Bibliografia

venerdì 30 marzo 2018

Recensione della trilogia borghese di Deirdre McCloskey





di Alberto Mingardi


Niente forma tanto le nostre opinioni politiche quanto la comprensione della storia. Forse il più influente libro dell’intera tradizione socialista è, The Condition of the Working Class in England, di Friedrich Engels. In quel lavoro, pubblicato quando la collaborazione tra Marx e Engels era agli albori, Engels preparò il terreno per un bel pezzo della futura storiografia. Il libro di Engels è la testimonianza di un borghese tedesco, rimasto scioccato dalle condizioni di vita dei poveri nella Londra del suo tempo.

Nel terzo libro della sua trilogia sui valori della borghesia, la storica dell’economia Deirdre McCloskey ha riconosciuto che lavori come quello di Engels erano una forma di "salutare rottura": “Chiunque legga questo genere di libri, viene strappato dalla comoda ignoranza verso l’altra metà”.

E ancora,

prenderne coscienza non implica perdere la speranza, o peggio prefiggersi di rovesciare il Sistema, se questo alla lunga accresce il benessere tra i poveri ad un tasso ben superiore di quanto fatto da ogni altro Sistema sperimentato fino ad ora (McCloskey 2016, 42).

La trilogia di Deirdre McCloskey (Bourgeois Virtues; Bourgeois Dignity; Bourgeois Equality), ci ricorda incessantemente l’eccezionalità della crescita economica. I tre libri costituiscono una sfida intellettuale volta a rispondere al grande rebus che attanaglia gli storici dell’economica contemporanea: perché è decollata a quel modo la crescita economica, quando precisamente e dove è successo? Perché in Inghilterra? Perché nel diciottesimo secolo?

La risposta della McCloskey è da ora ben conosciuta. Il suo lavoro è imponente, comprende circa 2000 pagine raccolte in tre volumi. A cui vanno aggiunte diverse sue interviste dove quelle tesi sono state succintamente esposte dall’autrice, e un certo numero di articoli specializzati. In poche parole, la sua tesi presuppone che sia la cultura a dirigere ed a creare le condizioni per il cambiamento che poi possono concretizzarsi attraverso lo sviluppo economico. La ricchezza poteva essere creata in dimensioni più estese che mai, ma solo fino a quando tale creazione non fosse stata più percepita come un obiettivo riprovevole.

Questo difficilmente significa che il mondo torni a celebrare come guerrieri e santi gli uomini d’affari, la cui riconoscenza ha assunto i toni celebrativi degli eroi in, Atlas Shrugged, di Ayn Rand. Di ben altra stoffa è lo spirito borghese – una comprensione del lavoro e del commercio più misurata, migliorandosi l’un l’altro attraverso l’acquisto e la vendita – che però ad un certo punto decolla e diventa parte della cultura dominante.

Il primo libro della trilogia Bourgeois Virtues (McCloskey 2006), è organizzato in modo da far recepire al lettore il sostrato etico che possiede il sistema di mercato. Fate attenzione al verbo: possedere, non avere bisogno. Una florida e libera economia di mercato non si sviluppa senza una società che premia le virtù dei borghesi, non solo quelle dei cavalieri. Questo significa la prudenza, il principale carattere del mercante previdente. Ma la prudenza non basta, a chi persegue l’innovazione è richiesto anche il coraggio.

Nel secondo e nel terzo libro della trilogia, Bourgeois Dignity e Bourgeois Equality, emerge con maggior forza il loro essere due parti di uno stesso progetto. La McCloskey qui accentua il ruolo svolto dal commercio “dignitoso” nella costruzione del grande arricchimento; fu un “livellamento” di quella dignità che condusse, attraverso la combinazione delle due forze, alla prosperità. Le persone esprimevano per certo un “egual rispetto” per il loro sforzo, e questo è uno dei due modi in cui la McCloskey utilizza il termine. D’altro canto lei spiega che “quell’uguaglianza” non aveva nulla in comune con l’uguaglianza del risultato, marchio di fabbrica del socialismo, ma piuttosto con l’uguaglianza davanti alla legge: il sovrano non deve discriminare, sebbene lo faccia il mercato. E’ l’uguaglianza “scozzese”, come si espresse in Scozia più che nell’illuminismo francese, “con la sua dura, e seppur tragica, conclusione. Ciò implica uguale compensi per uguali meriti in un mercato dove ognuno, grazie alla libertà di contrattazione, può sempre competere” (McCloskey 2016 XXXII).



Il miglioramento del mondo

Mentre la McCloskey respinge l’uguaglianza dei risultati, evidenzia continuamente come “l’idea dell’uguaglianza della libertà e della dignità per tutti gli uomini abbia causato, e pure salvaguardato, uno stupefacente progresso… materiale” (McCloskey 2016, 403). In questi ultimi due libri, la McCloskey enfatizza come queste idee, questa cultura dell’uguaglianza ben compresa, non sia in conflitto con una paziente e scrupolosa enumerazione dei modi con cui si è esteso “il grande arricchimento”, essendo andato a beneficio proprio dei meno abbienti. Certo, non c’è dubbio ci sia una certa ridondanza nei due volumi. Il lettore, comunque, lo perdonerà facilmente, non appena comprende che la McCloskey non si limita ad avanzare una tesi. La sua è una vera e propria battaglia a favore di una corretta comprensione di ciò che ha significato per tutti noi la Rivoluzione Industriale, prima nel mondo occidentale e più tardi per il resto del globo.

E di questo c’è un disperato bisogno. Il ritratto proposto da Engels, una vita destinata all’indigenza in città lerce, è diventato un cliché della Rivoluzione Industriale. Il suo spaccato del capitalismo agli albori ha formato la conoscenza dell’economia politica di milioni di persone. Questi macchinari erano una meraviglia tecnologica, ma incatenavano i poveri ad una vita di stenti e tutto ciò era percepito come una ovvietà. Solo poche persone sembrano ricordare che la povertà esisteva anche prima della comparsa del motore a vapore. Difficilmente può essere sovrastimata la conseguenza di questa attitudine nei confronti della percezione della legittimità dell’economia di mercato, come sapeva bene F. A. Hayek. In Capitalism and the Historians, egli mise insieme alcuni accademici che erano qualificati quali avanguardie degli storici “revisionisti”, convinti che la Rivoluzione Industriale meritasse un controllo più accurato.

