Bibliografia

venerdì 30 dicembre 2016

I limiti empirici dell'economia





di Frank Hollenbeck


Due sviluppi economici separati nel corso degli ultimi 100 anni hanno fatto regredire la macroeconomia. Il primo è il concetto keynesiano, o più precisamente malthusiano, della domanda aggregata. Il secondo è l'empirismo positivista di Milton Friedman, il quale sottolinea l'importanza della verifica empirica nella teoria economica.

Secondo l'empirismo positivista, l'aderenza ai fatti economici è l'unico modo per convalidare le teorie economiche.

Visto come un corpo di ipotesi di merito, la teoria deve essere giudicata per il suo potere predittivo in base alla classe di fenomeni che intende "spiegare." Solo gli elementi di fatto possono dimostrare se è "giusta" o "sbagliata" o, meglio, provvisoriamente "accettata" come valida o "respinta." [...] l'unico criterio pertinente della validità di un'ipotesi è il confronto delle sue previsioni con l'esperienza.[1]

La teoria economica deve essere giudicata per il suo potere predittivo, e deve essere supportata dalla regolarità empirica. Solo gli elementi di fatto, o empirici, possono far progredire una teoria fino a farla diventare ampiamente riconosciuta. L'unico criterio pertinente della validità di un'ipotesi è il suo potere predittivo.

Friedman ampliò il "principio di falsificazione" di Popper dicendo che una teoria non può mai essere verificata, ma può essere falsificata, se si trova un contro-esempio che invalida la teoria.

L'ipotesi è rifiutata se le sue previsioni sono confutate ("spesso" o il più delle volte da un'ipotesi alternativa); è accettata se le sue previsioni non sono confutate; guadagna grande fiducia se è sopravvissuta a molti tentativi di confutazione. Gli elementi di fatto non possono mai "provare" un'ipotesi; possono solo non confutarla, che generalmente equivale a ciò che intendiamo quando diciamo che l'ipotesi è stata "confermata" dall'esperienza.[2]

Gli economisti hanno portato oltre l'empirismo positivista e hanno formulato la teoria economica dalla regolarità empirica; la legge di Okum, la curva di Phillips o, più recentemente, il punto di saturazione al 90% del rapporto debito/PIL di Rogoff e Reinhart. E quando queste regolarità empiriche hanno cominciato a dimostrarsi sbagliate, questi economisti non hanno avuto difficoltà a torcere la teoria per adattarla ai dati: per esempio, l'ipotesi adattativa e razionale della curva di Phillips. Gli economisti non hanno avuto remore a vomitare grafici che mostrano empiricamente relazioni causali tra variabili economiche.

Questo atteggiamento sta portando l'economia al di là di quello che può fare, malgrado ciò pochi economisti professionisti denunciano l'attuale imbastardimento della scienza economica. L'empirismo può supportare una teoria economica, ma non può provare o confutare una teoria economica.

Oltre 100 anni fa i limiti dell'empirismo in economia erano cristallini. Nell'articolo, “The Elasticity of the Demand for Wheat”, R. A. Lehfeldt (1914) tentò di determinare l'elasticità della domanda di grano osservando i dati storici sui prezzi rispetto al relativo consumo. Tentò di correggere le variazioni degli altri fattori (ceteris paribus) e scoprì che l'elasticità della domanda di grano era di 0.6. Basandoci su questo studio dovremmo concludere che la curva della domanda di grano è, in realtà, inclinata verso l'alto? Questo studio empirico ha dimostrato che la teoria economica è sbagliata? Qualsiasi economista di buon senso dovrebbe spiegare che ciò che si osserva non rappresenta una serie di punti su una curva stabile e perfettamente prevedibile, ma punti d'intersezione tra domanda e offerta in continua evoluzione, o punti in movimento verso l'equilibrio.

Una curva della domanda è come una fotografia: è valida solo per quell'istante in cui viene scattata, poiché altri fattori cambiano costantemente il modo in cui è posizionata la curva istante dopo istante. È impossibile misurare empiricamente la pendenza di una curva della domanda. Anche se l'autore cercò di correggere gli spostamenti nelle curve della domanda e dell'offerta, c'erano troppi fattori (alcuni non misurabili) in mutamento affinché potesse controllare empiricamente il tutto. Il suo compito era impossibile e gli economisti dovrebbero trarre importanti conclusioni da questo fallimento.

Le stime empiriche durante quel periodo di tempo avrebbero anche mostrato un numero enorme di curve della domanda inclinate positivamente. Quello era un periodo di aumento della popolazione e crescita della moneta (entrambi i parametri misurati erroneamente). Quindi, seguendo l'empirismo positivista, dovremmo concludere che le curve della domanda sono "respinte" quando inclinate verso il basso e "accettate" quando inclinate verso l'alto?

Questo ci porta ad un altro punto importante che manca nel saggio di Friedman del 1953. Il problema della misurazione in economia. Prendiamo, per esempio, il rapporto tra la crescita monetaria e l'inflazione (un rapporto inesistente secondo il "principio di falsificazione"). Che cos'è il denaro e che cos'è l'inflazione? Abbiamo diverse definizioni di denaro, da M0, M1, M2, M3, M4, ecc. L'inflazione viene calcolata di solito sia con l'IPC o col deflatore del PIL. Eppure sappiamo che l'IPC è impreciso. Dobbiamo usare pesi e periodi di riferimento per concentrarci sui prezzi. Questo sovrastima automaticamente l'aumento dei prezzi e sottostima la diminuzione dei prezzi.

Inoltre la teoria quantitativa della moneta collegava il denaro ai prezzi di tutte le transazioni: tutto quello che il denaro può comprare, ovvero, cibo, azioni, obbligazioni, gioielli, immobili. È impossibile calcolare un indice corretto di questa misura dell'inflazione dei prezzi, dal momento che i pesi non sono calcolabili. Infatti l'IPC o il deflatore del PIL sono riferimenti inadeguati per una misura corretta dell'inflazione. Oggi vediamo che un IPC soppresso sta accecando i banchieri centrali riguardo gli effetti distorsivi dell'inflazione dei prezzi degli asset.

In questo senso, l'empirismo positivista in economia è molto limitato e in molti casi inutile.

Quindi cosa devono fare gli economisti? Tornare alla teoria, rendendosi conto che l'empirismo è quello che aiuta la teoria, ma non confonderlo con le fondamenta della teoria economica o addirittura sostituirlo a quest'ultima.

L'economia è una scienza sociale costruita sull'assioma inconfutabile dell'azione umana. L'empirismo in economia è molto più limitato che nelle scienze fisiche. Il suo unico ruolo dovrebbe essere quello di sostenere la teoria.

Anche se John Stuart Mill era un empirista, aveva ragione quando disse che tutta la scienza economica è "ipotetica". Si tratta di una scienza di sole tendenze.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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Note

[1] Milton Friedman, “The Methodology of Positive Economics”.

[2] David Brat, “Milton Friedman’s Positivism and the Method of Economics”.

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di Alasdair Macleod


[...] Gli economisti interpretano malamente ciò che rappresenta il prodotto interno lordo, credendo che un aumento del PIL significhi crescita economica. Non è così. Il PIL è solo il totale delle transazioni monetarie in un determinato periodo, di solito un anno. Il concetto di crescita economica in sé è anch'esso privo di senso, perché è la ricchezza che cresce (o diminuisce), così come la quantità di moneta e del credito. Per far crescere un'economia, in altre parole, farla diventare più grande, è necessario annettere territorio supplementare e la sua popolazione. Anche gli economisti quasi-Austriaci usano erroneamente il termine "crescita" al posto di sviluppo economico. Von Mises si starà rivoltando nella tomba.

La verità è che un aumento del PIL annuo rappresenta semplicemente l'aumento della quantità di denaro nell'economia tra un anno e l'altro. Tale aumento deve arrivare o da un aumento della quantità di denaro in circolazione sfornato dalle banche centrali, oppure da un aumento del livello di credito bancario creato dalle banche commerciali, e probabilmente è una combinazione dei due. Crescita economica, quindi, vuol dire crescita della quantità di moneta e del credito. Il ragionamento fallace, il concetto secondo cui un aumento del livello generale dei prezzi sia economicamente vantaggioso, è così messo a nudo; perché l'aumento dei prezzi riflette solo una svalutazione monetaria, non un aumento della domanda.

Ma c'è anche un altro errore. Il metodo di calcolo del PIL per renderlo "reale" è quello di aggiustarlo secondo l'inflazione dei prezzi. Ma il PIL è la somma monetaria di tutte le transazioni registrate in un determinato periodo, e comprende già l'inflazione monetaria. Aggiustarlo ad una stima d'inflazione dei prezzi è un tentativo superfluo d'applicare al PIL un effetto ritardato sui prezzi e, quindi, farlo sembrare in un certo modo reale. La causa e l'effetto sono separati da un periodo di tempo indeterminato, e non può essere identificato e attribuito all'uno o all'altro. Viene anche ignorata la soggettività dei prezzi. L'uso del deflatori è la conferma definitiva dell'ignoranza di ciò che in realtà rappresenta il PIL.

Il risultato è che è necessario un continuo incremento della massa monetaria e del credito bancario affinché il "PIL reale" salga. La conseguenza di tutti questi errori e fraintendimenti è che l'analisi macroeconomica risulterà sempre sbagliata. Sono esclusi anche quegli elementi che dovrebbero trovarsi nel PIL totale, perché gli statistici vogliono mettere a fuoco solo il consumo, nella convinzione ottimista che lo stato possa gestire la domanda dei consumatori in isolamento da altri fattori economici. Ciò significa ignorare il flusso ed il riflusso di fondi tra le attività commerciali e bancarie, una delle principali fonti di distorsione statistica e altro motivo per cui gli effetti dell'inflazione dei prezzi dovuti alla politica monetaria non possono mai essere approssimati alle aspettative di un economista, anche nel caso in cui potesse essere identificato il tempo che intercorre tra di loro. L'inflazione dei prezzi degli asset esclusa dal PIL non è meno significativa rispetto all'inflazione dei cosiddetti prezzi al consumo, ma ufficialmente l'inflazione degli asset "non esiste" ed i valori patrimoniali crescenti sono invece accolti per il loro effetto ricchezza artificiale.

