Bibliografia

lunedì 25 aprile 2016

Il declino del principio di legalità





di F. A. Hayek


La saggezza politica, acquisita attraverso l'amara esperienza delle varie generazioni, spesso sbiadisce lungo il graduale cambiamento del significato delle parole che esprimono le sue massime. Sebbene l'apparenza delle frasi rimanga la stessa, vengono lentamente spogliate del loro significato originale fino a quando risultano vuote e banali. Infine, un ideale per il quale le persone hanno combattuto con passione in passato, cade nel dimenticatoio perché manca di un appellativo generalmente inteso. Se la storia dei concetti politici è in generale d'interesse solo per lo specialista, in tali situazioni spesso non c'è altro modo di scoprire ciò che sta accadendo se non tornare alla fonte, al fine di recuperare il significato originario del fonema che usiamo ancora. Al giorno d'oggi questo è certamente vero per il concetto di Principio di Legalità, il quale era l'ideale fondamentale della libertà degli inglesi, ma che ora sembra aver perso sia il suo significato sia il suo fascino.

Ci sono pochi dubbi circa la fonte da cui gli inglesi del tardo periodo Tudor e all'inizio di quello Stuart, hanno estrapolato l'ideale politico per cui i loro figli avrebbero combattuto nel XVII secolo; è stata la riscoperta della filosofia politica dell'antica Grecia e dell'antica Roma che, come sostenne Thomas Hobbes, ha ispirato il nuovo entusiasmo per la libertà. Ma se ci chiediamo quali fossero quelle caratteristiche nell'insegnamento degli antichi che scatenassero quel loro grande appeal, la risposta degli accademici moderni non è troppo chiara. Non dobbiamo prendere sul serio l'affermazione di moda secondo cui la libertà personale non esisteva nell'Atene antica: tutto ciò che può essere stato vero per la democrazia degenere contro la quale reagì Platone, non era certamente vero per quegli ateniesi i cui generali, in un periodo di estremo pericolo durante la spedizione in Sicilia, dichiararono di combattere per un paese in cui avevano "discrezionalità illimitata per vivere a loro piacimento". Ma da dov'è emersa questa libertà nel "più libero tra i paesi liberi", come lo definì Nicia, tanto da illuminare sia i Greci stessi sia gli elisabettiani?

La risposta risiede in parte in una parola greca che gli elisabettiani hanno preso in prestito dai Greci, ma che sin da allora è caduta in disuso; la sua storia, sia nell'antica Grecia sia successivamente, ci offre una curiosa lezione. Il termine Isonomia appare nel 1598 nell'opera di John Florio, World of Wordes, ed è una parola italiana che significa "leggi uguali per tutte le persone"; due anni dopo viene tradotta in inglese, "isonomy", da Philemon Holland nella sua traduzione di Livio in cui viene descritta una situazione in cui le leggi sono uguali per tutti e i magistrati hanno la loro dose di responsabilità di fronte ad esse. Poi è stata utilizzata con una certa frequenza durante il XVII secolo, e "uguaglianza di fronte alla legge", "stato di diritto" e "principio di legalità", sembrano essere solamente interpretazioni successive del concetto descritto dal termine greco.



Leggi uguali per tutti

La storia della parola in greco antico è di per sé istruttiva. Era un termine molto antico che aveva preceduto quello di Demokratia, come nome per un ideale politico. Per Erodoto era "il più bello di tutti i nomi" per un ordine politico. La necessità di leggi uguali per tutti, concetto intrinseco a tale termine, rappresentava una rivolta contro la tirannia. Dopo che venne raggiunta la democrazia, il termine continuò ad essere utilizzato come giustificazione e poi come travestimento del carattere vero della democrazia: il governo democratico avrebbe presto proceduto a distruggere quella stessa uguaglianza davanti alla legge da cui aveva derivato la sua giustificazione. I Greci avevano pienamente compreso che i due concetti, anche se correlati, non avevano lo stesso significato. Tucidide parla senza esitazione di un "un'oligarchia isonomica"; e poi scopriamo che isonomia è stato un termine usato anche da Platone in contrasto con la democrazia, piuttosto che in suo favore.

