sia la più grande al mondo, andiamo oltre e concentriamoci invece sull'area economica più vicina a noi e attualmente di maggiore interesse.
Il caso dell'Unione Europea è molto più interessante. Innanzitutto la politica della Banca Centrale Europea ha attraversato due fasi ben distinte: una in cui interveniva, più o meno come la Federal Reserve, ma ancora senza fare un passo verso un quantitative easing aggressivo. Durante questa prima fase, che è durata fino al 2015, l'euro è servito a disciplinare i governi europei più spendaccioni, soprattutto quelli dei Paesi periferici. Poiché vi erano obblighi di deficit pubblico da rispettare, in alcuni Paesi, tra cui la Spagna, è emersa una crisi del debito sovrano e la Banca Centrale Europea ha utilizzato questa crisi per forzare l'attuazione delle riforme necessarie in vari Paesi, tra cui la Spagna. La BCE è persino intervenuta nelle economie di diversi Paesi, tra cui Irlanda, Grecia e Portogallo. Nei Paesi in cui sono state attuate le riforme, le economie sono state ristrutturate e alla fine hanno superato la crisi. Questo è il caso della Spagna, in cui il governo, nonostante le grandi difficoltà e il grave errore di aumentare le tasse piuttosto che ridurre la spesa pubblica, ha fatto diversi passi nella giusta direzione approvando alcune riforme strutturali di cui la nostra economia aveva bisogno.
Il problema più grave si è verificato durante la seconda fase, quando la BCE ha introdotto la sua politica monetaria ultra lassista: abbassare i tassi d'interesse a zero (e anche meno di zero), lanciando un quantitative easing molto aggressivo. Infatti la BCE ha acquistato debito sovrano e societario ad un ritmo di €80 miliardi al mese, il che significa quasi €1000 miliardi all'anno. Stiamo parlando del 10% del PIL della zona Euro per quasi quattro anni: 2015, 2016, 2017 e 2018. Poi il programma è stato temporaneamente sospeso, solo per essere reintrodotto nel novembre 2019 in mezzo a forti controversie e con l'espressa opposizione di Germania, Francia, Olanda e altri Paesi (ad un ritmo di €20 miliardi al mese).
Questa seconda fase è stata disastrosa. Proprio nel momento in cui la politica monetaria estremamente lassista della BCE è stata avviata, come dimostra il caso della Spagna, tutte le politiche di riforma strutturale, riduzione delle spese e liberalizzazione di cui la rigida economia europea aveva bisogno sono state sospese. Rispetto al Giappone l'Europa è composta da un insieme eterogeneo di economie. Mentre il Giappone comprende un'economia e una società molto uniformi, la varietà economica in Europa è molto maggiore. Alcune economie europee erano già relativamente solide, per altre ragioni storiche e politiche, come nel caso dell'economia tedesca; altre invece erano molto rigide, e in un certo senso più giapponesi, nonostante la loro ricchezza. Queste ultime sono le vere “economie malate dell'Europa”: la Francia e, in particolare, l'Italia. Queste economie hanno un lunghissimo elenco di riforme strutturali in corso e non ne hanno attuata neanche una, soprattutto da quando la BCE ha iniziato ad acquistare il loro debito pubblico. Un altro gruppo di Paesi aveva avviato riforme strutturali nella giusta direzione, come l'Irlanda, il Portogallo e persino la Grecia, e le hanno già quasi completate; mentre altri, come la Spagna, sono solo a metà strada. I Paesi che sono riusciti a completare le loro riforme sono molto fortunati, ma in Spagna tutte le riforme successive (quelle che erano state programmate ma sono ancora in corso) sono state sospese. Se non stiamo attenti, ciò avrà un costo sociale ed economico molto elevato, specialmente se il populismo sarà rafforzato sulla scia di aumenti di tasse, sussidi e spesa pubblica già annunciati dall'amministrazione socialista.