Questo è il motivo per cui banchieri e gestori patrimoniali amano l'inflazione monetaria. L'effetto sui prezzi degli asset li arricchisce rispetto agli altri attori di mercato, poiché la ricchezza viene trasferita a Wall Street a scapito di Main Street. Inevitabilmente l'inflazione dei prezzi non rimane imbottigliata nelle classi di asset escluse dal calcolo del PIL, perché infine finisce nei beni e servizi che sono inclusi nella misura del PIL.

Il tempo necessario affinché il denaro supplementare finisca nel consumo corrente è, come già detto, imprevedibile e può essere significativo. I prezzi delle azioni, delle obbligazioni e delle case hanno visto una sostanziale inflazione dei prezzi, ma gli elementi al consumo ne hanno vista meno – almeno finora.



Perché le entrate statali ne soffriranno

In un periodo d'inflazione dei prezzi indotto dall'espansione monetaria, le tasse non potranno mai sostenere la spesa pubblica, perché l'effetto della svalutazione monetaria distrugge i risparmi ed i guadagni della gente comune. Otto anni dopo la crisi Lehman, l'effetto cumulativo della crescita del credito ha diluito il potere d'acquisto del dollaro di circa il 44%, ipotizzando un'inflazione dei prezzi media (reale) del 7.5% nel corso degli ultimi otto anni, cifra che supera l'IPC annuo ufficiale a circa il 5%. In base a questa ipotesi, non sorprende affatto che l'onere della tassazione e della svalutazione monetaria stia opprimendo l'economia.

Il motore dell'inflazione dei prezzi non è la domanda dei consumatori, come credono gli economisti neo-Cambridge, ma l'accumulo di depositi e conti di risparmio, che insieme al circolante ammontano a quasi $12,000 miliardi in un'economia con un PIL inferiore a $19,000 miliardi. Si tratta di un'economia sovraccarica di depositi detenuti in troppe poche mani. Un leggero spostamento delle preferenze generali sarà sufficiente ad indebolire il potere d'acquisto del denaro misurato in beni e servizi.

Questo non è il momento per perseverare a non voler capire alcuni concetti economici di base. E il neo-presidente eletto Trump sembra essere in procinto d'approvare una sorta di nuovo New Deal, promettendo di far tornare grande l'America, rinnovando e ricostruendo le infrastrutture degli Stati Uniti, in combinazione con tagli fiscali à-la Reagan. Con Cina e Stati Uniti che stanno pungolando le loro economie attraverso la spesa per infrastrutture, il risultato inevitabile sarà un aumento dei prezzi delle commodity non alimentari.

Trump capisce una cosa, ed è lo sviluppo delle proprietà utilizzando le competenze finanziarie di un giocatore di Monopoli. Sfruttare la leva finanziaria va bene per un uomo d'affari che gioca con fiches del valore di qualche miliardo in un mercato da migliaia di miliardi; ma si tratta di un gioco completamente diverso quello di voler indebitare il mercato stesso.

Le banche centrali, che hanno una comprensione limitata dei mercati e ancora meno dell'economia, sono fin troppo disposte ad incoraggiare la spesa in deficit, perché non hanno altra risposta. Ciò lascia un governo degli Stati Uniti, con un debito in rapporto al PIL già oltre il 100%, che si dà alla pazza gioia con la spesa pubblica per salvare un'economia in bancarotta.

I consiglieri del presidente Trump farebbero meglio ad essere consapevoli di questi pericoli, e devono dissuaderlo dall'intraprendere una politica di spese eccessive e tagli fiscali. La svalutazione monetaria, che finanzia un deficit di bilancio crescente, impoverirà ancor di più Main Street e le emissioni aggiuntive di titoli di stato faranno aumentare per tutti il costo dei finanziamenti. Invece, dovrebbe ridurre gli oneri complessivi della sua amministrazione e non intromettersi nella vita delle persone. Meglio che prenda appunti dalla vita di Silent Cal Coolidge, se vuole diventare un buon presidente.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


giovedì 29 dicembre 2016

La battaglia disperata della FED contro la stagnazione





di James Rickards


Quando si parla di "Giorno dell'Indipendenza" alla maggior parte degli americani, essi pensano al quattro di luglio. Ciò non vale per la Federal Reserve. Per quest'ultima il "Giorno dell'Indipendenza" è il quattro di marzo.

Ed è possibile che il 4 marzo scorso potrebbe essere stato l'ultimo "Giorno dell'Indipendenza" della FED!

Perché il quattro di marzo? Il 4 marzo 1951 la Federal Reserve raggiunse un accordo con il Ministero del Tesoro degli Stati Uniti, il quale restituiva l'indipendenza politica alla FED dopo nove anni di dominio da parte del Tesoro.

A partire dall'aprile 1942, poco dopo che gli Stati Uniti entrarono nella seconda guerra mondiale, la FED accettò di porre un tetto ai tassi d'interesse dei titoli di stato per finanziare lo sforzo bellico. Il tetto faceva in modo che la FED cedesse il proprio controllo sulla politica dei tassi d'interesse.

Il tetto significava anche che la FED cedeva il controllo del proprio bilancio, perché avrebbe dovuto acquistare potenzialmente quantità illimitate di debito del Tesoro USA per attuare suddetto tetto sui tassi. (Tali acquisti di asset avevano un potenziale inflazionistico, ma nella seconda guerra mondiale l'inflazione era gestita separatamente attraverso il controllo dei prezzi in tempo di guerra.)

Molto presto potremmo entrare in un nuovo periodo di dominazione fiscale da parte del Tesoro.

La FED potrebbe di nuovo dover cedere il controllo sul proprio bilancio e sui tassi d'interesse per salvare gli Stati Uniti dalla stagnazione secolare. La FED subordinerà la sua indipendenza allo stimolo fiscale coordinato dalla Casa Bianca e dal Tesoro.

La storia dell'accordo del 4 marzo 1951 tra Tesoro USA e FED è importante. Perché il Tesoro USA non ripristinò l'indipendenza della FED nel 1945, quando gli Stati Uniti ed i suoi alleati vinsero la guerra?

Dopo la seconda guerra mondiale, il Tesoro USA era riluttante a rinunciare al suo dominio sulla FED. Il presidente Truman ritenne che gli investitori in obbligazioni americane non avrebbero dovuto subire perdite di capitale se i tassi fossero aumentati. La Casa Bianca insistette sul fatto che il tetto sui tassi a lungo termine doveva persistere.

La FED resistette, ma la sua resistenza fu presto superata dalla Guerra di Corea. Questa nuova guerra venne utilizzata dal Tesoro USA come scusa per continuare a tenere il tetto sui tassi.

Con l'arrivare del 1951, e la Guerra di Corea in stallo e le elezioni presidenziali all'orizzonte, il Tesoro USA ripristinò l'indipendenza della FED in relazione ai tassi d'interesse e alle dimensioni del suo bilancio.

Oggi l'indipendenza della FED è ancora una volta minacciata: non dalla guerra, ma dalla stagnazione secolare.

L'economia statunitense è cresciuta circa il 2% l'anno sin dal 2009. Questo ritmo è inferiore al potenziale di crescita dell'economia (3%) e ben al di sotto rispetto al ritmo delle riprese economiche del passato.

Dopo le recessioni del 1980 e 1981, l'economia americana è cresciuta a circa il 5% per diversi anni. L'economia statunitense ha avuto espansioni record in tempo di pace negli anni '80 e '90. Questo tipo di crescita è come un lontano ricordo ora.

I rapporti debito/PIL degli Stati Uniti sono i più alti sin dalla fine della seconda guerra mondiale (e molto più alti se vengono prese in considerazione le passività potenziali per i diritti sociali). Mentre i deficit degli Stati Uniti sono diminuiti, hanno continuato ad ammassare debito più velocemente di quanto l'economia sia riuscita a crescere. Gli Stati Uniti sono ancora su un percorso di crisi fiscale e perdita di fiducia nel dollaro.

Molti ipotizzano che la FED sia a corto di proiettili per affrontare una crescita depressa. Questo non è del tutto vero. La FED ha tenuto duro fino ad oggi, come avevo previsto. Ma la sua linea di politica riguardo i tassi, non è ancora riuscita a farle rialzare la testa dallo zero. La FED ha spazio per tagliare i tassi nei primi mesi del 2017. (Il quantitative easing, o "QE4," è certamente possibile, anche se ci sono poche prove che il QE2 e QE3 abbiano avuto risultati positivi.)

La FED potrebbe anche provare i tassi d'interesse negativi. È già stato ampiamente discusso. Quando le è stato chiesto circa la possibilità di tassi d'interesse negativi a Jackson Hole, Wyoming, la Yellen ha detto che non erano fuori questione. Ma la Federal Reserve ha stabilito che a meno che la prossima recessione non sia "insolitamente grave e persistente," non ci sarà ragione per implementare tassi d'interesse negativi. Vedremo.

Affinché i tassi d'interesse negativi possano essere veramente efficaci, dovrebbero essere accompagnati dall'eliminazione del denaro contante. Ciò potrebbe benissimo trasformarsi in realtà e gli stati potrebbero sostanzialmente vincere la guerra contro il denaro contante. Ma non accadrà domani o il giorno successivo, visto che questa cosa ancora affronta una grande resistenza.

Ed i recenti esempi provenienti da Europa, Svizzera, Giappone e Svezia indicano che i tassi negativi non stimolano di più la crescita economica rispetto ai tassi a zero. Infatti i tassi negativi possono essere controproducenti, in quanto segnalano timori di deflazione. Tali timori possono portare ad ulteriori risparmi (per compensare i rendimenti bassi) ed a meno spesa (sulla base di aspettative di prezzi più bassi). La gente in paesi con tassi negativi acquista casseforti per accumulare denaro.

Questo è l'opposto di quello che vogliono le banche centrali. È un circolo vizioso difficile da rompere.

La FED potrebbe tornare alle guerre tra valute e svalutare il dollaro, come ha fatto nel 2011. Un dollaro a buon mercato è infatti un elemento chiave negli "Accordi di Shanghai". Questo potrebbe dare sollievo nel breve termine all'economia degli Stati Uniti e importare un po' d'inflazione dall'estero.

Ma i guadagni degli Stati Uniti arrivano a spese dei partner commerciali, la cui crescita è già inferiore rispetto a quello degli Stati Uniti (Giappone ed Europa) o in pericolosa diminuzione (Cina). In un mondo globalizzato, non c'è scampo da un rallentamento globale.

Se le soluzioni monetarie non funzionano, cosa si può fare per ripristinare la crescita?

