di Frank Hollenbeck
Due sviluppi economici separati nel corso degli ultimi 100 anni hanno fatto regredire la macroeconomia. Il primo è il concetto keynesiano, o più precisamente malthusiano, della domanda aggregata. Il secondo è l'empirismo positivista di Milton Friedman, il quale sottolinea l'importanza della verifica empirica nella teoria economica.
Secondo l'empirismo positivista, l'aderenza ai fatti economici è l'unico modo per convalidare le teorie economiche.
Visto come un corpo di ipotesi di merito, la teoria deve essere giudicata per il suo potere predittivo in base alla classe di fenomeni che intende "spiegare." Solo gli elementi di fatto possono dimostrare se è "giusta" o "sbagliata" o, meglio, provvisoriamente "accettata" come valida o "respinta." [...] l'unico criterio pertinente della validità di un'ipotesi è il confronto delle sue previsioni con l'esperienza.[1]
La teoria economica deve essere giudicata per il suo potere predittivo, e deve essere supportata dalla regolarità empirica. Solo gli elementi di fatto, o empirici, possono far progredire una teoria fino a farla diventare ampiamente riconosciuta. L'unico criterio pertinente della validità di un'ipotesi è il suo potere predittivo.
Friedman ampliò il "principio di falsificazione" di Popper dicendo che una teoria non può mai essere verificata, ma può essere falsificata, se si trova un contro-esempio che invalida la teoria.
L'ipotesi è rifiutata se le sue previsioni sono confutate ("spesso" o il più delle volte da un'ipotesi alternativa); è accettata se le sue previsioni non sono confutate; guadagna grande fiducia se è sopravvissuta a molti tentativi di confutazione. Gli elementi di fatto non possono mai "provare" un'ipotesi; possono solo non confutarla, che generalmente equivale a ciò che intendiamo quando diciamo che l'ipotesi è stata "confermata" dall'esperienza.[2]
Gli economisti hanno portato oltre l'empirismo positivista e hanno formulato la teoria economica dalla regolarità empirica; la legge di Okum, la curva di Phillips o, più recentemente, il punto di saturazione al 90% del rapporto debito/PIL di Rogoff e Reinhart. E quando queste regolarità empiriche hanno cominciato a dimostrarsi sbagliate, questi economisti non hanno avuto difficoltà a torcere la teoria per adattarla ai dati: per esempio, l'ipotesi adattativa e razionale della curva di Phillips. Gli economisti non hanno avuto remore a vomitare grafici che mostrano empiricamente relazioni causali tra variabili economiche.
Questo atteggiamento sta portando l'economia al di là di quello che può fare, malgrado ciò pochi economisti professionisti denunciano l'attuale imbastardimento della scienza economica. L'empirismo può supportare una teoria economica, ma non può provare o confutare una teoria economica.
Oltre 100 anni fa i limiti dell'empirismo in economia erano cristallini. Nell'articolo, “The Elasticity of the Demand for Wheat”, R. A. Lehfeldt (1914) tentò di determinare l'elasticità della domanda di grano osservando i dati storici sui prezzi rispetto al relativo consumo. Tentò di correggere le variazioni degli altri fattori (ceteris paribus) e scoprì che l'elasticità della domanda di grano era di 0.6. Basandoci su questo studio dovremmo concludere che la curva della domanda di grano è, in realtà, inclinata verso l'alto? Questo studio empirico ha dimostrato che la teoria economica è sbagliata? Qualsiasi economista di buon senso dovrebbe spiegare che ciò che si osserva non rappresenta una serie di punti su una curva stabile e perfettamente prevedibile, ma punti d'intersezione tra domanda e offerta in continua evoluzione, o punti in movimento verso l'equilibrio.
Una curva della domanda è come una fotografia: è valida solo per quell'istante in cui viene scattata, poiché altri fattori cambiano costantemente il modo in cui è posizionata la curva istante dopo istante. È impossibile misurare empiricamente la pendenza di una curva della domanda. Anche se l'autore cercò di correggere gli spostamenti nelle curve della domanda e dell'offerta, c'erano troppi fattori (alcuni non misurabili) in mutamento affinché potesse controllare empiricamente il tutto. Il suo compito era impossibile e gli economisti dovrebbero trarre importanti conclusioni da questo fallimento.
Le stime empiriche durante quel periodo di tempo avrebbero anche mostrato un numero enorme di curve della domanda inclinate positivamente. Quello era un periodo di aumento della popolazione e crescita della moneta (entrambi i parametri misurati erroneamente). Quindi, seguendo l'empirismo positivista, dovremmo concludere che le curve della domanda sono "respinte" quando inclinate verso il basso e "accettate" quando inclinate verso l'alto?