Sotto molti aspetti l'economia tedesca è paradigmatica. Senza dubbio è una potenza nel settore dell'export, ma come è arrivata ad esportare così tanto? Esporta così tanto, perché produce prodotti di altissima qualità. E perché produce prodotti di altissima qualità? Perché tradizionalmente la cultura imprenditoriale tedesca si è sviluppata in un contesto commerciale molto difficile; cioè, con una valuta, il Marco tedesco, che si apprezzava costantemente rendendo sempre più difficile esportare qualsiasi cosa. E in questo contesto l'unico modo per esportare prodotti era quello di produrre i migliori al mondo. In altre parole, in tali circostanze i tedeschi non avevano altra scelta che scoprire, innovare, produrre e presentare i migliori prodotti al mondo: veicoli, strumenti di precisione, macchinari, ecc. Quindi, nonostante la falsa logica della svalutazione monetaria competitiva sostenuta da keynesiani e monetaristi, la Germania è diventata una delle potenze nel settore dell'export più forti al mondo. Ciò smentisce l'analisi protezionistica di keynesiani e monetaristi: è una valuta forte, e non debole, che a lungo termine alimenta il successo imprenditoriale. Ma la maggior parte degli analisti sono concettualmente compromessi dai loro modelli matematici, in cui la svalutazione competitiva sembra essere la ricetta ideale poiché porta immediatamente ad un'apparente prosperità a breve termine derivante dal rapido aumento delle esportazioni che ogni giro di svalutazione rende possibile. Questa prosperità la possiamo definire "pane per oggi, fame per domani". È fondamentalmente ingannevole e di breve durata, e comporta l'inevitabile costo di smorzare lo spirito imprenditoriale creativo e innovativo, l'impulso a rendere le cose sempre migliori. Perché dovremmo fare uno sforzo se, con una valuta debole, i nostri prodotti si vendono da soli? Tenete sempre a mente il mio "test del buon economista": la manipolazione monetaria e fiscale non produrrà mai una prosperità economica sostenibile, ma il contrario. Tuttavia la maggior parte dei miei colleghi non supererebbe il test; la prova di ciò sta nel fatto che elogiano costantemente il quantitative easing ogni volta che viene lanciato in Europa. Senza dubbio questa politica ha svalutato l'euro e tale perdita di valore ha permesso alla Germania, almeno nel breve termine, di esportare prodotti molto più facilmente e, di conseguenza, ha smorzato il suo vantaggio competitivo tradizionale basato su miglioramenti perpetui in termini di qualità. L'euro svalutato ha agito come una droga: ha permesso all'economia tedesca di adagiarsi sugli allori, di conseguenza la Germania è ora obbligata a recuperare il terreno perso, se non finisce in recessione prima ovviamente.
Francia e Italia raccontano una storia diversa. Le loro economie sono estremamente rigide ed è praticamente impossibile portare avanti anche una sola riforma strutturale. Prendiamo, ad esempio, Macron: con tutte le sue riforme promesse, nessuna è stata finora realizzata. Portare a termine riforme in Francia? Giammai! È praticamente impossibile, e quindi la Francia, che è un Paese molto ricco, si sta rapidamente avvicinando alla giapponesizzazione.
La situazione dell'Italia, sebbene più pittoresca, è persino peggiore di quella della Francia. E per quanto riguarda il resto dei Paesi periferici, ne abbiamo già discusso, in particolare la Spagna. Tutti i segnali indicano un rallentamento della crescita economica di cui la Spagna ha beneficiato grazie alle timide riforme nella giusta direzione adottate in passato. Questa situazione non promette nulla di buono, soprattutto se, come annunciato dall'amministrazione socialista, le tasse e la spesa pubblica saranno aumentate e le normative verranno rafforzate (aumenti del salario minimo, regolamentazione del mercato degli affitti, obbligo per i lavoratori di timbrare il cartellino svariate volte al giorno, ecc.).
Miti economici insostenibili
Vorrei concludere con uno sguardo critico a molti miti economici che leggiamo e sentiamo ancora e ancora sui giornali e in televisione.