Mi baso su quelli che chiamo "indicazioni e avvertimenti" per rilevare cambiamenti politici epocali. La stampa di moneta da parte della banca centrale e le guerre tra valute non finiranno presto. Le élite globali stanno diventando disperate nel voler provare qualcosa di nuovo per stimolare la crescita.

Tali indicazioni e avvertimenti ora stanno segnalando forte e chiaro che la FED dovrà cedere la propria indipendenza ai grandi spendaccioni.

Un nuovo consenso globale sta emergendo dalle voci delle élite, come Adair Turner, Larry Summers, Joe Biden e Christine Lagarde. Il consenso mainstream ritiene che l'unica soluzione alla stagnazione provenga dall'espansione della spesa pubblica per le infrastrutture, l'assistenza sanitaria, la tecnologia, l'energia rinnovabile e l'istruzione. (In un'amministrazione repubblicana potrebbero essere aggiunte alla lista più spese per la difesa.)

Se i cittadini non accendono nuovi prestiti e spendono, allora deve pensarci lo stato! È l'idea keynesiana di base sin dagli anni '30, senza la brillantezza monetarista.

Più spesa pubblica significa più debito pubblico. Chi comprerebbe questi titoli di stato aggiuntivi? Come farà il Tesoro USA a tenere i tassi d'interesse bassi a sufficienza, prima di scatenare una spirale di morte tra deficit più alti e tassi più elevati che spingeranno il mercato delle obbligazioni del Tesoro fino al collasso?

La risposta è che la FED e il Tesoro USA potrebbero benissimo raggiungere un nuovo accordo segreto, proprio come fecero nel 1941. In base a questo nuovo accordo, il governo degli Stati Uniti potrebbe avere deficit più grandi per finanziare questo tipo di spesa.

La FED poi porrebbe un tetto ai tassi d'interesse per tenere il deficit sotto controllo. Porre un tetto ai tassi avrà il vantaggio di produrre tassi reali negativi, se l'inflazione sarà come si aspetta la FED. La FED può utilizzare operazioni di mercato aperto, sotto forma di acquisto di bond, per applicare il tetto ai tassi.

Ciò significa che la FED non solo cederebbe il controllo sui tassi d'interesse, cederebbe il controllo sul proprio bilancio. Un tetto ai tassi richiede un approccio "whatever it takes" per quanto riguarda gli acquisti di Treasury Note.

Il nome popolare per questo tetto ai tassi, e acquisto di bond da parte della FED per sostenere la spesa pubblica, è "elicottero monetario". I nomi tecnici sono: predominio fiscale e repressione finanziaria.

Le implicazioni per voi sono enormi.

Se persisterà la deflazione, il tetto ai tassi può forzare le obbligazioni a livelli molto più bassi. I tassi nominali e l'inflazione scenderebbero nel tentativo di raggiungere i tassi reali negativi. Ciò produrrà grandi plusvalenze nei Treasury Note.

Se emergerà l'inflazione, il tetto ai tassi potrebbe essere più alto in termini nominali, ma ancora abbastanza basso da raggiungere tassi reali negativi. In questo scenario, l'oro e altri metalli preziosi risulterebbero estremamente performanti. I titolari di Treasury Note non ne soffrirebbero eccessivamente, perché il tetto ai tassi della FED metterebbe un freno alle perdite. Ai tassi d'interesse nominali non sarà permesso di tenere il passo con l'inflazione.

In deflazione, si disporranno di enormi guadagni. In inflazione, le perdite saranno limitate da parte della FED!

Il tetto ai tassi non arriverà fino a metà 2017, o forse più tardi. La FED continuerà a seguire la strategia presente fino a quando non potrà più negare che non funziona.

L'ultima volta che la FED ha perso la sua indipendenza — nel 1942 — la ragione era la guerra. Ora una nuova guerra alla stagnazione secolare può benissimo portare la FED a perdere di nuovo la sua indipendenza.

Saluti,


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


mercoledì 28 dicembre 2016

Bolle pericolose in piena vista





di David Stockman


Jesse Felder ha pubblicato un grafico interessante riguardante le bolle. È l'ennesimo promemoria che ci ricorda come Janet Yellen e la sua allegra banda di stampatori di denaro, siano ignari degli eccessi nella speculazione e nella valutazione in tutto il sistema finanziario avviati dalle loro politiche.

Rispetto al loro reddito disponibile, il valore degli asset finanziari delle famiglie supera di gran lunga quello delle ultime due grandi bolle. E ciò è successo in un contesto economico che suggerisce esattamente il contrario. Vale a dire, i multipli di valutazione ed i tassi di capitalizzazione dovrebbero essere in calo a causa del fatto che la produttività e la capacità di crescita dell'economia degli Stati Uniti sono diminuite fin dalla fine del secolo.




Ciò che colpisce di più di questo grafico è quello che si nasconde dietro al denominatore. Sin dalla vigilia della crisi finanziaria nel 2007, una quota in rapido aumento di DPI (reddito personale disponibile) è stato rappresentato dalla crescita esplosiva dei trasferimenti sociali.

Inutile dire che i trasferimenti sociali non rappresentano nuova produzione che può essere capitalizzata nel valore della ricchezza sociale aggregata. Per definizione, i trasferimenti sociali vengono estratti mediante la tassazione dei redditi dei produttori attuali — o attraverso la tassazione dei redditi futuri, se sono finanziati con un aumento del debito pubblico.

In entrambi i casi, la portata reale degli eccessi nel grafico di Felder è più estrema rispetto a quanto raffigurato qui sopra. Tra il 2007 e il 2016, infatti, il valore degli asset finanziari delle famiglie è salito da $53,000 miliardi a $72,000 miliardi in un momento in cui il reddito personale reale, senza i trasferimenti sociali, è aumentato solo dell'1.2% annuo.

E questo dando credito agli indici dell'inflazione profondamente sottostimati del BLS. Nel mondo reale dell'entroterra statunitense, il reddito da lavoro netto aggiustato all'inflazione è a malapena cresciuto.




Quindi ecco una notizia per il nido d'incompetenti che presiede il casinò di Wall Street. Non esiste una cosa come una "norma storica" senza tempo per quando riguarda la valutazione degli asset finanziari. Il tasso di capitalizzazione adeguato per un flusso corrente di reddito, o flussi di cassa, dipende dal percorso di crescita previsto in un lontano futuro.

"Non direi che le valutazioni degli asset non sono in linea con le norme storiche." — Janet Yellen, Presidente della Federal Reserve, 21/09/2016

Eppure, per ammissione stessa della FED, il tasso di crescita atteso per l'economia degli Stati Uniti è stato abbassato di volta in volta nelle sue previsioni economiche. Il tasso di crescita mediano del PIL reale è ora ancorato a solo l'1.9%.

Quindi potreste pensare che forse qualcuno alla FED potrebbe unire i puntini. Negli ultimi sei anni hanno drasticamente sopravvalutato la crescita del PIL in termini reali, sebbene gli indici azionari siano saliti alle stelle basandosi in gran parte su un'espansione multipla.

Così, dopo aver stimato una crescita del 3.7% nel 2011 e una crescita quasi del 4.0% nel 2012, l'espansione reale si è attestata all'1.7% e all'1.8%, rispettivamente. Eppure non era una sorta di aberrazione temporanea. Durante il 2013 e il 2014, il buco tra le stime iniziali e quelle reali è stato quasi del 50%; e poi, proprio mentre la FED abbassava le sue stime per il 2015 e il 2016, il tasso effettivo di crescita ha rallentato ancora di più.

Nel caso qualcuno v'abbia prestato attenzione, la debole e tiepida ripresa economica raffigurata nella tabella qui sotto aiuta a spiegare il motivo per cui l'indice S&P 500 abbia raggiunto il picco dei profitti sei trimestri fa, $106 per azione a settembre 2014. Dal momento che sono risultati inferiori del 19%, a $87 per azione, a giugno 2016, il multiplo di mercato reale a 24.7X è tutt'altro che normale e non è certo una condizione temporanea.

A quanto pare le gambe perennemente rialziste di Wall Street si stanno spezzando per l'ennesima volta. La prospettiva degli utili più recente per il terzo trimestre, è risultata negativa su base annuale.

In breve, in un contesto di utili in calo, i multipli PE non sono neanche in linea con le norme storiche. Contrariamente alle chiacchiere della Yellen durante le conferenze stampa, sono in cima ai grafici.

Peggio ancora, la FED continua a proiettare che i tassi d'interesse verranno "normalizzati" al 3% in relazione al tasso dei fondi federali e al 4.2% in base al decennale statunitense. Ed in effetti, prima o poi questo dovrà avvenire o l'intero sistema monetario finirà disintegrato.

Quindi, con una prospettiva futura caratterizzata da un rallentamento della crescita, utili calanti ed aumento dei tassi d'interesse, come diavolo si può dire che le valutazioni attuali non sono nulla di cui preoccuparsi?




Allo stesso tempo, anche il nuovo pseudo-dissidente della FED, Eric Rosengren, rimane perso nei meandri keyensiani della sua mente. Rosengren ha votato per aumentare i tassi d'interesse, perché a quanto pare pensa che gli Stati Uniti si stiano avvicinando alla piena occupazione, e che può oltrepassarla entro il 2019 creando in tal modo rischi d'inflazione:

Entro il 2019 mi aspetto che il tasso di disoccupazione sia sceso al di sotto del 4.5%. Sebbene abbia sostenuto quelle linee di politica a supporto di robuste condizioni del mercato del lavoro, tale cifra è inferiore al tasso che credo sia sostenibile nel lungo periodo.

Beh, più o meno stiamo parlando di "piena occupazione". Oggi ci sono 5 milioni di persone in età lavorativa in più negli Stati Uniti rispetto al gennaio 2000, ma coloro con un "posto di lavoro", tra cui quelli part-time, sono quasi 1.0 milione di meno!




Per quanto riguarda l'inflazione, ecco un altro breve comunicato: è già qui.




Quindi ecco il pericolo. Gli abitanti dell'Eccles Building non vedono bolle in un sistema finanziario dove imperversa un'inflazione degli asset rampante. Vedono piena occupazione quando l'economia degli Stati Uniti ha più fiacchezza nel mondo del lavoro come non mai. E continuano a finanziare i giocatori d'azzardo a Wall Street, perché vogliono ancora più inflazione di quella che sta già devastando i redditi reali dell'entroterra statunitense.

Non c'è da stupirsi se gli elettori di Trump vogliano ribaltare il tavolo di gioco. E non è mai troppo tardi.