Questo ci porta ad un altro punto importante che manca nel saggio di Friedman del 1953. Il problema della misurazione in economia. Prendiamo, per esempio, il rapporto tra la crescita monetaria e l'inflazione (un rapporto inesistente secondo il "principio di falsificazione"). Che cos'è il denaro e che cos'è l'inflazione? Abbiamo diverse definizioni di denaro, da M0, M1, M2, M3, M4, ecc. L'inflazione viene calcolata di solito sia con l'IPC o col deflatore del PIL. Eppure sappiamo che l'IPC è impreciso. Dobbiamo usare pesi e periodi di riferimento per concentrarci sui prezzi. Questo sovrastima automaticamente l'aumento dei prezzi e sottostima la diminuzione dei prezzi.
Inoltre la teoria quantitativa della moneta collegava il denaro ai prezzi di tutte le transazioni: tutto quello che il denaro può comprare, ovvero, cibo, azioni, obbligazioni, gioielli, immobili. È impossibile calcolare un indice corretto di questa misura dell'inflazione dei prezzi, dal momento che i pesi non sono calcolabili. Infatti l'IPC o il deflatore del PIL sono riferimenti inadeguati per una misura corretta dell'inflazione. Oggi vediamo che un IPC soppresso sta accecando i banchieri centrali riguardo gli effetti distorsivi dell'inflazione dei prezzi degli asset.
In questo senso, l'empirismo positivista in economia è molto limitato e in molti casi inutile.
Quindi cosa devono fare gli economisti? Tornare alla teoria, rendendosi conto che l'empirismo è quello che aiuta la teoria, ma non confonderlo con le fondamenta della teoria economica o addirittura sostituirlo a quest'ultima.
L'economia è una scienza sociale costruita sull'assioma inconfutabile dell'azione umana. L'empirismo in economia è molto più limitato che nelle scienze fisiche. Il suo unico ruolo dovrebbe essere quello di sostenere la teoria.
Anche se John Stuart Mill era un empirista, aveva ragione quando disse che tutta la scienza economica è "ipotetica". Si tratta di una scienza di sole tendenze.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/
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Note
[1] Milton Friedman, “The Methodology of Positive Economics”.
[2] David Brat, “Milton Friedman’s Positivism and the Method of Economics”.
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di Alasdair Macleod
[...] Gli economisti interpretano malamente ciò che rappresenta il prodotto interno lordo, credendo che un aumento del PIL significhi crescita economica. Non è così. Il PIL è solo il totale delle transazioni monetarie in un determinato periodo, di solito un anno. Il concetto di crescita economica in sé è anch'esso privo di senso, perché è la ricchezza che cresce (o diminuisce), così come la quantità di moneta e del credito. Per far crescere un'economia, in altre parole, farla diventare più grande, è necessario annettere territorio supplementare e la sua popolazione. Anche gli economisti quasi-Austriaci usano erroneamente il termine "crescita" al posto di sviluppo economico. Von Mises si starà rivoltando nella tomba.
La verità è che un aumento del PIL annuo rappresenta semplicemente l'aumento della quantità di denaro nell'economia tra un anno e l'altro. Tale aumento deve arrivare o da un aumento della quantità di denaro in circolazione sfornato dalle banche centrali, oppure da un aumento del livello di credito bancario creato dalle banche commerciali, e probabilmente è una combinazione dei due. Crescita economica, quindi, vuol dire crescita della quantità di moneta e del credito. Il ragionamento fallace, il concetto secondo cui un aumento del livello generale dei prezzi sia economicamente vantaggioso, è così messo a nudo; perché l'aumento dei prezzi riflette solo una svalutazione monetaria, non un aumento della domanda.
Ma c'è anche un altro errore. Il metodo di calcolo del PIL per renderlo "reale" è quello di aggiustarlo secondo l'inflazione dei prezzi. Ma il PIL è la somma monetaria di tutte le transazioni registrate in un determinato periodo, e comprende già l'inflazione monetaria. Aggiustarlo ad una stima d'inflazione dei prezzi è un tentativo superfluo d'applicare al PIL un effetto ritardato sui prezzi e, quindi, farlo sembrare in un certo modo reale. La causa e l'effetto sono separati da un periodo di tempo indeterminato, e non può essere identificato e attribuito all'uno o all'altro. Viene anche ignorata la soggettività dei prezzi. L'uso del deflatori è la conferma definitiva dell'ignoranza di ciò che in realtà rappresenta il PIL.