Il primo mito è che l'aumento del salario minimo in Spagna (da €600 a €900, e infine a €1.000 o €1.200 euro) non avrà un effetto negativo sull'occupazione. Tutta la teoria economica mostra che gli aumenti del salario minimo aumentano la disoccupazione, l'economia sommersa e la cattiva allocazione del fattore lavoro. Teoricamente l'unico modo in cui un tale aumento potrebbe non avere questi effetti negativi sarebbe se lo stato stabilisse un salario inferiore al salario di mercato già esistente. Ma, in tal caso, perché impostarne uno? Tuttavia non è così che funziona. Inoltre, a seguito di questo cambiamento, se, nella costellazione di diversi lavori e salari, c'è persino un lavoratore il cui prodotto a valore marginale è inferiore al minimo legale, sarà sufficiente per impedire che quel lavoratore venga assunto o, se già sta lavorando, per licenziarlo. Senza dubbio questa misura causerà (e sta già causando) disoccupazione e un'allocazione errata delle risorse (sebbene in economia i cambiamenti avvengano sempre gradualmente e al margine). La stessa Banca di Spagna ha pubblicato uno studio in cui prevede che almeno 150 mila posti di lavoro saranno distrutti e questi sono lavori svolti dalle persone più vulnerabili (giovani che entrano nel mondo del lavoro, donne, immigrati, ecc.). Ad esempio, è ovvio che un immigrato che, con grande difficoltà, è riuscito a mettere in ordine i suoi documenti, avrà difficoltà a trovare un lavoro se i costi per assumerlo saranno oltre €16.000 all'anno (€900 al mese in quattordici buste paga, più il 30% in previdenza sociale). Nessuno lo assumerà! (E chiaramente pochissime famiglie saranno in grado di permettersi di pagare €16.000 all'anno a quelle persone che si prendono cura dei loro anziani, o ai loro collaboratori domestici, un settore che, fino ad ora, ha impiegato centinaia di migliaia di persone). Quindi il nostro immigrato molto probabilmente sarà costretto a vagare da un posto all'altro nell'economia sommersa. L'ipocrisia dello stato in questa materia è sconcertante. Diamo il benvenuto a tutti ("Rifugiati benvenuti!"), ma attenzione, nessuno troverà un lavoro qui nell'economia ufficiale, perché ora il salario minimo è di €900 e lo stato prevede di portarlo a €1.000 o addirittura a €1.200. (E perché non aumentarlo a €2.000 o anche di più se l'occupazione non ne risentirà?)
Il secondo mito che ho spesso commentato è che le banche centrali hanno salvato le nostre economie durante la Grande Recessione. Questo è il mito del "pompiere-piromane", poiché proprio gli stessi banchieri centrali hanno orchestrato l'espansione del credito e generato la bolla che in seguito ha portato inesorabilmente ad una crisi. E ora sembrano i responsabili del salvataggio, perché hanno impedito alle banche di fallire. Hanno salvato Bankia, ma hanno lasciato fallire Banco Popular perché era più piccolo. Hanno commesso errori, come quando hanno lasciato fallire Lehman Brothers e tutto il resto è quasi crollato. I banchieri centrali sono intervenuti in maniera irresponsabile e ad hoc, cosa che genera grande incertezza e costante instabilità finanziaria.
Il terzo mito è che il quantitative easing fosse necessario per evitare una crisi deflazionistica. Questo non è vero. Ad esempio, il QE europeo non era necessario. Quando è stato avviato nel gennaio 2015, la M3 europea stava già crescendo da sola al 4%; cioè, ad un ritmo molto vicino all'obiettivo del 4,5%. Il QE è stato del tutto superfluo e ha avuto un effetto dannoso e autolesionistico, oltre a bloccare le riforme necessarie all'Eurozona. Persino la vecchia retorica di Mario Draghi, secondo cui la politica monetaria non sostituisce le riforme strutturali che i diversi Paesi devono attuaree per adempiere ai loro obblighi di Maastricht, è stata quasi totalmente dimenticata e sostituita con una richiesta disperata di maggiori spese fiscali. Ormai è così ovvio che nessuno sta attuando riforme strutturali perché la Banca Centrale Europea sta finanziando i governi gratuitamente che sarebbe ipocrita continuare a menzionarle. È ovvio che la BCE ha tradito i suoi principi fondanti. In definitiva, sta finanziando il deficit pubblico di tutti i Paesi. (Ricordate che possiede già il 30% del debito pubblico totale, incluso quello spagnolo.) Inoltre tenta di stimolare la crescita economica (come la FED), quando ha l'autorità solo per mantenere la stabilità monetaria. Di conseguenza la BCE è diventata un ostaggio dei propri errori, della sua politica monetaria ultra lassista. Nel momento in cui annuncerà di voler ritirare questa politica, seguirà una recessione e nessuno è disposto ad affrontarla. E se la BCE continuerà ad iniettare denaro, condannerà l'Eurozona ad una letargia economica indefinita.
