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mercoledì 6 novembre 2019
Lo stimolo economico non porta altro che stagnazione: il caso del Giappone
di Mihai Macovei
Gli sforzi per stimolare la crescita economica finiscono per ostacolarla. La teoria Austriaca del ciclo economico (ABCT), enunciata da Ludwig von Mises, spiega molto bene questo apparente paradosso. L'abbassamento artificiale dei tassi d'interesse di riferimento al di sotto del tasso di mercato innesca un'espansione del credito fiduciario e del sistema bancario a riserva frazionaria. C'è un boom le cui caratteristiche principali sono sia gli investimenti improduttivi che il consumo eccessivo. I primi sperperano i fattori di produzione in attività economiche meno urgenti per i consumatori, mentre il secondo indebolisce la creazione dello stock di capitale. Entrambi i processi intaccano la produttività a lungo termine e la crescita sostenibile.
Tuttavia l'opinione pubblica vorrebbe che l'illusione della prosperità durante il boom artificiale durasse indefinitamente. Invece di lasciare che la recessione curi la cattiva allocazione delle risorse, gli stati spingono per una maggiore espansione del credito fiduciario e della spesa pubblica. Ciò peggiora l'esaurimento del capitale, abbassando gli standard di vita futuri.
Seguendo questo schema, la maggior parte delle economie si è affrettata ad attuare stimoli di crescita in seguito alla crisi finanziaria globale del 2008/2009. Allo stesso tempo, esperti e accademici mainstream hanno cercato di zittire tutte le voci e gli argomenti dissenzienti. Nel frattempo è diventato ovvio che l'economia globale è intrappolata in un circolo vizioso di stimolo monetario, debito sempre crescente e prospettive di crescita a lungo termine in costante deterioramento.
Un esempio lampante di ciò è il Giappone, le cui prospettive di crescita si sono sgretolate dopo quasi tre decenni di programmi di stimolo alla crescita.
A seguito dell'esplosione di una bolla patrimoniale nei primi anni '90, il Giappone ha tentato testardamente di rilanciare la crescita economica con politiche monetarie e fiscali molto allentate. Il "decennio perduto" del Giappone si è infine esteso a quasi tre decenni di crescita sotto la media. La crescita del PIL reale è diminuita drasticamente dal 4% circa negli anni '70/'80 a meno dell'1% in media dal 1991. Allo stesso tempo, il PIL pro capite si è ridotto rispetto ad altre economie avanzate, sia se misurato in dollari USA (Grafico 1) sia se aggiustato alla parità di potere d'acquisto, vale a dire, al differenziale di inflazione (Grafico 2).
All'indomani della sua crisi, il Giappone ha fatto tutto il possibile per sostenere il boom e mantenere un livello gonfiato di salari e prezzi. È stata la prima tra le principali economie a sperimentare una politica dei tassi d'interesse pari a zero già nel 2001 e ad introdurre un quantitative easing e tassi d'interesse negativi durante il 2013/2014: il tentativo dell'Abenomics di stimolare ulteriormente la crescita economica. Tuttavia non si sono fatti vedere né la crescita né l'inflazione, perché le presunte misure a sostegno della crescita economica hanno impedito una liquidazione degli investimenti improduttivi e delle distorsioni dei prezzi.
Innanzitutto il Giappone ha impiegato più di 15 anni per ripulire i bilanci delle sue banche e riaprire il canale del credito alle nuove imprese. La Banca del Giappone (BoJ) ha tentato invano di reflazionare l'economia, poiché le banche si sono rifiutate di concedere prestiti a causa dei crediti inesigibili. La BoJ ha ampliato il proprio bilancio dal 4% circa del PIL all'inizio degli anni '90 al 100% del PIL nel 2018, principalmente acquistando titoli di stato giapponesi. Allo stesso tempo il credito al settore privato è diminuito di circa 60 pps del PIL, verso il livello del 1980 (Grafico 3). In secondo luogo, fino ad oggi le "imprese di zombi" non redditizie e indebitate sono state mantenute in vita grazie a tassi d'interesse molto bassi e sostegno pubblico sotto forma di condizioni di prestito favorevoli alle PMI e ristrutturazione dei prestiti. Tutto ciò ha depresso gli investimenti delle imprese, ha mantenuto alti i salari e ha impedito l'allocazione delle risorse economiche ad attività più produttive. In terzo luogo, politiche macroeconomiche non corrette e prezzi/salari inflazionati hanno depresso la fiducia degli investitori e gli investimenti di capitale. Pertanto le società grandi e redditizie hanno preferito investire in asset finanziari nazionali o esteri, compresi gli IDE esteri, che dagli anni '90 sono saliti dallo 0,5% circa del PIL all'anno a quasi il 4% del PIL.
Ciò che è rimasto un mistero per molti economisti mainstream è l'incapacità del Giappone di innescare l'inflazione, nonostante il suo esperimento persistente col quantitative easing. Molte delle spiegazioni, come la parsimonia dei consumatori, l'avversione al rischio e i cambiamenti nei modelli di consumo determinati dall'invecchiamento della popolazione, rimangono poco convincenti rispetto alla pressione deflazionistica che si è verificata da quando il boom del credito si è fermato dopo un sensibile aumento dei prezzi al consumo e immobiliari negli anni '80 (Grafico 4). La "guerra alla deflazione" del Giappone ha impedito l'aggiustamento dei prezzi relativi distorto nel boom, perpetuando così una cattiva allocazione dei fattori di produzione e indebolendo gli investimenti guidati dal mercato.
Il rapporto investimenti/PIL è diminuito di oltre 10 punti percentuali sin dal 1980 e la flessione degli investimenti non ha potuto garantire la completa sostituzione del capitale ammortizzato. Di conseguenza lo stock di capitale netto per lavoratore ha iniziato a diminuire sin dall'inizio degli anni 2000 (Grafico 5), causando un calo della produttività del lavoro a quasi un quarto al di sotto della metà superiore dei Paesi OCSE (OCSE, 2019) e oltre un terzo al di sotto di quella degli Stati Uniti. Inoltre i salari medi reali sono rimasti invariati per quasi tre decenni, mentre il divario relativo coi salari statunitensi o tedeschi si è ampliato in modo significativo (Grafico 6). Ciò influisce anche sul reddito futuro dei pensionati, poiché i tassi lordi di sostituzione delle pensioni rappresentano solo il 58% circa dei guadagni individuali in Giappone contro il 71% negli Stati Uniti (OCSE, 2017).
In conclusione, a seguito di successivi cicli di espansione monetaria e di deficit che hanno gonfiato il debito pubblico lordo a quasi il 240% del PIL, il Giappone non ha permesso una recessione curativa per liquidare i cattivi investimenti dopo il boom degli anni '80. Qual è stato il costo di procrastinare l'adeguamento dei prezzi relativi e della struttura della produzione alle esigenze del mercato? Una graduale erosione dello stock di capitale per lavoratore e della produttività del lavoro. In linea con la teoria misesiana del ciclo economico, quanto evidenziato finora ha portato ad un impoverimento relativo in termini di salari reali stagnanti e livelli pensionistici più bassi. Questo risultato indesiderato può servire da campanello d'allarme per altri Paesi impegnati sullo stesso percorso di stimolo continuo della crescita economica, permettendo loro di evitare la trappola della "Giapponesizzazione".
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
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