E’ stato solo dagli anni 70 che diverse scuole di storici hanno sviluppato una comprensione più corretta della Rivoluzione Industriale. Purtroppo però le loro scoperte sono ancora relativamente sconosciute al grande pubblico. Il sentiero tracciato da Engels è difficile da scalzare quando è supportato da libri di testo tuttora ritenuti autorevoli.

Profondi e radicati pregiudizi possono causare una mancata comprensione di cambiamenti storici senza precedenti quali la crescita economica moderna. Questo è il soggetto della trilogia di McCloskey: il cambiamento dovuto alla crescita economica. Prima di affrontare in modo più accurato quest’ultimo argomento, dobbiamo esaminare il contenuto dei suoi primi libri.

Due secoli fa l’economia mondiale era al livello dell'attuale economia del Bangladesh… Nel 1800 il consumo medio atteso per figli e nipoti e per le generazioni a venire era, dollaro più dollaro meno, di $3 al giorno. Il calcolo è espresso ed attualizzato ai giorni nostri secondo il costo della vita americano. E’ sconvolgente.

Per contrasto, oggigiorno un cittadino medio di un Paese come il Giappone o la Francia spende probabilmente circa $100 al giorno. Cento dollari contro tre. Questo è l’ordine di grandezza della moderna crescita economica. (McCloskey 2010, 1)

E’ dalla comprensione dell’entità di questo miglioramento economico che la McCloskey trae le sue preferenze in politica economica. In contrasto al socialismo di Engels ed a tutti i numerosi profeti di sventura che hanno fornito una quadro della Rivoluzione Industriale come fonte dell’inquinamento dei fiumi e della corruzione dell’anima, “Il fatto che ancora le persone muoiano in ospedale, non significa che il rimedio sia la semplice rimozione dei dottori” (McCloskey 2016, 43). Quando si affronta la povertà, la crescita economica moderna è la medicina, non la malattia.

La chiave di lettura dell’insegnamento della McCloskey è che una crescita economica di queste proporzioni è la vera novità nella storia dell’uomo.[1] La McCloskey sottolinea che Malthus aveva ragione a sostenere che la produzione di cibo cresceva ad un tasso aritmetico mentre la popolazione, a quei tempi, tendeva a crescere in modo geometrico. In quel contesto era un gioco a somma zero, se uno vinceva l’altro perdeva. La corsa tra progresso tecnologico e crescita della popolazione, osserva la McCloskey citando due storici dell’economia, Voigtlander e Voth, “era una tartaruga contro una lepre”. Infatti:

prima del 1800 il tasso di crescita non era mai stato più alto di mezzo punto l’anno, e d’accordo con l’economista Oded Galor, più vicino a un decimo che all’uno per cento, raggiungendo così al massimo il 64% nell’arco di un secolo. Ma la popolazione poteva crescere al 3% l’anno, e questo significa il 1,800% in un secolo. La tartaruga non aveva alcuna possibilità (McCloskey 2016, 15).

Come è potuto avvenire questo cambiamento? Come la crescita economica moderna è diventata possibile? Per definire in modo accurato l’avvenimento, bisogna guardare a cosa è cambiato rispetto a tutto il resto. La miseria – ovvero la miseria per le masse – è stata la condizione umana naturale da quando Adamo ha morso la mela. Adam Smith non ha cercato le cause della povertà delle nazioni, perché la povertà non ha mai avuto bisogno di una spiegazione. È questa enorme crescita della ricchezza che deve essere spiegata.



Impilare un mattone sopra l’altro?

La risposta della McCloskey è duplice. Da una parte sostiene che “l’innovazione (non gli investimenti o la spoliazione) diedero vita alla Rivoluzione Industriale” (McCloskey 2010, 6). Sostiene che nell’accumulo di capitale, impilare un mattone sopra l’altro, non c’era niente di innovativo. C’è sempre stata prudenza, parsimonia e avarizia, tra le altre cose. Ma ad un certo punto l’accumulo del capitale ha smesso di essere usato per comprare ville sempre più sfarzose e invece ha iniziato ad essere usato per comprare macchinari e aziende. Il capitale ha iniziato ad essere usato per offrire un fiume senza fine di novità, a beneficio di un numero crescente di consumatori.

Ma fu veramente un mattone sull’altro la peculiarità di questo processo? Il più eminente critico del “capitalismo”, Karl Marx, derise “l’accumulo originario” come qualcosa che “gioca in economia politica all’incirca lo stesso ruolo del peccato originale in teologia” (Marx 1871, 784), e su questa falsariga avallò la favola che la parsimonia servisse solo a rafforzare l’amor proprio delle classi più agiate. Ma anziché rigettare l’intera faccenda, sviluppò la propria versione dei fatti. Per Marx il vero accumulo originario avvenne “quando la gran parte degli uomini venne improvvisamente e forzatamente strappata dai loro mezzi di sussistenza e gettati come proletari nel mercato del lavoro” (Marx 1871, 787). Paradossalmente il profeta del materialismo storico – che pretende che politica e cultura siano solo finzioni dei rapporti di produzione – cerca la sorgente dell’accumulo borghese nella violenza politica, in quel mercato degli schiavi prodotto dalle recinzioni dei terreni adottate nel quindicesimo secolo. Dal suo punto di vista, tutto il male accaduto nella storia è il prodotto dell’avvento del capitalismo.

“L’accumulo originario” di Marx potrebbe essere inteso come la versione più elaborata della non infrequente idea che ogni maniera di arricchirsi è sempre alle spese di qualcun altro. Questo, ovviamente, potrebbe accadere, anche perché il mondo non è mai a corto di ladri. Ma fu questo a rendere possibile l’emergere del capitalismo? Non per la McCloskey. “Non è un buon piano per fare affari affidarsi alle briciole guadagnate rubandole alla povera gente”, ha scritto nel secondo libro sulla "borghesia". Se così fosse, “l’industrializzazione sarebbe avvenuta quando il Faraone rubò il lavoro agli Ebrei ridotti in schiavitù”. (McCloskey 2010, 156). Rubare ai poveri non potrà mai “essere una spiegazione sostenibile per un grande arricchimento”.