Il quarto mito (o meglio, dogma della fede) è che l'inflazione debba essere inferiore al 2%. Ma perché? Da dove salta fuori questo numero magico? Da modelli matematici. Tutti gli "esperti" si sono chiusi in una sala riunioni: i governatori della BCE, la Banca del Giappone, la Federal Reserve, la Banca d'Inghilterra, ecc. E poi, bingo! Hanno determinato che il tasso dovrebbe essere del 2%. Ma perché? È un obiettivo bizzarro, totalmente arbitrario e molto difficile da raggiungere in un ambiente in cui la produttività è aumentata a tamburo battente all'inizio di questo secolo sulla scia della rivoluzione tecnologica e dell'introduzione di numerose innovazioni. In questo contesto il 2% è un obiettivo irrealistico e per raggiungerlo c'è bisogno di una politica monetaria super lassista che causa tutti gli effetti di cui abbiamo discusso. Questi utimi destabilizzano l'economia e il mondo finanziario e, come abbiamo visto, portano al processo di giapponesizzazione in economie rigide come la nostra. Un paio di anni fa sono stato invitato ad un incontro presso il Kiel Institute for the World Economy. All'incontro hanno partecipato anche, tra gli altri esperti, un ex-capo economista della BCE. Bene, alla fine siamo arrivati alla conclusione che, nelle circostanze attuali, l'obiettivo d''inflazione non dovrebbe essere del 2% ma dello 0%, e l'obiettivo di riferimento per la crescita di M3 dovrebbe essere compreso tra il 2 e il 2,5%. Se fossero stati questi gli obiettivi, ci saremmo risparmiati la politica monetaria ultra lassista ed il processo di giapponesizzazione. E, paradosso dei paradossi, di recente si è parlato di rendere l'obiettivo più flessibile, ma non di sospendere la politica ultra lassista (una politica non necessaria quando l'obiettivo d'inflazione è abbassato allo 0 o all'1%), per giustificare un aumento dei tassi d'inflazione durante l'intero ciclo.
Il quinto mito che avrete sicuramente sentito è che il tasso d'interesse naturale sta scendendo. Che ipocrisia! Abbassano artificialmente il tasso d'interesse a zero (o addirittura lo rendono negativo), e quindi sostengono che il tasso naturale stia calando! Nessuno può osservare il tasso d'interesse naturale. Tutto ciò che si può osservare è il tasso d'interesse lordo nel mercato del credito. In assenza di interventi coercitivi, questo tasso include il tasso d'interesse naturale, i premi per l'inflazione o la deflazione attesa, ed i premi per il rischio (e occasionalmente, a brevissimo termine, un premio di liquidità negativo). Ma è ovvio che nessuno può osservare il tasso d'interesse naturale. Alcuni dicono: "Beh, un proxy potrebbe essere il tasso d'interesse delle obbligazioni prive di rischio". Un momento! Sono proprio le obbligazioni sovrane "prive di rischio" che vengono comprate, generando nei loro mercati una bolla che non era mai stata vista prima! Che sfacciataggine e ipocrisia!
