martedì 28 maggio 2019

Bolle, bolle e ancora bolle





di David Stockman


Donald è stato di nuovo nel Wisconsin questo fine settimana, ribadendo che l'economia americana sta esplodendo come mai prima d'ora. "Ora siamo l'economia numero uno in tutto il mondo", ha detto sabato sera a una manifestazione a Green Bay, nel Wisconsin.

Inutile dire che siamo contrari a questa affermazione. L'economia statunitense indebitata e piena di bolle ha esaurito il gas dopo un lungo ciclo artificiale di tiepida espansione; e finora le decisioni di Trump in materia di commercio internazionale e l'abbuffata di indebitamento fiscale hanno solo aggiunto un ulteriore bagaglio debilitante sull'economia profondamente compromessa dell'America.
Infatti Donald sta tradendo l'entroterra americano, perché il suo irragionevole attacco alla FED garantisce una ripetizione del crash del mercato azionario del 2008 e della conseguente recessione sostenuta dai piani alti delle grandi aziende.

Cioè, bloccando sostanzialmente la (tardiva) campagna di normalizzazione della FED e costringendola a far fare la figura del pusillanime a Powell, è stata rimossa l'ultima debole barriera contro un crash dei mercati.

Sono stati scatenati i robo-trader e gli incalliti trader "buy-the-dip" affinché continuassero a spingere gli indici azionari più in alto fino a quando l'ultimo lemming non raggiunge la strada sopra le scogliere. Ma una volta che ci sarà la deflagrazione finanziaria di Wall Street versione 2019, non ci sarà modo di fermarla perché non ci sono altro che venti contrari davanti a noi, tutti ignorati in questi ultimi momenti di mania della FED.

Infatti è difficile immaginare come i nostri banchieri centrali incapaci potrebbero fare qualcosa di più visto che hanno già frantumato quegli ingredienti che mantengono i mercati finanziari disciplinati, equilibrati e sostenibili (es. premi di rischio, costi alti per i carry trade, scetticismo nei confronti dei venditori, ecc.)

A dire il vero, crediamo che la FED fosse già in ritardo nel suo tentativo tardivo di rialzare i tassi d'interesse e di ridurre il suo bilancio verso qualcosa che potrebbe essere vagamente descritto come normalizzato. Ma dopo aver capitolato sulla scia dei tweet arrabbiati di Donald e degli attacchi d'isterismo di Wall Street alla fine del 2018, proprio quando la disciplina finanziaria era imperativa, la FED ha preso la decisione peggiore possibile al 118° mese di un ciclo economico che sta letteralmente urlando "correzione in vista".

Sin dalla vigilia di Natale il Dow è salito del 22%, l'indice S&P 500 è più alto del 25% e il NASDAQ-100 del 33%. Ancora più importante, una quota enorme di quei guadagni negli indici generali è attribuibile a soli sei titoli, i cosiddetti FAANG+M.

Cioè, Facebook è salito del 56%, Apple del 39%, Amazon del 69%, Netflix del 59%, Google del 25% e Microsoft del 38%. In totale, questi sei titoli hanno messo su $1.250 miliardi di capitalizzazione di mercato che non erano presenti alla vigilia di Natale, passando da un valore combinato di $3.210 miliardi a $4.400 miliardi in un battito di ciglia.

Così facendo la capitolazione della FED ha portato il momentum sul mercato nel modo più distruttivo possibile: cioè accendendo un'ultima insensata corsa agli ultimi sei titoli in piedi, ha provocato un'improvvisa eruzione degli indici complessivi, trascinando così anche gli ETF, i fondi indicizzati, i fondi comuni e la falange sopravvissuta di Jim Cramer.

Questa dinamica è evidente nelle seguenti cifre: l'aumento di $1.250 miliardi dei FAANG+M dalla vigilia di Natale ha rappresentato un guadagno del 39%. Al contrario, gli altri 494 titoli dell'indice S&P 500 sono stati valutati a $16.500 miliardi al minimo intermedio del 24 dicembre e da allora sono saliti di circa la metà dei FAANG+M, o del 22,5% a $20.200 miliardi.

A sua volta questa levitazione ha ridotto in frantumi ogni residua razionalità rimasta nel casinò. Infatti la capitalizzazione di mercato dei FAANG+M dopo la vigilia di Natale ammontava a $5.000 miliardi, mettendo a tacere ogni dissenso sulla bolla.

Ciò significa che anche quei giocatori d'azzardo che a fine 2018 hanno realizzato che era ora di dirigersi verso le uscite, ora sono ritornati sui loro passi. Tutta la parvenza di un mercato a doppio senso è stata essenzialmente cancellata, una condizione che storicamente ha proceduto l'arrivo del proverbiale Cigno Nero.

Infatti tra le varie follie del sistema bancario centrale negli ultimi decenni, praticamente nulla è paragonabile alla stupidità delle scelte di Powell. Questo perché i geni nell'Eccles Building hanno supportato il casinò ed i suoi speculatori più spericolati.

Non c'è nessuna condizione più pesante di questa. In un mercato azionario da $25.000 miliardi, dove il 25% del capitale azionario è detenuto da ETF e da indici, un evento Cigno Nero si trasformerà rapidamente in un tracollo contagioso, perché i freni naturali (i venditori allo scoperto che comprano per proteggersi e staccare profitti) sono del tutto assenti.