La crescita senza precedenti sperimentata in Occidente negli ultimi due secoli, richiede una spiegazione differente. Avviene quando la società inizia a creare innovazioni senza precedenti. Questo si traduce in una enorme produttività.

Dal 1800 l’abilità degli uomini di avere cura ed educare se stessi, benché il loro numero crescesse secondo un fattore di sette, è cresciuta per ciascuno secondo un fattore di 10… Noi esseri umani ora produciamo e consumiamo per 70 – 7x10 – volte di più beni e servizi globali rispetto al 1800 (McCloskey 2016, 6).

Sì, questo significa molte cose. Gli individui sono migliorati in senso materialistico: possono contare sulle macchine per lavare i piatti, e possono divertirsi con la TV al plasma e Spotify. Ma vivono anche una vita più salubre; sono liberi di regolamentare i loro appetiti con una dieta vegetariana perché lo vogliono e non perché sono forzati dalle circostanze; sono cresciuti di numero, hanno accresciuto la loro capacità di leggere scrivere e far di conto; guidano auto e utilizzano macchinari complessi.

Questo processo non è stato previsto e tanto meno pianificato. E’ stato in gran parte il risultato di uno sforzo dal basso, ottenuto da persone che erano primariamente interessate alla loro sorte (“non dalla benevolenza del macellaio”). La McCloskey cita l’insigne Premio Nobel, Robert Lucas, il quale ha osservato:

affinché avvenga una significativa crescita in una società, una gran parte delle persone deve sperimentare un cambiamento nelle proprie possibilità di vita, immaginandolo per loro stessi e per i loro figli… in altre parole… lo sviluppo economico richiede “milioni di ribellioni” (Lucas 2002, 17).

Le innovazioni di successo emergono dalla diffusa ribellione nei confronti dello status quo, poiché sono soggette al giudizio dei consumatori, la più alta espressione del mercato. Anziché “capitalismo”, la McCloskey definisce la crescita economica moderna un “miglioramento certificato dal mercato”, o “progresso certificato dal mercato”. Così facendo, ne sottolinea anche gli effetti e le cause: il miglioramento e il processo di sperimentazione (qualche volta generando novità di successo, qualche volta meno efficaci) che lo rende possibile.



Cultura non istituzioni

Ma, al di là dell’innovazione, ciò che la McCloskey si sforza di comprendere è come questo processo di sperimentazione sia diventato possibile e come si sia diffuso. L’arricchimento materiale non ha cause materiali. Lei sostiene che “la comunicazione, l'etica e le idee sono la causa dell’innovazione”. In particolare, “le conversazioni quotidiane relative all’innovazione e al mercato sono determinanti per la loro diffusione ed approvazione” (McCloskey 2010, 7). La sua risposta è questa: la rivoluzione industriale ha bisogno di una cultura accogliente, la quale implica una politica accogliente, ma quest'ultima non va ad attaccare la prima.

Uno degli obiettivi preferiti della McCloskey è il neo-istituzionalismo, che lei definisce ingenuo nella comprensione delle regole del gioco. Al contrario, le critiche alle sue tesi affermano che la cultura è qualcosa di troppo vago per diventare una pietra di paragone su cui poggiare ipotesi scientifiche capaci di spiegare l’origine della crescita economica; la McCloskey replica che lo stesso argomento vale per la parola istituzione. Le istituzioni esistono “primariamente per i buoni principi morali dei partecipanti, motivate e rinforzate dall’opinione morale che le persone hanno sull’una sull’altra. (McCloskey 2016, xxiii-xxiv). Ciò che separa la McCloskey dai neo-istituzionalisti è la sua volontà, e forse il suo entusiasmo, nel tenere in considerazione dati che altri deliberatamente ignorano: i romanzi e il teatro (non tanto l'opera e la musica). Tipicamente considerati immeritevoli di attenzione e di valore scientifico fuori dai confini umani, la McCloskey li considera di importante valore. Rappresentano delle evidenze significative dei comuni preconcetti e credenze di particolari società e di precisi momenti storici – informazioni che in altra maniera non sarebbe possibile ottenere. I romanzi che le persone leggono, gli spettacoli che li divertono, gli autori che prediligono, ci permettono di dedurre qualcosa a proposito del loro punto di vista e dei loro valori.

La McCloskey non fa riferimento ad Austen o Balzac come ad un mero abbellimento del suo lavoro; il riferimento alla letteratura fa parte delle sue prove.

Discutendo il lavoro della McCloskey, Joel Mokyr ha opportunamente evidenziato che “la cultura non può essere compresa senza le istituzioni, così come le istituzioni non possono essere capite senza la cultura” (Mokyr 2014). La cultura e le norme possono rinforzarsi a vicenda, ma bisogna pensare a cosa succede quando sono in disaccordo. Più spesso di quanto non si pensi, abitudini e costume vanno oltre le norme formali. In base agli innumerevoli fallimenti di regole e procedure in Paesi esteri – se pensiamo, ad esempio, al ruolo svolto dagli aiuti esteri in tanti Paesi – tutto questo sembra supportare il ragionamento della McCloskey. Si guardi, ad esempio, all'Italia, dove una simile organizzazione di regole formali può produrre risultati completamente differenti, nonostante siano applicate ad aree geografiche contigue ma caratterizzate da “capitale civile” diverso (il quale è parte di una più larga nozione di “cultura”).

Certo “cultura” rimane un termine molto problematico. Sembra troppo denso, troppo onnicomprensivo per essere usato con perizia e precisione nelle scienze sociali. Inoltre le “idee” per la McClosckey non sono quelle che enfaticamente vengono definite le idee e le attitudini della cultura o della politica delle élite. Un “milione di ribellioni” non è un fenomeno ristretto alle élite, bensì la trasformazione di una mentalità e, in un certo senso di uno stile di vita, che attraversa l’intera società.

