Bibliografia

mercoledì 15 maggio 2019

Le banche centrali stanno tenendo in piedi il mercato azionario

Il rallentamento giapponese non sorprende più nessuno, perché è al suo terzo decennio di stagnazione per mascherare l'insostenibilità di un modello demografico e produttivo con politiche di spesa pubblica e monetarie inconcludenti. Il problema più preoccupante, però, rimane l'Europa che ha completamente abbandonato il suo programma di riforme per scommettere tutto sul miraggio della politica monetaria, mentre fermentano i rischi economici, demografici, statali e politici. I dati dalla Germania rimangono deboli e nel resto dell'Eurozona la fragilità delle economie è legata sia agli squilibri fiscali che all'interventismo statale eccessivo. Ciononostante la maggior parte dei Paesi dell'Eurozona sta pericolosamente ignorando la possibilità di una crisi economica e, peggio ancora, propone una grande spesa pubblica e tasse elevate come "soluzione". Alcuni richiedono addirittura uno stimolo enorme dalla Germania. Fare gli stessi errori degli altri Paesi non è una politica di crescita, è un'azione suicida. Non ci sono prove che la Germania stia importando meno del necessario, al contrario, il suo utilizzo industriale è passato dal 71% del 2009 all'86% di oggi. Nel frattempo gli investimenti privati ​​sono ai massimi pre-crisi. Non possiamo chiedere alla Germania di commettere gli errori degli altri per mascherare gli squilibri dei suoi partner europei. Il problema dell'Eurozona è triplice: demografico, interventismo fiscale/monetario e mancanza di leadership tecnologica. Se aggiungiamo il rischio politico di alcuni governi che vogliono penalizzare i settori ad alta produttività mentre sovvenzionano quelli a bassa produttività, abbiamo un quadro economico che non sarà risolto da altre iniezioni di liquidità e tassi bassi. Con i tassi a zero e quasi €1,800 miliardi di liquidità ex novo, il problema dell'Unione Europea non è il moderato rallentamento globale. Sta perpetuando un modello rigido, interventista e pesantemente invadente dal punto di vista fiscale e sociale.
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di Thorsten Polleit


I mercati finanziari sembrano avere molta fiducia nell'efficacia della politica monetaria delle banche centrali, nel senso che mantenendo bassi i tassi d'interesse le economie continueranno ad espandersi ed i prezzi degli asset, in particolare, continueranno a salire. C'è una buona ragione affinché risparmiatori ed investitori ragionino molto attentamente sulla presunta verità di tale affermazione.

La domanda chiave è questa: qual è la relazione effettiva tra il tasso d'interesse ed i prezzi degli asset, in particolare i prezzi delle azioni? Per rispondere a questa domanda, può essere utile dare un breve sguardo al ben noto "Modello di Crescita di Gordon", il quale ci mostra la relazione funzionale tra il prezzo delle azioni di un'azienda e il suo livello di profitto, il tasso d'interesse e il tasso di crescita del profitto dell'azienda. La formula è:

prezzo azione = D / ( i - g )

dove D = dividendo, i = tasso di interesse e g = crescita del profitto.

Se, per esempio, D = $10, i = 5% e g = 0%, il prezzo delle azioni sarà $200 [10 / (0,05 - 0) = 200]. Se g sale fino al 2%, il prezzo delle azioni salirà a $333,3. Se la banca centrale abbassa il tasso d'interesse al 4%, il prezzo delle azioni salirà ulteriormente a $500,0. Se poi g scendesse all'1%, il prezzo delle azioni scenderebbe a $333,3, e se g scendesse ancora più in basso allo 0,005%, il prezzo delle azioni scenderà a $285,7.


Questo piccolo esempio mostra che una banca centrale può far salire i prezzi delle azioni abbassando il tasso d'interesse. Tuttavia che dire dell'effetto del tasso d'interesse sulla crescita degli utili delle imprese? Da un punto di vista keynesiano si potrebbe dire che tassi d'interesse più bassi innescano nuove spese e ciò dovrebbe accrescere i profitti delle imprese. Mentre potrebbe essere così nel breve periodo, ci si potrebbero aspettare effetti ulteriori nel lungo termine: la forza di un'economia potrebbe scemare.