[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


martedì 27 dicembre 2016

Un dollaro più forte causerà una guerra commerciale con l'Europa?

L'articolo di oggi s'interroga giustamente su una possibile normalizzazione della politica monetaria in caso di guerra commerciale tra Stati Uniti ed Europa. Esso si focalizza solo sullo swap con titoli di stato. C'è un altro tipo di titoli che potrebbero creare grattacapi allo zio Mario: i titoli societari. Sin da quando la BCE ha affermato che i titoli societari europei erano tanto eligibili nel suo programma di QE quanto i titoli di stato, adesso possiede il 9.2% (€50 miliardi) dell'intero mercato obbligazionario societario europeo (€550 miliardi). Un'inversione di tendenza di questo programma d'acquisti scatenerebbe la Madre di Tutte le Offerte di Vendita da parte di investitori retail ed istituzionali; infatti parte del mercato obbligazionario societario europeo può sfoggiare rendimenti negativi solo in virtù della Gigantesca Offerta d'Acquisto della BCE, altrimenti in condizioni normali di mercato sarebbero un'impossibilità. A €3,600 miliardi, il bilancio della BCE ha raggiunto il 35% del PIL dell'Eurozona. Ogni mossa intrapresa dallo zio Mario per "fare tutto il possibile e salvare l'Unione Europea" ha portato con sé un grado crescente di rischio, perché la volatilità nel rating di tali titoli potrebbe creare significativi buchi di bilancio. Qual è la strategia di normalizzazione? Non esiste, altrimenti l'intero castello di carte fondato sulla fiducia si sfalderebbe. Ecco perché gli acquisti d'oro fisico sono ancora forti ed il recente calo dei prezzi riguarda esclusivamente il paper market.
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di Brendan Brown


I mercati non hanno tardato a vedere oltre la vacuità dell'annuncio della Banca Centrale Europea (8 dicembre) di voler ridurre il ritmo della stampa di denaro, mossa prevista per l'aprile del prossimo anno. La BCE prevede di ridurre il suo "stimolo" da €80 miliardi al mese fino a €60 miliardi al mese. Ma prevede di farlo nove mesi prima di ogni ulteriore commento — rispetto ai soliti 6 mesi.

Sessanta miliardi è un numero enorme e la persistenza della BCE nel volersi attenere alla sua politica radicale, suggerisce che Draghi e il Cancelliere Merkel sono profondamente preoccupati per una crisi finanziaria che potrebbe sconquassare lo status quo in Europa. Il potenziale fattore scatenante potrebbe essere l'Italia — ma anche le elezioni incombenti in Olanda e soprattutto in Francia.

Ognuno si rende conto che una crisi del debito in Europa, prima delle elezioni tedesche del prossimo autunno, potrebbe far affondare il Cancelliere Merkel.

C'è un problema più importante però.

Sta diventando chiaro che anche al di là della stagione elettorale in Europa, la "normalizzazione monetaria" potrebbe non essere fattibile.

Per capire questo fatto, dobbiamo renderci conto che la normalizzazione monetaria reale (non quella spacciata dal trio Bernanke/Yellen/Fischer che prevede parlare di aumenti dei tassi salvo poi lasciare tutto invariato) ha tre componenti principali:

In primo luogo, il ripristino della base monetaria come fulcro del sistema economico, il che significa un grande restringimento del bilancio della banca centrale; in secondo luogo, una liberazione dei tassi d'interesse dalla manipolazione della banca centrale; in terzo luogo, l'abrogazione del target d'inflazione al 2% e la predilezione per una stabilità dei prezzi nel lungo periodo (ma non nel breve periodo).

I mercati si rendono conto che gli Stati Uniti potrebbero seguire questa strada con Trump, almeno fino alla prossima recessione. L'esatta tempistica potrebbe dipendere da quando la Yellen si ritirerà o si dimetterà. Ma l'innesco è un dettaglio, e in ogni caso la nuova amministrazione darà un forte segnale d'intenti qualora volesse puntare su due governatori della FED. Ci si aspetta un annuncio entro la metà dell'anno prossimo.



Come gli Stati Uniti potrebbero normalizzare la loro politica monetaria

A quel punto potrebbero emergere indiscrezioni su come procederebbe la normalizzazione monetaria negli Stati Uniti. Molto probabilmente ciò comporterà l'intermediazione della Casa Bianca tra la FED ed il Tesoro USA, dove la prima scambierebbe il proprio portfolio di titoli del Tesoro a lunga scadenza (e possibilmente titoli coperti da ipoteca) con il secondo in cambio di titoli del Tesoro a breve scadenza, i quali potrebbero essere poi venduti rapidamente con un'operazione di mercato aperta che restringerebbe la base monetaria.

È vero, la Yellen e Fischer non contemplerebbero un simile accordo, poiché in apparente contrasto con la tanto decantata indipendenza della banca centrale. Problema: qualsiasi indizio di un tale accordo farebbe schizzare in alto il dollaro rispetto alle valute dove non c'è una tale normalizzazione — l'Europa, ad esempio. E, naturalmente, la Cina è un argomento totalmente diverso, poiché qualsiasi normalizzazione monetaria in Cina è lontana anni luce dati gli enormi rischi finanziari coinvolti.

Così la Germania, con il più grande surplus commerciale sulla Terra (la sua eccedenza nelle partite correnti potrebbe raggiungere il 9% del PIL l'anno prossimo), potrebbe essere diffamata nel rapporto semestrale emesso dal Tesoro USA per manipolazione della valuta. Già in passato la Germania poteva finire in questa lista, anche se poi non c'è mai finita.

Anche la Cina, a difesa dei suoi enormi squilibri commerciali, è pronta a puntare il dito contro Giappone e Germania, additandoli come trasgressori.

Ma questa volta il Giappone è in una situazione diversa.



E il Giappone?

È politicamente possibile che il primo ministro Abe ed il capo della sua banca centrale, Kuroda, possano copiare l'esempio degli Stati Uniti ed organizzare uno swap simile per abbattere la base monetaria (le due parti sarebbero la BOJ ed il Ministero delle Finanze). Inoltre c'è ampio consenso che la BOJ si allontanerà dal suo attuale tetto a zero riguardo i tassi a lungo termine (tramite un intervento potenzialmente enorme, ma volatile, finanziato con la stampa di denaro). Questo avverrebbe probabilmente in due fasi (prima alzando il tetto, poi abbandonandolo).

La priorità per Tokyo potrebbe essere quella di consolidare l'alleanza strategica con Washington, in vista dei crescenti pericoli geo-politici legati alla Cina ed al vuoto rimasto dopo il crollo dell'accordo Trans-Pacific Trade.

È possibile che la BCE e Berlino possano avere dei ripensamenti circa la normalizzazione monetaria nel contesto di una potenziale guerra commerciale con gli Stati Uniti?

Sì, potrebbero avere dei ripensamenti, ma cosa possono fare?

Non esiste alcun Ministero Europeo delle Finanze mediante il quale tutte le sofferenze bancarie e le obbligazioni nel bilancio della BCE, possono essere scambiate per i Buoni del Tesoro. E se i Ministeri delle Finanze tedesco, francese o olandese volessero prendersi la briga di fare una cosa del genere, i loro governi dovrebbero riconoscere il fallimento degli interventi della BCE nel "fare tutto il necessario per salvare l'UME."

E quindi non solo le elezioni che ora mettono in discussione lo status quo in Europa. Una guerra commerciale è proprio dietro l'angolo. E questa è una sfida non solo per la moderna cancelliere Metternich e lo status quo europeo, ma anche per la prosperità globale.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


lunedì 26 dicembre 2016

I problemi con la curva della domanda





di Frank Shostak


Una delle poche cose su cui gli economisti concordano è che i prezzi sono determinati dalla domanda e dall'offerta. Questo concetto viene riassunto attraverso le curve della domanda e dell'offerta, le quali descrivono il rapporto tra i prezzi e la quantità dei prodotti forniti e richiesti.

Nell'ambito delle curve domanda/offerta, un aumento del prezzo di un bene è associato ad una diminuzione della quantità domandata e ad un aumento della quantità offerta. Al contrario, una diminuzione del prezzo di un bene è associata ad un aumento della quantità domandata e ad un calo della quantità offerta. In breve, la legge dell'offerta è rappresentata da una curva ascendente, mentre la legge della domanda è rappresentata da una curva discendente.

Il prezzo di equilibrio si stabilisce nel punto in cui le due curve si intersecano. In questo punto, la quantità fornita e la quantità domandata sono uguali — al prezzo di equilibrio, si dice che il mercato si "pulisce".



Grafici contro realtà

Nel quadro domanda/offerta convenzionale, i consumatori e i produttori si confrontano ad un determinato prezzo; cioè, ad un dato prezzo, i consumatori domandano e i produttori forniscono una certa quantità di un bene. La domanda non è una quantità particolare, come ad esempio 10 patate, ma piuttosto una descrizione completa della quantità di patate che l'acquirente acquisterebbe a qualsiasi prezzo a cui potrebbe essere addebitato. Analogamente, l'offerta non è una particolare quantità ma una descrizione completa della quantità a cui i venditori vorrebbero vendere ad ogni prezzo possibile. Ad un determinato prezzo, la gente richiederà una certa quantità di un bene mentre i produttori ne forniranno una certa quantità.

In questo quadro, né i consumatori né i produttori hanno qualcosa da dire per quanto riguarda l'origine del prezzo di un bene. Il prezzo è dato. In breve, sia i consumatori che i produttori reagiscono ad un determinato prezzo. Ma chi ha dato il prezzo? Da dove viene?

La legge della domanda e dell'offerta, come presentata dall'economia tradizionale, non ha origine dalla realtà, ma piuttosto dalla costruzione immaginaria degli economisti. Nessuno dei dati che sono alla base delle curve della domanda e dell'offerta provengono dal mondo reale; sono puramente immaginari.

Il quadro delle curve della domanda e dell'offerta si basa sull'ipotesi che le preferenze dei consumatori rimangono invariate e che i ricavi e i prezzi rimangono invariati. In realtà, però, le preferenze dei consumatori non sono congelate e le altre cose non sono costanti. Altrimenti nessuno avrebbe potuto osservare queste curve. Secondo Mises: "È importante rendersi conto che non abbiamo alcuna conoscenza o esperienza in relazione alla forma di tali curve."[1]

Tuttavia, gli economisti discutono animatamente sulle varie proprietà di queste curve invisibili e sulle loro implicazioni per quanto riguarda le politiche statali.