Ed è qui che entra in gioco il giusto castigo che si merita Donald. Basata sulla storia dei moderni crolli alimentati dalla FED, possiamo prevedere con assoluta certezza che un crash del mercato causerà un nuovo round di ristrutturazioni e licenziamenti da parte dei piani alti delle grandi aziende, poiché cercheranno disperatamente di placare gli dei del trading a Wall Street e di recuperare il valore immutabile delle loro stock option.

Durante i 9 mesi successivi al fallimento della Lehman, infatti, sono stati eliminati 6 milioni di posti di lavoro e le scorte sono state ridotte di oltre $150 miliardi o del 10%. In totale ci sono stati ammortamenti per circa $500 miliardi, azioni che hanno comportato la chiusura di negozi, impianti e depositi inutilizzati; così come ordini annullati a fornitori e venditori e a cascata un drastico rallentamento nel ritmo del business globale.

Detto in modo diverso, ciò che abbiamo oggi sono recessioni nate dalla liquidità della FED, la quale è stata utilizzata dai piani alti delle grandi aziende nella loro ossessione per le stock option. Ecco perché nessuno nel mondo mainstream vede arrivare una recessione.

Le recessioni ai tempi dei vostri nonni erano causate da una stretta creditizia per Main Street, ma tale epoca è ormai svanita. È stata soppiantata dallo scoppio delle bolle finanziarie, shock che costringe i dirigenti aziendali a gettare il bambino con l'acqua sporca, mentre si impoveriscono di minuto in minuto.


Una FED già screditata e confusa sarà in grado di confortare il casinò e salvare la faccia di Donald? La risposta è No. Infatti per la prima volta in 30 anni i trader a Wall Street se la dovranno vedere da soli, mentre la FED verrà inghiottita in un gorgo di disperata autoconservazione a tutti i costi e perdita di controllo.

Questo perché l'economia americana è in realtà piuttosto fragile. Ricordiamo che il 2,1% dell'aumento totale del 3,2% del PIL reale registrato nel primo trimestre, è dovuto a fluttuazioni temporanee di scorte di magazzino, spesa pubblica e recupero degli investimenti dell'anno scorso inteso a sfruttare i dazi al 25% di Donald.

A parte questi movimenti sfalsati nei conti del PIL, le componenti principali (spesa al consumo delle famiglie, spese in conto capitale ed edilizia residenziale) erano piuttosto flosce, mostrando un aumento sottile dell'1,1%.

In questo contesto, ecco il profilo del tanto decantato consumatore americano. Il piccolo tasso di aumento annuo dell'1,19% nel primo trimestre è stato il secondo più debole dalla fine del 2013, in calo dal 3,8% nel secondo trimestre 2018, dal 3,5% nel terzo trimestre e dal 2,5% nel quarto trimestre.

Inoltre, nonostante la vanità di Donald, è difficile identificare una qualsiasi accelerazione nella tendenza dal gennaio 2017.

Al contrario, la spesa personale al consumo mostra l'ennesima respinta lungo la resistenza coincidente col picco nel secondo trimestre dello scorso anno e da allora ha marcato una decisa discesa, nonostante il taglio delle imposte targato Trump.

Spesso ci riferiamo ai cosiddetti consulenti economici di Donald come a delle cheerleader e questo grafico sottolinea esattamente il motivo. Nessun economista competente potrebbe guardare al trend sottostante e affermare che l'economia americana è in piena espansione o che il rischio di scivolare in recessione è inesistente.


Ulteriori dati pubblicati di recente su reddito, spesa e risparmio non fanno che rafforzare le implicazioni negative di fondamentali flosci contenuti nel rapporto sul PIL del primo trimestre.

Sin dall'inizio della pseudo-ripresa, il tasso dei risparmi delle famiglie è riuscito ad arrivare ad un misero 7,5% e da allora non ha fatto altro che calare. Questo perché, quando tutto il resto va male, le famiglie sfruttano i loro fondi messi da parte per pagare le bollette.

Ciò è stato evidente nuovamente a marzo, quando il tasso di risparmio è sceso ad un minimo del 6,5%. Ciò significa che la debole tendenza al rialzo della spesa personale al consumo registrata nel secondo trimestre dello scorso anno, è stata alimentata dal drenaggio dei conti di risparmio.


Ciò che seguirà sarà il deterioramento delle tendenze nei mercati del credito al consumo e questo è esattamente ciò che sta accadendo adesso. Il tasso di default riguardo le carte di credito nel primo trimestre ha toccato il 3,82%, il livello più alto sin dal secondo trimestre del 2012.

Inoltre l'andamento dei prestiti è stato ancora più allarmante tra alcuni dei principali player nel mercato delle carte di credito. Nel caso di Capital One, il tasso di default nel primo trimestre è stato del 5,04%, facendo sì che il CEO avvertisse nella sua teleconferenza che la società stava affrontando un periodo di notevole "degrado" del credito.

E questo con la disoccupazione al 3,9%. Nessuno nel casinò osa chiedersi cosa succederà quando arriverà la recessione?


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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