Questo spiega l’insistenza della McCloskey nell’uso della parola borghese, che altrimenti potrebbe essere visto come un tentativo di stupire il senso comune, di indignare lo stesso lettore. La McCloskey cita l’accademico della letteratura Franco Moretti, il quale ha scoperto che nella letteratura vittoriana ricorre spesso la tesi di due generazioni poste in competizione l’una con l’altra, la più vecchia in procinto di diventare la borghese e, naturalmente, pronta per essere sostituita e tradita da qualcosa di più giovane e filantropico (McCloskey 2016, 62). Borghese è solitamente un termine che esprime denigrazione, ancora più degradante dell’aggettivo “insignificante”.



Borghese a ragion veduta

La McCloskey non usa il termine borghese per parlare di classe: lo usa perché identifica nella borghesia una nuova ondata di simboli e idee, per mezzo dei quali viene cambiata la vita sociale. Sergio Ricossa, un grande economista italiano sfortunatamente sconosciuto all’estero, ha fatto notare nel 1986 che:

Nella cultura signorile l’eroe era un modello di perfezione e di eroismo, questo implicando un’assoluta dedizione a cause di valore infinito, in comparazione a cui ogni calcolo diventava insignificante e volgare. Il borghese, al contrario, era un calcolatore, prendeva rischi, anche se calcolati, e non era disposto a sacrificare alcunché se non in vista – o con la speranza – di un adeguato compenso. (Ricossa, 2006, 58).

Borghese è un termine utile perché esprime un’attitudine che è equidistante a due differenti, seppur convergenti, comportamenti: l’Etica e i valori dell’aristocrazia e “l’eresia dei salvatori”.[2] I primi considerano i valori economici pari a nulla, tutti intenti a perseguire l’eroismo delle armi. I secondi concordano con l’annullamento dei valori economici, perché tutti i mezzi devono essere al servizio del raggiungimento della salvezza umana, la quale è compatibile solo con l’approntamento di particolari istituzioni politiche.

Al contrario, la mentalità borghese sposa la razionalità pratica, il calcolo prudente ed il miglioramento continuo. Il borghese non sente sé stesso come un cavaliere, né le sue parole annunciano una migliore rigenerazione del mondo. Il borghese ottiene la sua ricchezza attraverso il miglioramento produttivo, diventando un uomo d’affari, un commerciante, un inventore. Laddove il nobile e l’attivista rifiutano di affrontare il calcolo presumibilmente insignificante della vita economica, il borghese non vede nessuna vergogna in esso. Lei sa che “un test commerciale per valutare la fornitura di un bene di consumo, passa attraverso il segnale del profitto monetario. Quando qualcosa verificato dal mercato diventa popolare, determina un guadagno per qualcuno.” (McCloskey 2016, 563). Non c’è nessuna vergogna nel fornire alle persone le cose che piacciono loro.

Questo genere di movimento è un processo mediante il quale le persone percepiscono sempre più sé stesse come esseri liberi di scegliere, ma anche liberi di essere scelti. Loro sono liberi di scegliere nel senso che non sono costretti in quanto consumatori, ma spesso, cosa di non poco conto, tal genere di libertà diventa alla fine parte della loro identità. Come ben sappiamo, siamo spesso in grado di dedurre cose tanto differenti quali preferenze politiche, gusti musicali, o provenienza sociale, dal modo di vestirsi delle persone. Allo stesso modo, dal loro costane esercizio della libertà di scegliere, creano le condizioni affinché essi stessi diventino fornitori di beni e servizi differenti. Adam Smith ha parlato della “divisione del lavoro limitata dall’estensione del mercato”. Più il mercato è esteso, più la specializzazione diventa complessa. Di questi tempi non si trovano "dog sitter" nei piccoli villaggi di montagna, ma nelle grandi città: alcune persone si guadagnano da vivere passeggiando con i cani di altre persone. La crescita economica moderna è un complesso enigma, ma se ha un carattere unificante, è il costante allargamento del grado di scelte disponibili. Questo è in verità l’egualitarismo della borghesia a cui la McCloskey fa riferimento nel titolo del suo libro: un idea di parità di dignità, parità di opportunità nel ricercare la realizzazione di sé stessi, nel perseguimento della propria felicità (citata nel più eminente documento borghese, la Dichiarazione d’Indipendenza).



Un cambiamento nel modo di pensare

L’era della borghesia, così come l’onda della grande crescita economica, inizia quando le persone cominciano a pensare che non c’è alcuna vergogna nel fornire ad altri cose che gli piacciono. Prima di ciò, come l’economista Don Boudreaux ha scritto riassumendo il punto di vista della McCloskey:

Diversamente dai guerrieri che si sporcavano le mani con onore (ossia col sangue), i commercianti si sporcavano le mani col disonore (ossia con il profitto). Diversamente dai nobili che ottenevano la loro ricchezza con onore (ossia incassavano la rendita della terra), i mercanti ottenevano le loro ricchezze con disonore (ossia attraverso lo scambio). Diversamente dai chierici che ricevevano la loro ricompensa con onore (ossia contemplando l’eternità), i borghesi ricevevano la loro ricompensa con disonore. (Boudreaux 2014).

Questa era “la tassa del disonore” scrisse Bourdeaux, che come tutte le tasse “scoraggia le attività che colpisce, rendendo le attività non tassate relativamente più attraenti” (Boudreaux 2014). Ad un certo punto della storia, si ebbe una sostanziale riduzione di quella tassa. Da quando si è iniziato a dire che la vita del venditore non era una vita da canaglia, allora le persone hanno iniziato a considerarla in modo differente: le persone intelligenti e ambiziose hanno iniziato a pensare che fosse una professione di valore da perseguire, senza averne vergogna.

Prendiamo in considerazione la medicina al posto del commercio. Per un lungo tempo nella storia, i medici sono stati per metà parrucchieri per metà dottori. Le cure mediche era considerate complementari alla preghiera, e quest’ultima era generalmente più efficace. Le cose cambiano quando migliorano gli strumenti, la medicina diventa una scienza, le cure sono diventate “industrializzate” con l’ospedale. E tutto ciò ha portato al contempo ad un forte apprezzamento sociale nei confronti dei medici, tant’è che tutte le madri del mondo sono piene di felicità quando i loro figli esprimono il desiderio di diventare dottori. La questione dell’approvazione sociale è determinante per il successo di una professione, poiché spinge un gran numero di studenti brillanti nelle università di medicina.