Il grafico della domanda/offerta è in contrasto con il fatto che le azioni umane sono consapevoli e propositive. Nei grafici, non ci sono imprenditori. Invece lo spostamento delle curve avviene in risposta a vari fattori che determinano i prezzi. Per esempio, si ritiene che uno spostamento della curva della domanda verso destra per una determinata offerta, farà aumentare il prezzo di un bene. Il prezzo aumenterà anche se, per una data curva della domanda, la curva dell'offerta si sposta verso sinistra. In altre parole, il quadro domanda/offerta non tratta di esseri umani, ma di automi che reagiscono a diversi fattori.

L'idea che il prezzo di un bene sia semplicemente dato, produce l'impressione che il prezzo sia un attributo di un bene (cioè, è parte del bene stesso). Tuttavia non esiste qualcosa come un prezzo di un bene in generale. I prezzi dei beni sono stabiliti in una determinata transazione, in un determinato luogo e in un determinato momento. Secondo Ludwig von Mises:

Un prezzo di mercato è un fenomeno storico reale, il rapporto quantitativo a cui in un determinato luogo e in una data precisa due individui scambiano quantità definite di due beni definiti. Si riferisce alle condizioni speciali dell'atto di scambio concreto. In definitiva è determinato dai giudizi di valore degli individui coinvolti. Non deriva dalla struttura generale dei prezzi o dalla struttura dei prezzi di una classe speciale di merci o servizi. Quella che viene chiamata struttura dei prezzi è una nozione astratta derivata da una molteplicità di singoli prezzi concreti. Il mercato non genera prezzi di terreni o di automobili, né dei salari in generale, ma i prezzi di un certo pezzo di terra, di una certa auto e salari per una performance di un certo tipo.[2]

Il valore che un individuo assegna ai beni è il prodotto della sua mente, la quale giudica i fatti della realtà. Gli individui valutano l'utilità di un bene come mezzo per sostenere la loro vita e il loro benessere. Su questo argomento Carl Menger scrisse:

Il valore non è quindi intrinseco alle merci, né è una loro proprietà, né una cosa indipendente, esistente di per sé. Si tratta di un giudizio che gli uomini economizzanti esprimono riguardo l'importanza dei beni a loro disposizione, affinché possano sostenere la loro vita e il loro benessere. Quindi il valore non esiste al di fuori della coscienza degli uomini. È errato definire un bene "di valore" poiché ha un certo valore per alcuni individui economizzanti, o perché gli economisti lo definiscono così, come qualcosa d'indipendente e di oggettivo.[3]

Allo stesso modo Mises scrisse:

Sarebbe assurdo considerare un prezzo come se fosse un oggetto isolato di per sé. Un prezzo è espressivo della valutazione che gli uomini agenti attribuiscono ad una cosa in base ai loro sforzi per eliminare il disagio.[4]

Dal momento che i prezzi sono sempre in riferimento ad una determinata transazione, e dal momento che ogni transazione è unica, è erroneo omogeneizzare tali transazioni per mezzo di curve.



Come sono determinati i prezzi

Contrariamente a quanto sostiene il punto di vista mainstream, i prezzi non sono solo dati; qualcuno li definisce — questo qualcuno è un produttore. Ogni volta che un produttore fissa un prezzo per il suo prodotto, è nel suo interesse ottenere un prezzo a cui la quantità che viene prodotta può essere venduta con un profitto. Nel fissare questo prezzo, il produttore/imprenditore dovrà considerare quanti soldi i consumatori sono propensi a spendere sul prodotto, i prezzi dei vari prodotti competitivi, e il costo di produzione.

I produttori impostano il prezzo, ma i consumatori, acquistando o astenendosi dall'acquisto, decreteranno in ultima analisi se il prezzo stabilito porterà ad un profitto. I produttori, in questo senso, sono in balia dei consumatori. Se, ad un prezzo stabilito, un produttore non può avere un ritorno positivo sul suo investimento, perché non abbastanza persone sono disposte a comprare il suo prodotto, il produttore sarà costretto ad abbassare il prezzo per aumentare il fatturato. Ovviamente, regolando il prezzo del bene, l'imprenditore deve regolare anche i suoi costi al fine di realizzare un profitto.

Di conseguenza un produttore si assicurerà un profitto quando, al prezzo fissato di un bene, la scelta d'acquisto dei consumatori genererà ricavi che supereranno il costo più gli interessi. Il profitto indica che sia i produttori sia i consumatori hanno migliorato il loro benessere.

Investendo una data quantità di denaro, i produttori si sono assicurati una maggiore quantità di denaro. Questo, a sua volta, consente loro di acquistare una maggiore quantità di beni e servizi, che a sua volta migliora la loro vita e il loro benessere. Allo stesso modo i consumatori, scambiando i loro soldi per quei beni che si trovano all'apice della lista delle loro priorità, aumentano i loro standard di vita.

In realtà, il settaggio dei prezzi non è mai meccanicistico e automatico. Spetta al produttore/imprenditore valutare se si tratta di una buona o di una cattiva idea aumentare i prezzi; dopo tutto, ciò che conta per lui è staccare un profitto. Quando un bene genera un profitto ad un prezzo particolare, allora questo segnala agli imprenditori che i consumatori sono disposti a sostenere il prodotto al prezzo stabilito. I prezzi, quindi, sono un fattore importante per stabilire come i produttori possono impiegare le loro risorse.

Bisogna osservare, quindi, che ciò che determina la quantità offerta di beni non è una domanda ipotetica, ma la valutazione di un produttore sul fatto che, in un dato luogo e in un dato tempo, i consumatori approveranno i beni offerti. Deve essere quanto più preciso possibile nel fissare il giusto prezzo che gli permetterà di vendere la sua offerta con un profitto.



Ulteriori fallacie

Nel quadro domanda/offerta, un aumento del costo di produzione sposterà la curva dell'offerta verso sinistra. Per una data curva della domanda, ciò farà salire il prezzo di un bene. Nel quadro domanda/offerta, il costo di produzione è un importante contributo nella determinazione dei prezzi dei beni.

Abbiamo già visto, però, che si tratta dell'acquisto o dell'astensione dall'acquisto da parte dei consumatori, l'unico fattore determinante i prezzi dei beni. Nessun singolo acquirente è preoccupato per il costo di produzione di un bene particolare. Il prezzo che accetterà è in accordo con le sue particolari priorità in un determinato momento. Per lui il costo di produzione non è di alcuna rilevanza.

Inoltre la teoria del costo della produzione svanisce quando si tenta di spiegare prezzi di beni e servizi che non hanno alcun costo, in quanto non sono prodotti -- beni che sono semplicemente lì, come terreni non edificati. Allo stesso modo, la teoria non può spiegare il motivo dei prezzi elevati dei quadri famosi. Su questo tema Murray Rothbard scrisse:

Allo stesso modo i servizi immateriali, come i prezzi dell'intrattenimento, dei concerti, dei medici, dei domestici, ecc, difficilmente possono essere rappresentati dai costi incarnati in un prodotto.[5]

Utilizzando il quadro domanda/offerta per un bene particolare, gli economisti mainstream vanno oltre e introducono le curve della domanda e dell'offerta per l'intera economia. Sostengono, per esempio, che se l'economia non sta andando bene, allora serve un rafforzamento della domanda attraverso politiche fiscali o monetarie. Per una data curva dell'offerta, questo spingerà la curva della domanda verso destra, aumentando in tal modo la produzione complessiva. Inutile dire che il quadro domanda/offerta fornisce il motivo affinché lo stato e la banca centrale possano intervenire al posto delle imprese.

Questo quadro, tuttavia, non dice assolutamente nulla su come l'aumento della domanda genera più produzione. Per di più tace per quanto riguarda il finanziamento necessario al fine di aumentare la produzione. Inoltre sono i produttori che avviano l'introduzione ai nuovi prodotti. Sono loro che mettono in moto un aumento di beni e servizi, e non i consumatori in quanto tali. I produttori presentano nuovi prodotti, per così dire, affinché i consumatori, a loro volta, acquistando o non acquistando possano determinare il destino di suddetti prodotti. Quindi non esiste una cosa come un domanda autonoma che fa scattare in qualche modo l'offerta.

Il grafico domanda/offerta fornisce anche la giustificazione per varie teorie monopolistiche immaginarie, che a loro volta forniscono il motivo affinché lo stato possa distruggere le aziende di successo. Per esempio, si ritiene che una società che fissa il prezzo al di sopra del livello di quello competitivo svolga un'attività monopolistica e, pertanto, debba essere fermata.

Anche se dovessimo ritenere valido questo modo di pensare, non c'è modo di stabilire se il prezzo di un bene è al di sopra del cosiddetto livello concorrenziale dei prezzi (prezzo di monopolio). In base a quali criteri si può decidere se un prezzo è competitivo? Su questo punto Rothbard scrisse:

Non c'è modo di definire il 'prezzo di monopolio' perché non c'è modo di definire il prezzo competitivo a cui deve fare riferimento.[6]

Nel quadro domanda/offerta, gli economisti utilizzano la quantità di output prodotto e il suo prezzo medio. Tuttavia non possono essere definiti né il prezzo medio, né l'output totale. Non è possibile stabilire un prezzo medio per una camicia da $10 e $50 in litri di vino. Analogamente, non è possibile aggiungere dieci camicie e un litro di vino per stabilire la produzione totale. Quindi l'intera struttura grafica dell'economia mainstream riguardante la domanda e l'offerta, si basa su premesse fuorvianti.

Inoltre l'intera questione del cosiddetto equilibrio è fuorviante, nel modo in cui viene presentato dal quadro domanda/offerta. L'equilibrio, nel contesto di un comportamento consapevole e propositivo, non ha nulla a che fare con l'intersezione delle curve della domanda e dell'offerta. L'equilibrio viene raggiunto quando sono soddisfatti gli scopi di un individuo. Quando un fornitore vende la sua fornitura ad un prezzo che produce profitto, possiamo dire che abbia raggiunto l'equilibrio.

Allo stesso modo, i consumatori che acquistano l'offerta lo fanno per soddisfare i loro obiettivi. Pertanto le politiche dello stato e delle banche centrali che mirano a spostare le curve immaginarie verso il cosiddetto equilibrio, impediscono sia ai consumatori sia ai produttori di raggiungere i loro obiettivi e, quindi, impediscono il raggiungimento dell'equilibrio vero.