Il sesto e ultimo mito di cui discuteremo è il mantra secondo cui i tassi d'interesse sono molto bassi perché le persone stanno risparmiando molto e la popolazione sta invecchiando. Si dice che la giapponesizzazione sia dovuta al fatto che la popolazione giapponese stia invecchiando sempre di più e stia risparmiando molto. Questa argomentazione è falsa e confonde il risparmio con l'inflazione (nel tradizionale senso austriaco, ovvero, crescita monetaria). Benjamin Anderson diceva che secondo questa tesi, maggiore è l'iniezione di denaro, maggiore è il risparmio! Naturalmente il denaro viene iniettato e tutti lo tengono in tasca, come abbiamo visto, e quindi si sostiene che le persone stiano risparmiando molto. Non è così. Quello che sta accadendo è che c'è un aumento della domanda di saldi di cassa (stock) e che non deve essere confuso con un aumento del risparmio (flow). E per quanto riguarda l'invecchiamento della popolazione, anche tale tasi è debole. Quando le persone vanno in pensione, consumano ciò che avevano risparmiato in precedenza. Dobbiamo renderci conto che in Giappone la domanda di moneta è cresciuta notevolmente e questa viene in gran parte incanalata in titoli di stato, che sono trattati come denaro contante. Che bomba ad orologeria per il Giappone se dovessero crollare i mercati obbligazionari!
Ricordate ciò che abbiamo detto su questi miti, in modo da poterli confutare quando li sentite anche da menti prestigiose nella nostra disciplina.
Conclusione
Concluderò ora dove ho iniziato quando ho presentato il mio test alternativo per integrare quello di Hayek, e la mia conclusione è che gli stimoli monetari e fiscali sono fallimentari perché non risolvono il problema di fondo: la rigidità dell'economia, vale a dire, regolamentazione eccessiva, tasse elevate, spesa pubblica sfrenata e conseguente demoralizzazione degli imprenditori. Un'economia può risorgere da una recessione solo se la classe imprenditoriale è motivata. Non sto parlando degli "spiriti animali" di Keynes, che ci rendono maniaco-depressivi. Noi imprenditori siamo stati molestati e demoralizzati con la forza. Fintanto che le autorità continuano a regolamentare, aumentare le tasse e distribuire denaro, la cosa più semplice da fare è trattenere i nostri soldi e lasciare che gli altri facciano gli investimenti, quelli che vogliono (e ce ne sono pochissimi, se ce ne sono ). Inoltre i soldi facili bloccano l'attuazione di qualsiasi riforma strutturale e la rendono politicamente impossibile. Quindi l'unico modo in cui le nostre economie possono sfuggire alla giapponesizzazione (stagnazione strutturale e bassa inflazione) è bloccato. E qual è la nostra unica via di fuga da questo problema verso cui sta scivolando pericolosamente la zona Euro? Questa è la nostra grande sfida per i prossimi anni: la sfida che la Francia deve affrontare (che sembra non avere scampo), la sfida che deve affrontare l'Italia e la grande sfida che deve affrontare anche la Spagna. È vero che la Francia ha un'economia molto ricca e una grande quantità di capitale accumulato, come il Giappone, ma questo fatto tende a nascondere i problemi. I risultati sono chiari: letargia e fallimento di qualsiasi politica orientata alle riforme. Qual è l'unica via d'uscita da questo circolo vizioso? Normalizzare la politica monetaria il prima possibile e creare un quadro che costringa gli stati ad attuare le riforme strutturali (seppur dolorose) di cui le nostre economie hanno bisogno. L'attuale politica monetaria ultra lassista va a vantaggio solo di pochi a scapito della maggior parte dei cittadini, in particolare dei risparmiatori: stati alla deriva e detentori di titoli a reddito fisso, hedge fund e speculatori. Inoltre questa politica ha creato una bolla nei mercati del reddito fisso che fa sembrare una goccia nel mare la bolla immobiliare generata dall'ultima Grande Recessione.
Una volta normalizzata la politica monetaria, gli stati saranno obbligati a controllare le proprie spese, introdurre politiche di (vera) austerità e incoraggiare le necessarie riforme, che sono state sospese o rinviate nel momento sbagliato e di cui abbiamo disperatamente bisogno oggi per recuperare la nostra prosperità.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
Grande articolo del professor De Soto.
RispondiEliminaNel diciannovesimo secolo, nella confederazione Americana, persone come Draghi venivano impiccate.
Questo era il destino dei falsari.
Complimenti (sia all'autore sia al traduttore) per questo articolo davvero illuminante. Eccezionale.
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