Nel mio Paese, l’Italia, gli intellettuali tendono a privilegiare le scienze umane alle scienze naturali. Le famiglie tendono a credere che i loro figli non avranno futuro se intraprenderanno studi matematici o scientifici, se non quello di diventare professori delle scuole superiori (carriere con un salario non alto). Questi fattori potrebbero avere qualcosa a che fare con il fatto che nelle università italiane è presente un basso numero di matricole nelle discipline scientifiche, tecnologiche o matematiche, e di conseguenza un basso numero di laureati. Solo ora questa domanda del mercato del lavoro si sta aggiustando, in una economia che si dirige verso l’informatica e la robotica.

Se l’apprezzamento sociale di imprenditori, commercianti e inventori è stata la chiave che ha reso possibile la crescita economica, l’ultimo libro della trilogia della McCloskey affronta difatti le forze che si contrappongono a tale apprezzamento. La McCloskey è ben consapevole che facendo risalire il sorgere della crescita economica moderna alla “cultura”, si è posta in grande dissonanza con gran parte della “cultura” del nostro mondo, che perlopiù si oppone al cosiddetto “capitalismo”. “È accaduto qualcosa di strano nelle menti dei letterati”, scrive (McCloskey 2016 559-568) riferendosi ad “artisti, intellettuali, giornalisti, professionisti e burocrati”.



Il problema degli Intellettuali

La McCloskey non è la prima ad evidenziare il problema. La questione riguardante il “perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo?”, tanto per citare il titolo di un lavoro di Robert Nozick (Nozick 1998), è stato uno dei temi del liberalismo classico dello scorso secolo. In ambito accademico, gli intellettuali liberali classici si sono trovati di fronte ad una crescente opposizione proprio da parte dei loro pari. Solo una piccola parte del mondo accademico apprezza il sistema di mercato. Il capitalismo era visto come un sistema senza speranza nel diciannovesimo secolo, mentre una nuova era stava per sorgere, liberata dalla "anarchia della produzione". Gli accademici liberali classici hanno fatto di tutto per opporsi a questa fobia del mercato da parte di molti intellettuali, timorosi “dell’effetto a cascata” che questo avrebbe avuto sull’intera società. Per questo hanno tentato di identificarne lo schema su cui si reggeva, in modo da poter arginare i motivi che facevano schierare tanti intellettuali contro l’economia di mercato. Molti di loro pensavano che il cosiddetto interesse personale avesse avuto un ruolo importante nell’antipatia dei loro colleghi verso le relazioni commerciali, e alcuni di loro teorizzavano che gli intellettuali erano primariamente motivati dal risentimento. La McCloskey pensa che non ci siano vere prove in tal senso.

La prima serie di risposte alla domanda “perché gli intellettuali si oppongono capitalismo?” può essere sintetizzata prendendo come riferimento il lavoro di Ronald Coase, The Market for Goods and the Market for Ideas (Coase 1974, 384-391). Gli intellettuali sono fortemente favorevoli verso un’alta regolamentazione del mercato delle “cose”, ma non così tanto per il mercato delle idee, dove si oppongono in modo irremovibile.

Il mercato delle idee è il mercato in cui gli intellettuali conducono i loro commerci. Questo li conduce al paradosso prodotto dalla convergenza dell'interesse personale con l'autostima. Quest'ultima porta gli intellettuali ad enfatizzare l’importanza del loro mercato. Viceversa quello degli altri sembra naturale che debba essere regolato, soprattutto se molti intellettuali identificano in sé stessi coloro che dovranno farlo. Allo stesso modo l'interesse personale combinato con l'autostima assicura loro che, mentre gli altri vengono regolati, la medesima regolazione non deve essere applicata a loro. (Coase, 384-391)

Milton Friedman argomenta per analogia evidenziando che per gli intellettuali le soluzioni coercitive sono sempre più facili da vendere ad un largo pubblico più che quelle basate sul mercato. “Le soluzioni collettiviste sono più semplici. Se c’è qualcosa di sbagliato basta una legge per porvi rimedio” (Cobb, Maghan, Raico 1974), e una risposta semplice vende più libri e riviste di una risposta complicata.

La seconda serie di risposte è stata data da pensatori diversi come Joseph Schumpeter, Ludwig von Mises e Robert Nozick. Per Nozick gli intellettuali sono semplicemente persone che erano studenti di successo nella propria classe, dove le ricompense erano distribuite attraverso modalità definite da un'autorità centrale. Una volta usciti da scuola ed entrati nel mondo del lavoro, sono rimasti sconvolti nel constatare quante competenze differenti venivano premiate rispetto a quelle in loro possesso, per le quali si erano esercitati.

Gli intellettuali vogliono che l’intera società diventi, per decreto, una grande scuola, per ritornare in quel piacevole ambiente dove si erano trovati così bene ed erano stati tanto apprezzati (Nozick 1998, 10).

Schumpeter e Mises sottolineano come il capitalismo per la prima volta nella storia abbia generato un'abbondante istruzione di massa. Da questo punto di vista, la scuola di massa crea un'eccedenza di intellettuali, i quali difficilmente potranno trovare un lavoro conforme alle loro aspettative. Da questo nasce e si sviluppa quel risentimento contro il capitalismo. La loro evoluzione anti-capitalista si rinforza quando si rendono conto che i partiti politici e la burocrazia saranno potenzialmente i loro principali datori di lavoro.

In età avanzata Mises ha scritto un breve ed illuminate saggio, The Anticapitalist Mentality. Mettendo in evidenza quanto gli intellettuali fossero colpiti dalla povertà di gusto delle masse, e il carattere irreversibile di questa mancanza:

Il capitalismo poteva rendere le masse tanto ricche da potersi permettere di acquistare libri o riviste. Ma non le poteva dotare della capacita di discernere un Mecenate o un Can Grande della Scala. Non è una mancanza del capitalismo se l’uomo comune non è in grado di apprezzare libri non comuni (Mises 1956, 52).