Conclusione

Nonostante il grande fascino per la sua semplicità, il grafico domanda/offerta, come impiegato dall'economia tradizionale, è uno strumento che si distacca dalla realtà. L'economia del mondo reale è troppo complessa per essere trasposta fedelmente su semplici grafici che non tengono conto dell'incertezza, della speculazione imprenditoriale, e del cambiamento incessante dell'economia di mercato.

Questo quadro di riferimento non è affatto innocuo, perché lo stato e la banca centrale fanno uso di questo strumento per dar forma a diverse politiche. Questo è il motivo per cui sono continuamente sorpresi quando l'economia reale vira in una direzione diversa da quella che aveva previsto la loro analisi grafica.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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Note

[1] Ludwig von Mises, Human Action, chapter 16(2), "Valuation and Appraisement," p. 333.

[2] Ludwig von Mises, Human Action, chapter 16(13), "Prices and Income," p. 393.

[3] Carl Menger, Principles of Economics (New York, London: New York University Press), pp. 120-21.

[4] Mises, Human Action, chapter 16(12), p. 392.

[5] Murray N. Rothbard, Economic Thought Before Adam Smith: An Austrian Perspective on the History of Economic Thought, vol.1 (Edward Elgar), p. 452.

[6] Murray N. Rothbard, Man, Economy, and State, (Nash Publishing), p. 607.

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venerdì 23 dicembre 2016

Gli elfi del capitalismo

Eccoci in prossimità del Natale, e un nuovo anno è in procinto di volgere al termine. La pubblicazione di oggi è sostanzialmente una potente lezione riguardo il sistema capitalista e la sua funzione fisiologica all'interno della società. Non un sistema produttivo "predatore", come ritenuto da parecchi individui, bensì un sistema produttivo in sintonia con le esigenze di consumatori e produttori. Ovviamente, quando lo stesso non viene trasformato in un mostro clientelare manipolato e distorto da una ristretta cerchia d'individui in cerca di mantenere le proprie poltrone di comando. Il sistema produttivo capitalista altro non è che un miracolo. Nessuno di noi sa come funziona, ma siamo tutti noi che siamo in grado di farlo funzionare. Questa è la lezione di Leonard Read nel suo magnifico saggio "Io, la matita". La versione moderna del saggio di Read è rappresentata dal programma televisivo "Come è fatto." Un riassunto di questa lezione ce lo offre oggi Tucker con l'analisi di una favola di Natale, puntualizzando come la libertà sia il cardine cruciale della vita umana e come lo scambio volontario sia un atto per migliorare reciprocamente le proprie esistenze. Questo spazio informativo, ad esempio, continua ad esistere solo perché i lettori che lo leggono seguono appassionati ciò che viene pubblicato e lo sostengono attivamente. È per questo che esorto voi, cari lettori e lettrici, a lasciare una donazione sul blog cliccando sul pulsante Paypal qui sulla colonna di destra (non fatelo su siti terzi, ma solo qui sul blog). Oppure acquistando una copia dei miei lavori sullo shop di Freedonia. Ringraziandovi lettori e lettrici, auguro a voi tutti un sereno Natale.
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di Jeffrey Tucker


Una ragione per cui le fiabe dei fratelli Grimm hanno molto appeal è perché mostrano un mondo che ci è familiare, un mondo che era appena stato "inventato" nel XIX secolo, quando queste storie vennero stampate e diffuse per la prima volta. Parlano di persone, scene ed eventi che influenzano quella che noi oggi chiamiamo classe media, o borghesia. Sì, le storie hanno re, regine, principi e principesse, ma più spesso le nostre simpatie come lettori ricadono sulle persone semplici ed i loro trionfi.

Sia Marx che Mises concordavano sul fatto che quella che noi chiamiamo classe media, era una nuova creazione nella storia del mondo ed era nata dal capitalismo. Le voragini di casta che una volta persistevano tra i contadini ed i signori, tra quelli privilegiati per titolo e concessioni di terre e quelli destinati a servirli, vennero colmate con l'avvento della società commerciale. Il possesso universale di beni e denaro sostituì la servitù e il baratto, ed i rapporti di scambio tra la gente sostituirono gradualmente le associazioni per nascita e casualità. Il segno distintivo di questa nuova classe media fu la prospettiva di progresso sociale attraverso una prosperità crescente. Una classe fluida, quindi, sostituì caste fissi.

Questo era il mondo che faceva da sfondo ai racconti dei fratelli Grimm.

Un grande esempio è il racconto breve intitolato "Gli elfi e il calzolaio". Un calzolaio, non per colpa sua, era diventato talmente povero che gli rimaneva solo il cuoio per fare un paio di scarpe. La sera tagliò la tomaia per metterla in lavorazione il giorno dopo e, con la coscienza pulita andò tranquillamente a letto, si raccomandò a Dio e si addormentò.

La mattina, dopo aver detto le sue preghiere, voleva mettersi al lavoro, ma le scarpe erano sul deschetto belle e pronte. Si meravigliò e non sapeva cosa dire. Prese le scarpe in mano per osservarle meglio ed erano fatte così bene che nemmeno un punto era sbagliato, proprio un capolavoro come doveva essere. Subito dopo entrò un cliente e le scarpe gli piacquero talmente che le pagò più del solito. Con quella somma il calzolaio poté acquistare il cuoio per due paia di scarpe. La sera le tagliò per mettersi al lavoro la mattina di buona voglia, ma non ce ne fu bisogno: quando si alzò le scarpe erano già finite e non mancarono i compratori che gli diedero tanto denaro da acquistare il cuoio per ben quattro paia di scarpe. Di buon mattino trovò pronte anche queste altre quattro paia e così andò via. Quello che tagliava la sera era pronto al mattino così che ben presto egli poté di nuovo vivere più che bene e finì per diventare un uomo benestante.

Ora accadde che una sera, era vicino il Natale, l’uomo preparò le scarpe tagliate e, prima di andare a letto, disse alla moglie: “Cosa diresti se questa notte stessimo svegli per vedere chi ci aiuta con mano così generosa?” La donna acconsentì, accese una candela e si nascosero dietro gli abiti che erano appesi nella stanza e cominciarono a fare la guardia. A mezzanotte arrivarono due omini nudi, si misero al deschetto, presero tutto il cuoio preparato, cominciarono coi loro ditini a forare, cucire e battere talmente in fretta che il calzolaio non poteva distogliere lo sguardo dalla meraviglia. E non si smisero finché non furono alla fine, con le scarpe belle e pronte sul deschetto, poi svelti se ne andarono. La mattina dopo la donna disse: “Quegli ometti ci hanno fatto diventare ricchi e noi dovremo essere loro riconoscenti. Vanno in giro con niente addosso e devono aver freddo. Sai cosa? Cucirò per loro una camicina, una giacca, un panciotto e un paio di calzoncini e tu aggiungi un paio di scarpine”. L’uomo rispose: “D’accordo”. La sera quando ebbero tutto finito, misero sul deschetto i regali al posto del cuoio e si nascosero per vedere che faccia avrebbero fatto gli gnomi.

A mezzanotte arrivarono saltellando e volevano mettersi al lavoro ma, invece del cuoio, trovarono i bei vestitini. Prima si stupirono, poi mostrarono una gran gioia. A tutta velocità li indossarono, se li sistemarono e cantarono: Non siamo forse giovanotti belli e gai? Basta fare i calzolai! Poi saltarono e ballarono e fecero capriole sulle sedie e sulle panche. Infine, ballando, giunsero alla porta. Da allora in poi non tornarono più, ma il calzolaio se la passò bene ed ebbe fortuna in tutto ciò che faceva.

Possiamo vedere in questa storia l'archetipo di quello che allora era il successo della classe media nel quadro di una società commerciale. La coppia passò dalla povertà alla ricchezza in tempi relativamente brevi. Ciò non a causa di favori di re o per la scoperta di un tesoro, tanto meno per furto o pirateria, ma semplicemente in virtù del lavoro e del commercio, insieme all'aiuto di alcuni benefattori.

Traslate questa storia ai giorni nostri: siamo tutti nella posizione di calzolai poveri con benefattori. In uno stato di natura, dovremmo lottare per la sopravvivenza, come ha fatto la maggior parte di tutta l'umanità dall'inizio della storia documentata fino al tardo medioevo, quando cominciarono ad apparire all'orizzonte le prime luci del capitalismo. Nel corso delle centinaia d'anni successive, e in particolare nel corso del XIX secolo, la vita stessa passò attraverso una trasformazione. Lo stato di natura venne sconfitto e il mondo si asservì completamente al benessere umano.

Come William Bernstein riassume bene: "A partire dal 100 d.C. circa, vi fu un miglioramento nel benessere del genere umano, ma era così lento ed inaffidabile da essere impercettibile durante la vita media (25 anni) di una persona. Poi, non molto tempo dopo il 1820, la prosperità iniziò a scorrere lungo un torrente sempre crescente; dopo ogni generazione, la vita del figlio sarebbe diventata più comoda, informata e prevedibile di quello del padre."

Siamo nati in un mondo di straordinaria prosperità che la nostra generazione non ha creato. Abbiamo l'aspettativa di vivere fino alla vecchiaia, ma questa situazione è del tutto nuova nella storia, un'aspettativa che abbiamo potuto avere solo dal 1950. Anche il cambiamento numerico della popolazione riflette tale mutamento. Probabilmente c'erano circa 250 milioni di persone in vita 2,000 anni fa, e c'è voluto fino al 1800 affinché si raggiungesse il miliardo. Centoventi anni dopo, questo numero è raddoppiato. Nel 1960 vivevano sul pianeta tre miliardi di persone, ed oggi ce ne sono 7 miliardi. Quello che abbiamo è un mondo in stagnazione e stasi dall'inizio della storia documentata fino alla rivoluzione industriale, quando il genere umano sperimentò dapprima uno stile di vita così come la conosciamo oggi.

Se tutti noi fossimo il calzolaio nella storiella qui sopra, il mondo prospero in cui viviamo — il mondo che ci concede smartphone, assistenza sanitaria, benzina per le nostre auto e la capacità di comunicare in video e in tempo reale con il clic di un pulsante — potrebbe essere considerato come gli elfi che durante la notte erano venuti a trasformare la pelle in un prodotto commerciabile. La maggior parte di noi non ha fatto nulla di proprio merito affinché beneficiassimo di questo fantastico mondo. Alla nostra nascita, ci siamo svegliati la mattina e abbiamo trovato il paio di scarpe finite.