Alla luce di questo sviluppo i passaggi celebri di Politica di Aristotele, in cui egli discute i diversi tipi di democrazia, anche se non utilizza più il termine isonomia, sono in sostanza una difesa di questo vecchio ideale. I lettori probabilmente ricorderanno come egli sottolinea che "è più corretto che sia la legge a disciplinare piuttosto che uno qualunque dei cittadini", che le persone in possesso di potere supremo "dovrebbero essere nominate solo come custodi e servitori della legge", e in particolare come condanna il tipo di governo sotto il quale "governano le persone e non la legge". Tale governo, secondo lui, non può essere considerato come uno stato libero: "Poiché quando il governo non è nelle leggi, allora non c'è stato libero, poiché la legge dovrebbe essere suprema su tutte le cose"; egli sostiene anche che "qualsiasi struttura di questo genere che concentra tutto il potere nei voti delle persone non può chiamarsi democrazia, poiché i suoi decreti non possono essere definiti generali nella loro estensione". Insieme con l'altrettanto famoso passo in Retorica, in cui sostiene che "è importante che le leggi definiscano quanti più punti possibili in modo da lasciarne il meno possibile alle decisioni dei giudici", abbiamo una dottrina piuttosto coerente di governo della legge.

Quanto tutto questo significasse per gli Ateniesi, lo dimostra un racconto di Demostene su una legge introdotta da un ateniese in base alla quale "non era lecito proporre una legge che colpisse un individuo, a meno che la stessa non valesse per tutti gli Ateniesi", perché egli era del parere che "ogni cittadino ha una quota uguale di diritti civili, cosicché tutti dovrebbero avere una quota uguale nelle leggi". Anche se, come Aristotele, Demostene non utilizza più il termine isonomia, l'affermazione è poco più di una parafrasi del vecchio concetto.



La riscoperta nel XVII secolo

Una controversia tra Hobbes e Harrington, sull'origine della formula "governo delle leggi e non degli uomini", indica com'erano vivi questi punti di vista degli antichi filosofi nella mente dei pensatori politici del XVII secolo. Hobbes l'aveva descritto come "l'ennesimo errore della politica di Aristotele, poiché in una repubblica ben ordinata non dovrebbero governare gli uomini bensì le leggi". Harrington replicò che "una società civile basata sul fondamento del diritto o dell'interesse comune" deve "seguire Aristotele e Livio [...] l'impero delle leggi, non degli uomini".

A quanto pare per gli inglesi del XVII secolo gli autori latini, in particolare Livio, Cicerone e Tacito, divennero fonti sempre più importanti di filosofia politica. Ma anche se non consultarono la traduzione olandese di Livio, dove avrebbero trovato la parola, era ancora l'ideale greco dell'isonomia a cui facevano riferimento in tutti i loro punti cruciali. Omnes legum servi sumus ut liberi esse possumus di Cicerone [siamo tutti servi delle leggi in modo da poter essere liberi] (ripetuto più tardi, quasi parola per parola, da Voltaire, Montesquieu e Kant) è l'espressione più concisa dell'ideale di libertà sotto la legge. Durante il periodo classico del Diritto Romano si ricomprese come non ci fosse alcun conflitto tra la libertà e la legge; soprattutto come le sue generalità, certezze e restrizioni ponessero limiti all'autorità, condizione essenziale per la libertà. Questa condizione durò fino a quando la legge inflessibile (strictum ius) venne progressivamente abbandonata nell'interesse di una nuova politica sociale. L'egregio studioso del Diritto Romano, F. Pringsheim, ha descritto questo processo sin dalle sue origini sotto l'imperatore Costantino:

L'impero assoluto proclamò, insieme al principio di equità, che l'autorità della volontà imperiale fosse avulsa dalla barriera del diritto. Giustiniano con i suoi dotti professori portò questo processo alla sua conclusione.