Da notare che il problema non è la semplice cecità degli intellettuali nei confronti delle virtù del mercato e del libero scambio, ma la loro distonia con l'accadimento storico rappresentato dalla crescita economica moderna, la quale ci ha dato la produzione di massa e ci ha fatto diventare parte della cosiddetta “società dei consumi”.

La McCloskey mantiene un atteggiamento indulgente verso i suoi oppositori. O almeno appare indulgente ad una prima occhiata. Ci fa notare che l’anti-capitalismo può emergere per diverse ragioni, incluse quelle psicologiche: “È raro che gli intellettuali francesi e inglesi del diciannovesimo secolo non fossero simultaneamente figli della borghesia ed inflessibili oppositori a tutto ciò che è borghese” (McCloskey 2016 597). Ma l’anti-capitalismo cresce anche perché le verifiche del mercato disturbano quelle società mancanti di una prima generazione pienamente arricchita” (McCloskey 2016, 595).

Che il mondo fosse già sfuggito alla trappola malthusiana era già abbastanza chiaro al tempo in cui Engels scrisse, The Conditions of the Working Class in England: il reddito medio era già abbastanza cresciuto, seppur non ancora “alle vette raggiunte nel terzo quarto del diciannovesimo secolo” (McCloskey 2016, 608). Quell’immagine di desolazione ha eccitato la fantasia degli storici ed è stata immortalata da romanzieri, pittori e fotografi.

Ma essenzialmente, sostiene la McCloskey, gli intellettuali anti-capitalisti non comprendono ciò di cui stanno parlando. “Gli economisti e gli storici dell’economia lo sanno, in termini quantitativi” (McCloskey 2016, 26). Loro hanno una percezione quantitativa del calo del tasso di analfabetismo (“dal 90% della popolazione adulta mondiale nel 1850 al 20% nel 2000”); o quanto “la speranza di vita… sia cresciuta vertiginosamente… da una aspettativa di vita alla nascita di meno di trent’anni nel 1800 a cinquantadue nel 1960 ed a settanta nel 2010, includendo anche le zone povere del mondo” (McCloskey 2016, 26-27); o quanto “l’accesso all’acqua potabile abbia enormemente contribuito a tutto ciò” (McCloskey 2016, 27).

Certo, gli intellettuali, di destra e di sinistra, si sono sempre lamentati “del carattere di masse della nostra società” (McCloskey 2016, 25); come se la produzione di massa abbassasse l’apprendimento, la cultura o la morale. La McCloskey è d’accordo con George Stigler quando alla fine sostiene che la critica degli intellettuali alla società di massa è mal posta, e per molti versi ipocrita (Strigler 1967, 5). Strigler sostiene che:

Molte società sono state giudicate dalla loro cultura aristocratica. Infatti in periodi remoti la maggior parte della popolazione non era considerata né parte della cultura né della società: la maggior parte erano analfabeti, sottomessi alla tradizione, e gran parte di quelle persone viveva un’esistenza brutale in baracche miserabili. Viceversa ora il nostro senso sociale si forma sulla maggioranza della popolazione, e questa maggioranza oggi è generosa, insoddisfatta, impegnata duramente nel lavoro, per una larga parte concentrata in uno sforzo senza precedenti nella propria educazione, vorace frequentatrice abituali delle arti. (Strigler 1967, 5-6)

Maggior benessere, cultura del mercato, più “uguaglianza borghese”, la società tende ad essere più giusta. “La globalizzazione, il neoliberismo e Milton Friedman sono stati un bene per i poveri, in una maniera senza precedenti” (McCloskey 2016, 73). Perché i letterati non riescono a leggere i dati?



Non una vera meritocrazia

La risposta della McCloskey è che questi sono diventati degli “Neo-pseudo-aristocratici”, i quali credevano nel “merito” ma lo giudicavano non strettamente in termini monetari (McCloskey 2016 124). Il suo punto di vista è simile a quello di Nozick: gli intellettuali si risentono verso il mercato perché non ricevono quel premio per i loro sforzi che invece credevano di meritare. Ma l’autrice amplia il punto di vista di Nozick, facendo notare che gli intellettuali considerano il “merito” in termini strettamente aristocratici. Loro non sopportano la caratteristica per eccellenza del mercato: il cambiamento, quello che noi osserviamo nei prodotti e nei costumi, e che spesso rende obsolete le vecchie gerarchie, comprese le gerarchie dei meriti.

La crescita economica moderna è stata veramente “la grande trasformazione” (McCloskey 2016, 543);[3] il passaggio “dallo status al contratto”. Tutto ciò significa una maggiore mobilità sociale, ma anche erosione della gerarchia. Questa è stata una storia molto stimolante (in tre generazioni, una parte consistente delle varie famiglie è passata dalla condizione di contadini a quella di professionisti istruiti nelle università), ma ha anche generato un grande spavento. Essere bloccati in una posizione sociale può essere una maledizione, ma è psicologicamente confortevole. Per qualsiasi accadimento negativo, si può facilmente dare la colpa alla nascita o al destino. In una società basata sul contratto, le persone sono ricompensate per la loro abilità di soddisfare i bisogno dei loro simili.

Molte persone vivono con dolore il ruolo assegnato al profitto, in particolare il ristoratore che pensava fosse una buona idea aprire un locale solo per scoprire successivamente che la sua è stata una pessima idea (McCloskey 2016, 568).

La McCloskey sa bene, e lo enfatizza fortemente, che la società borghese non è in senso stretto una “meritocrazia”, che i consumatori possono non avere gusto o gli imprenditori possono solo essere più fortunati e non “migliori” dei loro competitori. E questo in verità non è il motivo dell’esistenza del mercato: non esiste per premiare il migliore, qualsiasi cosa significhi, ma per dare alle persone le cose che vogliono. In questo senso possiamo leggere ciò che la McCloskey chiama “la riforma borghese”, l’immaginario patto sociale tra gli innovatori e gli uomini d’affari e tutti noi.