Ciò che mi sembra strano è che il calzolaio e sua moglie abbiano aspettato tanto prima di voler capire chi o cosa stesse trasformando la loro pelle in scarpe. Davvero hanno potuto vivere per mesi senza voler sapere chi o cosa li stesse facendo diventare ricchi?

Ma è così che oggi si comporta ognuno di noi. Siamo circondati da bellezze in questo mondo plasmato dall'uomo, un mondo completamente diverso da quello che è esistito nel 99.9% del resto della storia umana. E ben pochi si preoccupano d'indagare le cause! Diamo tutto per scontato.

Usiamo la nostra tecnologia, mangiamo cibi provenienti da tutto il mondo in vendita a pochi isolati da casa nostra, saliamo su aerei che ci portano verso qualsiasi destinazione sul pianeta, possiamo comunicare con chiunque e ovunque, e abbiamo un'aspettativa di vita intorno agli 80 anni e oltre; ciononostante siamo notevolmente indifferenti e privi di curiosità riguardo quelle forze che operano all'interno di questo mondo e l'hanno trasformato da inferno a paradiso terrestre.

In realtà, la situazione è peggiore. Molti sono apertamente ostili alle istituzioni e alle idee che hanno dato origine alla nostra epoca di abbondanza. Tutti vediamo le proteste in televisione in cui folle di giovani "armati" di iPhone, alzano i pugni arrabbiati con la società commerciale, il capitalismo e l'accumulo di capitale, e richiedono il tipo di controlli, espropriazioni e irreggimentazioni che ci porteranno indietro al tempo delle caste, della povertà e delle vite misere. Stanno complottando per uccidere gli elfi.

Nella fiaba ci sono solo due elfi. Nel mondo reale gli studiosi dicono che ce ne sono sei...

Il primo è la proprietà privata, senza la quale non ci può essere controllo sul mondo che ci circonda. Non sarebbe necessaria se ci fosse sovrabbondanza di tutte le cose, ma la realtà della scarsità significa che la proprietà esclusiva è la prima condizione che ci permette di migliorare il mondo. La proprietà collettiva è una frase priva di senso, in quanto stiamo parlando di risorse scarse.

Il secondo è lo scambio. Fino a quando sono volontari, tutti gli scambi avvengono con l'aspettativa di un reciproco vantaggio. Lo scambio è un passo oltre il dono, perché la vita di entrambe le parti migliora con l'acquisizione di qualcosa di nuovo. Lo scambio è ciò che rende possibile la formazione di rapporti di cambio e, in un'economia monetaria, lo sviluppo di bilanci per il calcolo dei profitti e delle perdite. Questo è il fondamento della razionalità economica.

Il terzo è la divisione del lavoro che permette a tutti di beneficiare dalla cooperazione per un arricchimento reciproco. Vuol dire di più che dividere le attività produttive. Si tratta d'integrare tutti nel grande progetto della costruzione della civiltà. Anche il maestro di tutti i talenti e competenze può beneficiare cooperando coi lavoratori meno qualificati in mezzo a noi. La scoperta di questa realtà è l'inizio della vera illuminazione. Ciò significa la sostituzione di una guerra commerciale e dello sfruttamento con la cooperazione.

Il quarto è l'imprenditorialità, che coraggiosamente squarcia il velo dell'incertezza e ci porta verso il futuro dove risiede ogni sorta di progresso materiale. L'incertezza del futuro è una realtà che lega tutta l'umanità; gli imprenditori sono quelli che non temono questa condizione, ma piuttosto la considerano come un'opportunità per migliorare la vita degli altri, ad un profitto.

Il quinto è l'accumulo di capitale, l'accumulo di beni che non sono prodotti per il consumo, ma per la produzione di altri beni. Il capitale è ciò che rende possibile ciò che F. A. Hayek definiva "l'ordine esteso", il macchinario intertemporale che stabilizza gli eventi della vita nel corso del tempo. Il capitale rende possibile la pianificazione imprenditoriale. Rende possibile l'assunzione della forza lavoro. Consente agli investitori di pianificare e costruire un futuro luminoso.

Il sesto elfo non è un'istituzione, ma uno stato d'animo. È il desiderio di una vita migliore e la convinzione che possa avverarsi se compiamo i passi giusti. Credere nella possibilità di progresso. Se perdiamo questa prospettiva, perdiamo tutto. Anche se tutte le altre condizioni sono in atto, senza l'impegno intellettuale e spirituale a scacciare sempre di più lo stato di natura, scivoleremo solamente nel baratro. Questo stato d'animo è l'essenza della cosiddetta mente occidentale, e che ora s'è diffusa in tutto il mondo.

Insieme, questi elfi costituiscono una squadra con un nome, e quel nome è capitalismo. Se non vi piace questo nome, lo potete chiamare in modo diverso: libero mercato, libera impresa, società libera, liberalismo, o come volete. Ciò che conta non è il nome della squadra, ma i suoi elementi costitutivi.

Lo studio dell'economia è molto simile alla decisione del calzolaio di rimanere alzato per scoprire la causa della sua fortuna. Erano elfi e non avevano vestiti. Ottennero vestiti come ricompensa per il loro servizio. Anche noi dovremmo fare vestiti per quelle istituzioni che hanno migliorato il nostro mondo e proteggerle, così, dagli elementi e dai loro nemici. E anche se dopo se ne andranno via nel cuore della notte, non dobbiamo mai dimenticare ciò che hanno fatto per noi.

Saluti,


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


giovedì 22 dicembre 2016

L'inflazione è oltre i target da cinque anni di fila ormai





di Lee Adler


A giugno 2012 Ben Bernanke è stato il primo che ha fissato un obiettivo d'inflazione ufficiale al 2%. Da allora la FED ha sostenuto che avrebbe cominciato a normalizzare i tassi d'interesse quando l'obiettivo sarebbe stato raggiunto e la disoccupazione sarebbe scesa al di sotto del 5%. Quest'ultimo obiettivo è stato a lungo soddisfatto, ma per quanto riguarda l'obiettivo dell'inflazione?

Beh, dipende da come si misura l'inflazione. E non sto parlando delle misure private che riflettono davvero la realtà, come il cosiddetto Flyover CPI di David Stockman. Sto parlando delle misure ufficiali.

Ce ne sono molte tra cui scegliere. Ed ecco, sorpresa delle sorprese, la FED ha scelto quella che è più soppressa e più lontana dall'esperienza della maggior parte delle famiglie americane: le spese personali al consumo (PCE), che sono salite di appena l'1% nel corso dell'ultimo anno e hanno avuto una media dell'1.2% negli ultimi 5 anni. Così la FED può far finta che l'inflazione sia "troppo bassa", qualunque cosa voglia significare.

La mia misura ufficiale preferita, che i media mainstream non riportano, è l'indice dei prezzi alla produzione (PPI) per i prodotti al consumo finiti meno cibo ed energia. Rappresenta le variazioni di prezzo che i rivenditori pagano per il loro inventario di prodotti finiti. Ha costantemente superato l'indice dei prezzi al consumo (CPI) e la PCE sin da quando l'inflazione ha cominciato a rimbalzare dai minimi della recessione nel 2009.

Il calo dei prezzi dell'energia nel 2014 ha causato un grande tonfo nell'IPC totale, ma la misura Core ha continuato a salire più in alto. È risultata al di sopra del target della FED negli ultimi 2 anni, mentre la PCE è risultata meno della metà che nel corso degli ultimi 2 anni, facendo registrare una media dell'1.2% sin dal 2011.

Il PPI per i beni di consumo di base finiti, non soffre di tali manipolazioni. Tuttavia non è un indicatore perfetto dell'inflazione globale, poiché comprende solo i prodotti finiti e non comprende né le abitazioni né i servizi. Non ci sono nemmeno istruzione e servizi sanitari, i cui prezzi sembrano essere quasi iperinflazionati. Ma il PPI per i beni di consumo finiti è una rappresentazione molto più realistica dell'inflazione effettiva rispetto all'IPC.

Allora dove è finito tutto il denaro stampato dalla FED? Che tipo d'inflazione ha stimolato la ZIRP? La risposta è semplice: inflazione degli asset. Ma gli economisti non la tengono in conto. È pazzesco; tutto ciò che non è un bene di consumo, non conta. Non è inflazione. Quando i prezzi degli asset salgono, viene chiamato "apprezzamento", quando in realtà è un risultato diretto dell'inflazione monetaria.

Quando la FED fissa un obiettivo d'inflazione, esso non ha nulla a che fare con l'inflazione monetaria, che in economia classica è un aumento sostenuto della massa monetaria. E non è quello che è accaduto? Fino al 2011, poco prima che Ben Bernanke decidesse che avremmo avuto bisogno di un obiettivo d'inflazione al 2%, l'offerta di moneta M2 era cresciuta ad un tasso annuo composto del 7.1%.

Ciò superava, ovviamente, l'obiettivo della FED. Ma questo non conta, così la FED si ritrova una scusa per continuare a stampare moneta o, mantenere i tassi d'interesse a zero.

Nel frattempo l'IPC è cresciuto a solo l'1.6% l'anno, perché il Bureau of Labor Statistics (BLS) l'ha sottovalutato. Quando aggiungiamo le abitazioni all'IPC e vi diamo il giusto peso, l'inflazione al consumo è tra il 2.5% ed il ​​3%. Sì, al di sopra dell'obiettivo della FED.

Cosa succede quando si continua ad avere un'inflazione monetaria al 7%, ma l'economia statunitense cresce solo tra l'1.5% ed il ​​2.5%? Succede che ci ritroviamo un'inflazione degli asset. La FED dice che gli appartamenti multifamiliari, la quintessenza del bene d'investimento immobiliare, sono stati inflazionati al 3.4% l'anno. Freddie Mac ha dichiarato alla fine del 2015 che le proprietà multifamiliari erano aumentate in valore del 13-15% l'anno dal 2009 al 2015.

Il Joint Center For Housing Studies di Harvard, ha dichiarato che gli investimenti immobiliari multifamiliari si sono "apprezzati" del 40% nei 5 anni fino al 2015. Quindi, chi lo sa? Una cosa sembra certa, i suoi numeri sono ovviamente troppo bassi, come tutto il resto della misure dell'inflazione.