Lotta per la libertà economica

Quando si tratta di mostrare ciò che gli inglesi dei secoli XVII e XVIII hanno prodotto con la tradizione classica che avevano riscoperto, dobbiamo per forza di cose snocciolare qualche citazione. Ma molte delle espressioni più significative ed istruttive della dottrina alla base, così come s'è sviluppata, purtroppo sono meno note di quello che in realtà avrebbero meritato. Né oggi viene ricordato che la lotta decisiva fra il Re e il Parlamento, che ha comportato l'identificazione e l'elaborazione del Principio di Legalità, è stata combattuta principalmente sul tipo di questioni economiche che ancora oggi sono al centro delle varie polemiche. Per gli storici del XIX secolo le misure di Giacomo I e Carlo I, le quali generarono un conflitto, sembravano abusi antiquati senza attualità. Oggi alcune di queste controversie hanno qualcosa di straordinariamente familiare. (Nel 1628 Carlo I evitò di nazionalizzare il carbone solo quando gli venne fatto notare che ciò avrebbe potuto provocare una ribellione!)

Fu la richiesta di leggi uguali per tutti i cittadini che permise al Parlamento d'opporsi agli sforzi del re per regolare la vita economica. Gli uomini sembravano aver capito, meglio di quanto non accada oggi, che il controllo della produzione significa sempre creazione di privilegi: dare il permesso a Pietro di fare ciò che Paolo non è autorizzato a fare. La prima grande affermazione rappresentate il Principio di Legalità, ovvero, leggi certe e uguali per tutti e limitazione delle discrezionalità amministrative, è contenuta nella Petizione dei Reclami del 1610; nacque a seguito delle nuove norme per la costruzione a Londra e il divieto di produzione di amido di frumento. In quella occasione la Camera dei Comuni si pronunciò così:

Tra i molti altri punti di felicità e di libertà che i sottoposti di Vostra Maestà hanno goduto, il più caro e prezioso è il seguente: essere guidati e governati dalla certezza del principio di legalità, il quale dà sia al capo sia alle membra ciò che appartiene loro di diritto, senza lasciare spazio ad una forma di governo incerta ed arbitraria. [...] Da questa radice è sbocciato il diritto incontestabile del popolo di questo regno: non essere soggetto a subire alcuna punizione che si estenda alle loro vite, terre, corpi, o beni, diversa da quella che viene ordinata dal diritto comune di questa terra o dagli statuti redatti in Parlamento.

L'ulteriore sviluppo di quella che i giuristi socialisti contemporanei hanno sprezzantemente respinto come dottrina Whig del Principio di Legalità, è stato strettamente connesso alla lotta contro il monopolio statale e in particolare alla discussione riguardante lo Statuto dei Monopoli del 1624. È stato proprio a questo proposito che quella grande fonte di dottrina Whig, Sir Edward Coke, sviluppò la sua interpretazione della Magna Carta e che lo portò a dichiarare (nel suo Institutes):

Se ad un qualsiasi uomo venisse fatta una concessione, occuparsi di carte o trattare per fare affari, tale concessione sarebbe contro la libertà e la libertà del soggetto [...] e di conseguenza contro questa grande Carta.

Abbiamo già riportato le posizioni caratteristiche espresse da Hobbes e Harrington. Qui non ci interessa rintracciare quei passi concernenti lo sviluppo della dottrina e passeremo sopra anche all'esposizione classica di John Locke, fatta eccezione per una delle sue affermazioni raramente citate. Il suo obiettivo è quello che gli scrittori contemporanei hanno definito "addomesticamento del potere":

Le leggi sono state fatte [...] per limitare il potere e moderare il dominio di ogni parte e membro della società.

La forma in cui la dottrina è diventata proprietà comune degli inglesi, è stata determinata più dagli storici che hanno presentato le conquiste della rivoluzione alle generazioni successive che dagli scritti dei teorici politici. Quindi se vogliamo sapere cos'ha significato la tradizione in questione per l'inglese di fine XVIII e inizio XIX secolo, non possiamo far altro che rivolgerci a History of England di David Hume per ottenere un'interpretazione riguardo il progresso politico dal "governo della volontà" al "governo del diritto". C'è un passaggio in particolare, che fa riferimento alla soppressione della Star Chamber nel 1641, il quale mostra quello che egli riteneva il significato principale degli sviluppi costituzionali del XVII secolo:

Nessun governo, a quel tempo o in qualsiasi altro tempo, è sopravvissuto senza una certa autorità arbitraria; e credo sia chiaro il perché la società umana non potrà mai arrivare ad uno stato di perfezione senza adottare massime generali e rigide della legge e dell' equità. Ma il Parlamento pensò giustamente che il re, dato il suo potere discrezionale, fosse un magistrato troppo eminente per essere attendibile, il quale avrebbe potuto facilmente portare alla distruzione della libertà. E nel caso in cui si riscontrassero alcuni inconvenienti quando si aderisce strettamente alla legge, i vantaggi li controbilancerebbero, tanto da rendere l'inglese per sempre grato alla memoria dei suoi antenati che stabilirono questo nobile principio.