Lasciateci distruggere in modo creativo il vecchio modo di fare le cose, la falce, il carro trainato dai buoi, le lampade ad olio, gli aeroplani ad elica, le macchine da presa, e la fabbriche senza l’alta tecnologia dei robot, e vi renderemo tutti ricchi. (McCloskey 2016, xxxiii).

Nessuno, ovviamente, ha sottoscritto coscientemente questo patto: ma nella società borghese questo è il comune sentire, la silenziosa accoglienza riservata alla celebrazione delle “milioni di ribellioni”. Questo tipo di attitudine è più comune negli Stati Uniti che nei Paesi europei, dove un non piccolo numero di imprese di successo inizia nel garage di un innovatore.



Libri inusuali

I libri della McCloskey sono alquanto inusuali, perciò facilmente godibili da un pubblico di non specialisti. Il suo stile rapsodico in Bourgeois Equality, come pure nei precedente, è coinvolgente e accessibile anche al profano. Lei è un’economista che sa scrivere, che rende la lettura piacevole. I suo lettori di lunga data non saranno sorpresi nel venire a sapere che tra i suoi sforzi accademici, c’è stata la pubblicazione di un piccolo e divertente libro proprio sugli accademici (McCloskey 1999). Inoltre la McCloskey è certamente colpevole di un eccesso di generosità verso gli autori che ammira. Il lettore viene messo a conoscenza di nomi e riferimenti con una pedanteria di cui farebbe certamente a meno. La McCloskey è ossessionata dal proposito di dare a ciascuno ciò che lei gli deve, vuole menzionare a tutti i costi quegli accademici che le hanno fornito informazioni utili. Questa generosità è apprezzabile e nobile, ma spesso appesantisce pagine altrimenti molto belle. Ed infatti le belle pagine non mancano in questi libri. La McCloskey travolge il lettore con fatti, intuizioni, stile.

L’importanza del lavoro di Deirdre McCloskey difficilmente può essere sottovalutata. Se inserite in un motore di ricerca “Deirdre McCloskey bourgeois” i risultati sono 215,000 collegamenti. La sua trilogia è stata largamente recensita e largamente discussa. Ancor più importante, grazie alla sua infaticabile testimonianza in ogni parte del mondo, ha aiutato a cambiare la retorica tanto dei singoli accademici quanto dei think tank, tradizionalmente attaccati ai classici argomenti del liberalismo: governo minimo e libertà di mercato. La “riforma della McCloskey” è l’aver evidenziato gli indiscutibili benefici materiali prodotti da queste idee per le masse, ed in alcuni casi il modo in cui vennero messe in pratica. Ricordare al pubblico la grandezza del cambiamento sperimentata da quando James Watt perfezionò il motore a scoppio; imparare ad apprezzarlo significa aiutare a non metterlo a rischio.

Di recente la McCloskey, riferendosi al suo approccio, lo ha definito “liberalismo umano” (McCloskey 2017, 10). Tutte le etichette sono per definizione imperfette, e questa non la è di meno. Per un verso, il liberalismo, come ogni teoria politica, si occupa dell’uomo, non di uccelli o greggi. D’altro canto, il liberalismo è stato umanitario fin da principio: si pensi a quanto ha fatto per limitare il potere assoluto, l’abolizione della schiavitù, per permettere alle persone di fare ciò che vogliono del proprio corpo e con le cose di loro proprietà. Che il liberalismo metta “il profitto prima delle persone” è una caricatura che la McCloskey ben conosce.

Il più grande valore dell'opera della McCloskey è che sottolinea un punto a volte dato per scontato dai liberali classici. Il liberalismo classico è una filosofia per l'uomo comune. Non gli importa delle visioni (aristocratiche) di grandezza ed eroismo, e non è appassionato di crociate (di sinistra) per l'umanità che non considerano affatto le vite dei singoli individui. Comprende il grande arricchimento proprio perché ha portato una prosperità senza precedenti ad un gran numero di persone.

Il carattere innovativo dell’opera della McCloskey, è l’aver dato un più solido terreno di difesa a ciò che ha iniziato l’economista Ludwig von Mises, quando, negli anni venti del secolo scorso, era il solo ed unico difensore del liberalismo classico. I demagoghi, scrisse Mises, dipingono la rivoluzione industriale come se “tutti i progressi della tecnica e della produzione fossero ricaduti ad esclusivo beneficio di pochi, mentre le masse affondavano sempre più nella miseria.” Ma:

basta solo una minima riflessione per comprendere che i frutti della rivoluzione tecnologica e industriale hanno prodotto un miglioramento e una soddisfazione proprio ai desideri delle grandi masse. Tutte le grandi industrie che producono beni di consumo lavorano direttamente a loro beneficio; tutte le industrie che producono macchine per la produzione di semilavorati lavorano indirettamente per loro. Il grande sviluppo industriale delle ultime decadi – comprese quelle della seconda metà del diciottesimo secolo – hanno prodotto un miglior soddisfacimento dei bisogni delle masse. Lo sviluppo dell’industria dell’abbigliamento, della produzione di scarpe, e i miglioramenti nel processo di distribuzione dei beni alimentari hanno avvantaggiato il grande pubblico. E’ grazie a queste industrie se oggi le masse sono meglio vestite e curate come mai prima. Comunque la produzione di massa non ha provvisto solo a cibo, alloggio e vestiti, ma anche ad altre richieste da parte della moltitudine. I giornali servono la massa tanto quanto l’industria del cinema, persino il teatro e altre simili fortezze dell’arte sono diventate, giorno dopo giorno, luoghi d’intrattenimento. (Mises 1927, 10-11).

Nell’età in cui formidabili guadagni avevano dato vita a grandi uomini, Mises ci ricorda l’uomo comune. Per troppo tempo questo punto di vista è stato omesso. Lo slogan “spennare il ricco”, senza considerare le possibili ricadute su innovazione e produttività, non funziona. “Produzione” e “distribuzione” di ricchezza sono state distinte in modo analitico, come se l’alterazione di quest’ultima non potesse mai danneggiare la prima. I consumatori sono stati biasimati per il decadimento morale, e pochissimo rispetto è stato prestato alla libertà di scelta delle persone.