Il risultato è che è necessario un continuo incremento della massa monetaria e del credito bancario affinché il "PIL reale" salga. La conseguenza di tutti questi errori e fraintendimenti è che l'analisi macroeconomica risulterà sempre sbagliata. Sono esclusi anche quegli elementi che dovrebbero trovarsi nel PIL totale, perché gli statistici vogliono mettere a fuoco solo il consumo, nella convinzione ottimista che lo stato possa gestire la domanda dei consumatori in isolamento da altri fattori economici. Ciò significa ignorare il flusso ed il riflusso di fondi tra le attività commerciali e bancarie, una delle principali fonti di distorsione statistica e altro motivo per cui gli effetti dell'inflazione dei prezzi dovuti alla politica monetaria non possono mai essere approssimati alle aspettative di un economista, anche nel caso in cui potesse essere identificato il tempo che intercorre tra di loro. L'inflazione dei prezzi degli asset esclusa dal PIL non è meno significativa rispetto all'inflazione dei cosiddetti prezzi al consumo, ma ufficialmente l'inflazione degli asset "non esiste" ed i valori patrimoniali crescenti sono invece accolti per il loro effetto ricchezza artificiale.
Questo è il motivo per cui banchieri e gestori patrimoniali amano l'inflazione monetaria. L'effetto sui prezzi degli asset li arricchisce rispetto agli altri attori di mercato, poiché la ricchezza viene trasferita a Wall Street a scapito di Main Street. Inevitabilmente l'inflazione dei prezzi non rimane imbottigliata nelle classi di asset escluse dal calcolo del PIL, perché infine finisce nei beni e servizi che sono inclusi nella misura del PIL.
Il tempo necessario affinché il denaro supplementare finisca nel consumo corrente è, come già detto, imprevedibile e può essere significativo. I prezzi delle azioni, delle obbligazioni e delle case hanno visto una sostanziale inflazione dei prezzi, ma gli elementi al consumo ne hanno vista meno – almeno finora.
Perché le entrate statali ne soffriranno
In un periodo d'inflazione dei prezzi indotto dall'espansione monetaria, le tasse non potranno mai sostenere la spesa pubblica, perché l'effetto della svalutazione monetaria distrugge i risparmi ed i guadagni della gente comune. Otto anni dopo la crisi Lehman, l'effetto cumulativo della crescita del credito ha diluito il potere d'acquisto del dollaro di circa il 44%, ipotizzando un'inflazione dei prezzi media (reale) del 7.5% nel corso degli ultimi otto anni, cifra che supera l'IPC annuo ufficiale a circa il 5%. In base a questa ipotesi, non sorprende affatto che l'onere della tassazione e della svalutazione monetaria stia opprimendo l'economia.
Il motore dell'inflazione dei prezzi non è la domanda dei consumatori, come credono gli economisti neo-Cambridge, ma l'accumulo di depositi e conti di risparmio, che insieme al circolante ammontano a quasi $12,000 miliardi in un'economia con un PIL inferiore a $19,000 miliardi. Si tratta di un'economia sovraccarica di depositi detenuti in troppe poche mani. Un leggero spostamento delle preferenze generali sarà sufficiente ad indebolire il potere d'acquisto del denaro misurato in beni e servizi.
Questo non è il momento per perseverare a non voler capire alcuni concetti economici di base. E il neo-presidente eletto Trump sembra essere in procinto d'approvare una sorta di nuovo New Deal, promettendo di far tornare grande l'America, rinnovando e ricostruendo le infrastrutture degli Stati Uniti, in combinazione con tagli fiscali à-la Reagan. Con Cina e Stati Uniti che stanno pungolando le loro economie attraverso la spesa per infrastrutture, il risultato inevitabile sarà un aumento dei prezzi delle commodity non alimentari.
Trump capisce una cosa, ed è lo sviluppo delle proprietà utilizzando le competenze finanziarie di un giocatore di Monopoli. Sfruttare la leva finanziaria va bene per un uomo d'affari che gioca con fiches del valore di qualche miliardo in un mercato da migliaia di miliardi; ma si tratta di un gioco completamente diverso quello di voler indebitare il mercato stesso.
Le banche centrali, che hanno una comprensione limitata dei mercati e ancora meno dell'economia, sono fin troppo disposte ad incoraggiare la spesa in deficit, perché non hanno altra risposta. Ciò lascia un governo degli Stati Uniti, con un debito in rapporto al PIL già oltre il 100%, che si dà alla pazza gioia con la spesa pubblica per salvare un'economia in bancarotta.
I consiglieri del presidente Trump farebbero meglio ad essere consapevoli di questi pericoli, e devono dissuaderlo dall'intraprendere una politica di spese eccessive e tagli fiscali. La svalutazione monetaria, che finanzia un deficit di bilancio crescente, impoverirà ancor di più Main Street e le emissioni aggiuntive di titoli di stato faranno aumentare per tutti il costo dei finanziamenti. Invece, dovrebbe ridurre gli oneri complessivi della sua amministrazione e non intromettersi nella vita delle persone. Meglio che prenda appunti dalla vita di Silent Cal Coolidge, se vuole diventare un buon presidente.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/