Ad esempio, tassi d'interesse artificialmente bassi mantengono vivi i business non redditizi, impedendo ai produttori migliori di guadagnare quote di mercato. Ciò, a sua volta, rallenta la pressione concorrenziale nei mercati, determinando una minore crescita ed una minore occupazione e, infine, deteriorando la situazione dei profitti delle imprese. Inoltre i bassi costi del credito invitano gli stati ad incrementare la spesa in deficit, dirottando le risorse scarse in progetti improduttivi. Il benessere materiale delle persone rimane al di sotto del suo potenziale.

Quanto detto qui sopra indica uno scenario scomodo: le banche centrali, attraverso la loro politica di tassi d'interesse estremamente bassi, fanno salire i prezzi delle azioni a livelli sempre più alti. Poi, ad un certo punto, gli investitori tengono conto dell'effetto controproducente della politica dei tassi bassi e rivedono al ribasso le loro aspettative sulla crescita futura degli utili delle imprese. Una volta iniziato il declino del prezzo delle azioni, è piuttosto difficile fermarlo.

Inutile dire che un calo dei prezzi delle azioni rappresenterebbe anche un freno ai prezzi di altri beni, come, ad esempio, materie prime, beni intermedi e prezzi delle abitazioni. Uno calo generale dei prezzi sarebbe un pesante onere per il sistema di oggi, in primo luogo perché potrebbe innescare un massiccio giro di default: quando i redditi nominali dei mutuatari scendono in generale, o calano al di sotto delle loro aspettative, troveranno maggiori difficoltà a servire il loro debito.


Nel caso estremo, il sistema fiat money potrebbe persino crollare. Infatti se il mercato del credito, a causa di insolvenze diffuse, facesse aumentare i costi dei prestiti e rendesse il credito meno accessibile ai mutuatari, è molto probabile un crollo. Ciò farebbe davvero esplodere la struttura produttiva e occupazionale dell'economia che è stata creata nel periodo di tassi d'interesse artificialmente abbassati.

Certo, gli stati e le loro banche centrali vorrebbero impedire, con ogni mezzo, una deflazione dei prezzi e il conseguente crollo. In questo sforzo possono contare sul sostegno della popolazione: alla gente non piace la recessione e la disoccupazione. Un'opzione che i pianificatori monetari centrali potrebbero avere in mente è spingere i tassi d'interesse in territorio negativo, almeno in termini reali. Tuttavia, questo potrebbe non essere tanto facile come sembra.

Infatti c'è qualcosa chiamato "limite zero dei tassi d'interesse nominali". Significa che i tassi d'interesse nominali non possono essere spinti sotto lo zero. Quindi, se e quando i prezzi scenderanno, i tassi d'interesse rimarranno positivi, o addirittura saliranno in termini reali. E questo certamente non fermerebbe il dissesto della piramide del credito e così le banche centrali vedranno solo una via d'uscita: la stampa di denaro per acquistare un'ampia gamma di asset e/o il proverbiale "denaro dagli elicotteri".

Ma chi riceverà questi soldi? Dovrebbero finire nelle mani dei consumatori, degli imprenditori, delle banche, o dello stato? O a tutti loro? E quanti soldi dovrebbero essere emessi? Dovrebbero essere emessi all'inizio o alla fine del mese? Tutti dovrebbero ottenere lo stesso importo o, diciamo, un aumento del 10% dei propri depositi bancari? Qual è il principio corretto per distribuire nuove quantità di denaro? Benvenuti nel socialismo!

La politica monetaria di tassi d'interesse estremamente bassi è lungi dall'essere innocua, anche se sembra essere anticiclica e sembra sostenere i mercati degli asset nel breve periodo, suggerendo che tutto va bene. Vi sono solide ragioni economiche per supporre che la politica dei tassi d'interesse artificialmente bassa delle banche centrali sia controproducente; e più i tassi d'interesse rimangono a livelli soppressi, più sale il rischio che qualcosa vada storto.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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