Le poche voci dissidenti hanno spesso mancato quella comprensione storica del cambiamento che le avrebbe rese più forti. Una miglior apprezzamento dell’Era Borghese può dar loro coraggio. Questo liberalismo classico come filosofia dell’uomo comune, è ciò che rende perfetta la meravigliosa trilogia della McCloskey.


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Note

[1] La McCloskey fornisce una critica dettagliata dei "continuisti", i quali considerano la rivoluzione industriale nient'altro che una continuazione dei redditi in lieve aumento in Europa (McCloskey 2016, 533). Va detto che la stessa McCloskey è stata la principale critica di una delle presunte "discontinuità", cioè il comportamento dei proprietari terrieri e dei contadini prima e dopo i recinti. La McCloskey pensa che la dispersione delle trame aiutasse gli agricoltori a ridurre al minimo il rischio nelle colture, e quindi che l'uscita da un sistema del genere diventasse razionale solo quando le possibilità tecniche avrebbero consentito la concentrazione della terra senza rischi maggiori. Quindi non era un cambiamento istituzionale a rendere possibile il comportamento razionale, ma il cambiamento tecnologico e delle condizioni economiche. Si veda McCloskey (1991).

[2] Come usato in Minogue (1963).

[3] In Bourgeois Equality, la McCloskey discute dell'influenza che Karl Polanyi ha avuto sul clero (McCloskey 2016, 543-552).

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Bibliografia

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5 commenti:

  1. Dalle nostre parti un qualsiasi innovatore che cominciasse a lavorare ed a produrre la sua invenzione nel suo garage, verrebbe redarguito dall'amministratore del condominio, multato dai vigili urbani, multato dagli ispettori sanitari e del lavoro, vessato dal fisco, condannato dalla magistratura ed esposto al pubblico ludibrio sindacale e mediatico.
    Ma non per cattiveria.
    Per la cultura antiindividualista dominante da sempre da queste parti.

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  2. Un bell'articolo. Mi chiedo solamente se la Sig.ra McCloskey lavori ancora nel mondo accademico o sia stata epurata. Interessanti gli spunti che offre, soprattutto in merito al mercato delle idee e mercato dei prodotti e servizi di consumo, del perche' il primo non debba essere regolamentato a differenza del secondo, relativamente alla perenne frustrazione anticapitalista di vastissima parte degli intellettuali e le possibili origini di tutto cio'; insomma liberta' politiche ed economiche sono inscindibili e quel passaggio mette in luce tutta l'ipocrisia che domina nel mondo intellettuale. In passato lessi qualcosa del genere da parte di Huerta de Soto se non erro.
    Colgo l'occasione per fare a tutto il blog i miei auguri di buona Pasqua. Dino Sgura.

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  3. bell articolo sull ottima McCloskey

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  4. Così come il termine "borghesia" e "capitalismo", o meglio, economia di mercato, sono stati travisati nel corso del tempo ed esposti alle contaminazioni della propoganda, intorbidendo il loro significato originale, c'è anche un altro termine che ha subito la stessa sorte: globalismo. Un termine molto utilizzato e al contempo disprezzato oggigiorni, e che si ricollega a temi trattati in questo articolo.

    Dal punto di vista storico il globalismo è connesso col liberalismo ed il libero scambio. Il problema è sorto quando istituzioni come la Banca Mondiale, il WTO, il FMI e l'UE stessa sono stati associati al globalismo. Ovvero, quando sono stati fusi insieme il globalismo economico ed il globalismo politico. I critici attaccano queste organizzazioni per le ragioni sbagliate. Esse meritano di essere criticate, ma non perché spingono alcuni aspetti della liberalizzazione economica che sono effettivamente buoni, dovrebbero essere criticate perché agiscono principalmente come organizzazioni politiche che migliorano la capacità di alcuni stati potenti di intimidire e manipolare politicamente altri stati meno potenti. Questa fusione tra libero scambio, interventismo militare e politicizzazione burocratica sotto l'ombrello del "globalismo" finisce per confondere le idee.

    Porre fine a questa confusione significa separare il globalismo politico dal globalismo economico. Quest'ultimo è una forza benefica, mentre il primo è principalmente uno strumento per aumentare il potere degli stati. Il globalismo economico permette il libero flusso di beni e servizi, migliora le relazioni internazionali e aumenta gli standard di vita. Quegli stati che si sono uniti all'economia "globalizzata" hanno visto diminuire la povertà ed aumentare la salute e il benessere. Gli stati latino-americani che hanno abbracciato il commercio ed economie più libere, ad esempio, hanno vissuto una crescita, mentre quelli che hanno perseguito politiche centrali hanno continuato a ristagnare. Questi benefici possono essere raggiunti attraverso il libero scambio ed economie deregolamentate, non è necessaria alcuna burocrazia internazionale.

    La globalizzazione politica, invece, è un impedimento a questi benefici: i globalisti politici dell'OMS, ad esempio, passano le loro giornate a rilasciare rapporti su come le persone non dovrebbero mangiare carne e su come potremmo regolamentare tali comportamenti in futuro. Organizzano nuovi schemi per aumentare il costo della vita delle persone povere in nome della prevenzione del cambiamento climatico. Nel frattempo la Banca Mondiale rilascia documenti su come "modernizzare" le economie aumentando le entrate fiscali. È essenziale, quindi, fare distinzioni: il globalismo economico porta ricchezza, il globalismo politico porta povertà.

    Il globalismo economico significa laissez-faire, promuovere la libertà di innovare, commerciare e associarsi liberamente con gli altri. Il globalismo politico significa controllo, regole assurde, pianificazione centrale e coercizione.

    Detto questo, auguri di buone feste a tutti i lettori e lettrici di Freedonia :)

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    1. Hai ragione, ma nessuno pare in grado di distinguere la cooperazione volontaria (economia di mercato) dall'unione coercitiva (sotto un padrone).
      E arroganza e violenza sono sempre stati mezzi politici formidabili al servizio dell'economia di rapina.
      Vincono sempre i bulli, fin quando non trovano altri bulli che gliele suonano di santa ragione. Rassegnamoci.

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