In seguito questa dottrina Whig ha trovato la sua espressione classica in molti passaggi familiari di Edmund Burke. Ma se vogliamo una dichiarazione più precisa del suo contenuto, dobbiamo rivolgerci ad alcuni dei suoi contemporanei meno conosciuti. Una dichiarazione caratteristica è stata attribuita a Sir Philip Francis ed è la seguente:

Il governo d'Inghilterra è un governo della legge. Tradiamo noi stessi se siamo in contrasto con lo spirito delle nostre leggi; inoltre sovvertiamo l'intero sistema della giurisprudenza inglese ogni volta che affidiamo ad un potere discrezionale la vita, la libertà, o la fortuna degli individui, sulla presunzione che non sarà abusato.

Che io sappia, la massima considerazione della logica dietro a tutta questa dottrina la ritroviamo nel capitolo "Of the Administration of Justice" del libro Principles of Moral and Political Philosophy di Archdeacon Paley:

La prima massima di uno stato libero è che le leggi siano fatte da un gruppo di uomini e gestite da un altro; in altre parole, che il carattere legislativo e quello giudiziale siano tenuti separati. Quando questi uffici sono uniti nella stessa persona o commissione, vengono approvate leggi particolari per casi particolari, spesso scaturite da motivi parziali e indirizzate a fini privati; mentre se sono tenuti separati, le leggi generali saranno approvate da un gruppo di uomini senza che possano prevedere su chi andranno ad incidere; e, quando approvate, verranno applicate da altri [...].

Il Parlamento non sa su quali individui ricadranno i suoi atti; non ha tesi o parti che lo costituiscano; nessun progetto privato da servire; di conseguenza le sue risoluzioni saranno suggerite dalla considerazione degli effetti e dalle tendenze universali, le quali producono sempre regolamenti imparziali e comunemente vantaggiosi.

Qui, a mio avviso, abbiamo quasi tutti gli elementi che insieme producono la dottrina complessa che il XIX secolo ha definito Principio di Legalità. Il punto principale è che, dati i suoi poteri coercitivi, la discrezionalità delle autorità dovrebbe essere strettamente vincolata da leggi stabilite in anticipo in modo che l'individuo possa prevedere con certezza come verranno utilizzati questi poteri in casi particolari; e che le leggi stesse siano veramente generali e non creino privilegi per una classe o una persona, ovvero, che vengano approvate in considerazione dei loro effetti di lungo periodo e quindi nell'ignoranza più assoluta su quali saranno i singoli individui che ne beneficeranno o ne verranno danneggiati. Che la legge debba essere uno strumento utilizzato dagli individui per i loro fini e non uno strumento utilizzato dai legislatori sulla gente, rappresenta il senso ultimo del Principio di Legalità.

Dal momento che questo Principio di Legalità è una sorta di governo, un governo di ciò che dovrebbe essere la legge, non potrà mai essere un governo di diritto positivo. Il legislatore non potrà mai limitare efficacemente i suoi poteri. Il governo è piuttosto un principio meta-legale che può operare solo attraverso la sua azione sull'opinione pubblica. Finché godrà di fiducia, conserverà la sua legislazione entro i limiti del Principio di Legalità. Una volta che non sarà più accettato o comprensibile all'opinione pubblica, ben presto la legge stessa sarà in conflitto con il Principio di Legalità.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


2 commenti:

  1. ordinamenti socialisti in concorrenza
    https://www.inverse.com/article/12898-the-futurist-start-up-sui-generis-is-uber-but-for-techno-socialist-city-states?utm_source=facebook.com&utm_medium=on_site&utm_campaign=desktop
    devo dire che i tempi sono interessanti, gli esperimenti in giro, dal giappone (vabbeh, un poco stantio) a liberland, sono tanti.

    RispondiElimina