Nel mercato delle case unifamiliari il Federal Housing Finance Agency (FHFA) afferma che i prezzi sono in aumento del 5.9% l'anno. Il FHFA utilizza una misurazione estremamente conservatrice, in cui sono sovraponderate le vecchie case. L'indice dei prezzi delle case del NAR mostra una crescita dei prezzi del 7% l'anno sin dal 2011, esattamente lo stesso tasso dell'inflazione monetaria.

Nel frattempo il Census Bureau dice che i nuovi prezzi di vendita delle case sono aumentati del 5.2% l'anno, e questo dopo una grande crisi nel corso dell'ultimo anno, il che suggerisce che il mercato immobiliare si sta indebolendo.

La FED vuole rialzare i tassi dei mutui proprio quando il mercato immobiliare sta iniziando a mostrare segni di debolezza?

Non sarebbe una sorpresa per nessuno di noi se la FED commettesse l'ennesimo errore grossolano. Il suo tempismo è stato atroce sin da quando Greenspan è succeduto a Volcker. Siamo semplicemente di fronte all'ennesimo abbaglio nella sua storia di errori seriali e strategici.

Sì, i tassi devono salire qualora volessimo ritornare ad un'economia sana con tassi d'interesse razionali che portano a rendimenti degli investimenti e decisioni razionali, ma la FED ha aspettato troppo a lungo. E non ha lasciato nessuna via di fuga che non coinvolga un dolore economico enorme. È troppo tardi per un atterraggio morbido.

Quindi la FED si concentra sull'inflazione al consumo utilizzando misure soppresse e sottovalutare in maniera massiccia la PCE. Al contempo, il consumo aumenta più rapidamente rispetto alle misure ufficiali, danneggiando le famiglie statunitensi.

L'inflazione al consumo ha in realtà più che compensato gli aumenti salariali che sono stati in media dell'1.5-2.5% sin dal 2011. Se i consumatori non stanno guadagnando di più, non possono spingere più in alto l'inflazione dei beni di consumo, perché non hanno i soldi. I banchieri e gli speculatori ce li hanno, e hanno fatto in modo di non condividerli con i lavoratori che raschiano il fondo del barile per tirare avanti.

Se i salari non crescono, non c'è modo affinché salgano i prezzi al consumo, non importa quanto la FED arroventi la sua stampante e mantenga i tassi d'interesse a zero. C'è un eccesso d'offerta di lavoro e le imprese stanno riducendo la necessità di manodopera automatizzando ogni attività possibile. Questa non è una novità. L'automazione è una caratteristica fondamentale del mercato. I sindacati sono crollati anni fa. La globalizzazione ha abbassato i salari.

Tutti questi processi sono strutturali. La politica monetaria allentata non stimolerà mai la crescita dei salari e l'inflazione al consumo. Ogni grande banca centrale c'ha provato, nel caso del Giappone parliamo di decenni, e non ha mai funzionato. E non funzionerà mai. Eppure, proprio di recente, Janet Yellen ha minacciato d'implementare più di quella cosa che finora è fallita. È folle.

Quello che otteniamo dall'allentamento monetario è l'inflazione degli asset, la quale ha impresso una patina di stabilità su quella che è una situazione pericolosamente instabile. È all'orizzonte una perdita di fiducia, e una volta palesata non passerà molto tempo prima che arrivi una margin call facendo crollare i prezzi degli asset in un'ondata di liquidazioni e deleveraging.

Una volta che la fiducia viene a mancare, non ci sarà abbastanza denaro per soddisfare tali obblighi, in quanto le margin call ne distruggeranno più di quello che può essere raccolto per ripagare i debiti. Continue vendite di asset porteranno ad un crollo deflazionistico.

E a quel punto cosa farà la FED? Comprerà tutto? Non ci scommetterei, ma sarà troppo tardi.

Saluti,


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


mercoledì 21 dicembre 2016

Il libero commercio è sinonimo d'abbondanza — Il protezionismo è sinonimo di scarsità





di Frank Hollenbeck


In un attacco mirato contro il commercio con la Cina, Donald Trump ha sostenuto che l'America abbia perso posti di lavoro altamente remunerati nell'industria manifatturiera perché la Cina promuove le sue esportazioni attraverso sussidi, vantaggi fiscali e manipolazioni della valuta. La realtà è che non dovremmo preoccuparci di che cosa faccia la Cina. Più la Cina sovvenziona le sue industrie, tanto più ci guadagniamo in abbondanza di beni e servizi a basso costo e, contrariamente a quanto crede Trump, posti di lavoro altamente remunerati.



Vogliamo abbondanza ed una produttività elevata

In un'economia di scambio c'è una sorta di antagonismo naturale tra produttori e consumatori. I produttori beneficiano dalla scarsità dei beni che vendono, mentre i consumatori vogliono l'abbondanza di tali beni. (I produttori, ovviamente, beneficiano anche dall'abbondanza di beni intermedi utilizzati per produrre i loro prodotti.)

Un produttore vuole essere l'unico in un determinato luogo che vende un numero limitato di prodotti per un periodo di tempo limitato. I consumatori, invece, vogliono abbondanza, con più produttori e prodotti disponibili per un periodo di tempo più lungo. Questo "conflitto" emerge spontaneamente in un'economia di scambio. Robinson Crusoe che va a caccia preferisce chiaramente l'abbondanza alla scarsità.

Fortunatamente la concorrenza promuove l'abbondanza, consentendo un'eguaglianza tra reddito e ricchezza.

In un ambiente non competitivo i posti di lavoro altamente remunerati possono emergere nelle industrie protette, ma questo dipende dalla capacità dei sindacati di controllare l'offerta di lavoro. La pressione proveniente dal lavoro non sindacalizzato è una minaccia costante per questi posti di lavoro altamente remunerati creati dalle azioni dello stato. Eppure, anche in questo caso, non vi è alcuna garanzia che questo assetto porterà a posti di lavoro con paghe più elevate, forse ci saranno solamente profitti superiori per queste industrie protette.

In un ambiente competitivo, dove l'abbondanza è la norma, una paga alta deve provenire da un'elevata produttività. I nostri standard di vita sono superiori rispetto a quelli di coloro che vivono in Africa, non perché siamo più intelligenti o lavoriamo di più in questo momento, ma perché il nostro lavoro si innesta su una base di capitale molto più grande. Robinson Crusoe catturerà più pesci con una rete piuttosto che con le sue mani: e più reti avrà, più pesci prenderà. La sua produttività aumenta costantemente con più risorse a sua disposizione.

Pertanto, al fine di ottenere un'alta retribuzione, il lavoratore deve produrre beni o servizi di valore. Nessuno pagherà un lavoratore più del valore di ciò che lui o lei produce. Ad esempio, supponete di poter creare un aggeggio composto da cinque parti che possa essere venduto ad un prezzo massimo di $100 per unità in un settore altamente competitivo. Per fare questo aggeggio vengono assunti 100 lavoratori che lavorano in modo indipendente e che necessitano di 10 ore per ultimarlo. A parte gli altri costi, quanto verrebbe pagato ciascun lavoratore? $10 l'ora. Ora supponiamo che si specializzino e ogni lavoratore lavori su una sola delle cinque parti. I vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro consentirebbero di creare un aggeggio impiegando solo la metà del tempo, ovvero, 5 ore. Quanto verrebbero pagati ora? Fino a $20 l'ora. Supponiamo ora di aggiungere una macchina che permetta ad ogni lavoratore di completare un aggeggio in un'ora. Quanto verrebbero pagati ora? Un lavoratore potrebbe guadagnare fino a $100 l'ora. Scopriamo, quindi, che i salari alti provengono dalla divisione del lavoro e dall'abbondanza di capitale. Maggiore è la quantità di capitale, maggiore sarà la produttività e, in un ambiente competitivo, maggiore sarà il salario.

Naturalmente la concorrenza ridurrà il prezzo dell'aggeggio, come conseguenza della crescente abbondanza e dei salari nominali. Eppure anche se la deflazione dovesse divenire la norma, i redditi reali o il tenore di vita del lavoratore medio risulteranno in costante aumento: ogni uomo trarrà vantaggio dalla crescita dei salari reali derivanti da una maggiore abbondanza e da prezzi più bassi.

Supponiamo ora che la Cina sovvenzioni le sue esportazioni al punto che possiamo comprarle gratuitamente. Ciò significherebbe che non dovremmo più utilizzare le risorse scarse per produrre in patria questi prodotti e potremmo deviare una parte del capitale da queste industrie (acciaio, tessuti, ecc.) e trasferirlo in altri settori. Con più capitale queste altre industrie, ceteris paribus, si ritroverebbero lavori con paghe più elevate rispetto al periodo antecedente gli scambi commerciali con la Cina.



Utilizzare lo stato per creare una scarsità artificiale

La politica commerciale protezionistica è strutturata sulla creazione di scarsità. Le restrizioni commerciali non aumentano la quantità di capitale, ma ne forzano un dirottamento. Visto che il paese protezionista stimolerebbe meno specializzazione, il capitale finirebbe disperso e quindi i salari risulterebbero inferiori a quello che sarebbero stati altrimenti.

Inoltre proteggere l'industria americana dalla concorrenza "sleale" è più difficile e complesso rispetto a quanto Donald Trump e altri protezionisti pensano. Per esempio, come risponderebbe un protezionista ai reclami di tre grandi case automobilistiche, come Audi, Land Rover, BMW, secondo cui Hyundai e Toyota posseggono ingiusti vantaggi competitivi nazionali e internazionali poiché utilizzano acciaio cinese a basso costo? Un protezionista imporrebbe restrizioni su tutte le importazioni che utilizzano componenti cinesi? È chiaro che questa situazione degenererebbe rapidamente in una guerra commerciale in cui tutti perderebbero. La globalizzazione, o la concorrenza internazionale, ha condotto a margini sottili e una linea di politica anti-commercio metterebbe l'industria statunitense in una situazione di svantaggio competitivo, sia a livello nazionale che internazionale.

Se "l'equità" nel commercio è una preoccupazione, si possono adottare molti passi senza privare i produttori ed i consumatori americani di beni e servizi esteri. Un buon punto di partenza sarebbe quello di chiudere la Export-Import Bank che avvantaggia ingiustamente gli esportatori statunitensi.

Un altro buon punto di partenza sarebbe quello di tornare ad una moneta sonante.

Quando si tratta di commercio, la migliore politica che gli Stati Uniti possano adottare, o quella che qualsiasi altro paese possa adottare, è eliminare tutte le barriere alle importazioni. Questo può essere fatto unilateralmente. L'abbondanza deve sempre avere la priorità sulla scarsità.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/