Bibliografia

martedì 5 gennaio 2016

Un mito fatto a pezzi: Mises, Hayek e la rivoluzione industriale





di Thomas E. Woods Jr.


Secondo il pensiero popolare, la Rivoluzione Industriale ha portato un impoverimento diffuso tra la gente che fino a quel momento godeva di uno stile di vita all'insegna della gioia e dell'abbondanza. Tuttavia negli ultimi decenni sono emerse interpretazioni alternative che hanno costretto anche i libri di testo occidentali, sempre gli ultimi ad adattarsi alle nuove tendenze del pensiero scientifico, ad ammettere l'esistenza di ciò che viene definito come il "dibattito sullo standard di vita" relativo alla Rivoluzione Industriale. Già negli anni '40 e '50 grandi economisti Austriaci come F. A. Hayek e Ludwig von Mises, sono stati tra quelli che hanno avanzato un punto di vista alternativo.

Secondo Hayek una delle ragioni per cui così tante falsità ed errori hanno circondato la nostra comprensione della Rivoluzione Industriale, era la seguente: gli storici che avevano studiato la questione erano stati accecati dai loro stessi preconcetti ideologici. Molti di loro erano marxisti e credevano che l'industrializzazione aveva semplicemente reso più poveri gli operai. Come dice Hayek: "[Dato che] i preconcetti teorici che li hanno guidati postulavano che la nascita del capitalismo dovesse essere dannosa per la classe operaia, non c'è da sorprendersi se abbiano trovato quello che cercavano." In breve, non si sono approcciati alla ricerca con uno spirito di razionalità imparziale che si addice ad uno studioso, ma piuttosto con l'ascia ideologica che caratterizza il propagandista.[1]

L'economista e filosofo Leopold Kohr non era affatto il solo tra quegli intellettuali che nutrivano sospetti nei confronti del capitalismo; infatti nel suo libro, The Breakdown of Nations (1957), disse che l'enorme aumento dei movimenti di riforma e della critica sociale a seguito della Rivoluzione Industriale, stavano ad indicare condizioni peggiori. "[Un] aumento dei movimenti di riforma", scrisse Kohr, "è un segno di deterioramento, non di miglioramento, delle condizioni. Se i riformatori sociali sono stati rari nelle epoche precedenti, è solo perché queste erano migliori della nostra."[2]

Ma secondo Hayek le cose non stanno necessariamente così; infatti è esattamente l'opposto. Il fatto stesso che fossero emerse denunce nel tardo settecento e primo ottocento sulle terribili condizioni in cui molte persone vivevano e lavoravano, è, ironia della sorte, un punto a favore della Rivoluzione Industriale. Prima della Rivoluzione Industriale, tutti si aspettavano di vivere in condizioni di estrema povertà, e per di più si aspettavano un destino simile per i loro discendenti. La ricchezza sorprendente che produsse la Rivoluzione Industriale, fece in modo che le persone si occupassero di risolvere tutte le rimanenti sacche della povertà. Prima della Rivoluzione Industriale, quando tutti vivevano in estrema povertà, nessuno se ne accorgeva o esprimeva indignazione. Così, come fa notare Hayek, nel XVIII secolo vediamo "una crescente consapevolezza di quei fatti che prima passavano inosservati. La crescita stessa della ricchezza e del benessere migliorarono gli standard e le aspirazioni di vita. Quella che per secoli era sembrata una situazione naturale e inevitabile, o anche un lieve miglioramento rispetto al passato, venne considerata incongrua con le opportunità che offriva la nuova era. La sofferenza economica divenne meno giustificata, perché la ricchezza generale aumentava più velocemente che mai."[3]

In questo contesto potremmo citare la famosa osservazione del grande economista Joseph Schumpeter: la stupenda ricchezza che ha creato il capitalismo, ironia della sorte, è quella che ha permesso ai critici del capitalismo stesso di ricoprire il ruolo d'intellettuali, godendo dei comfort creati dal sistema che tanto criticavano. Schumpeter temeva, infatti, che questo sviluppo avrebbe potuto rivelarsi fatale per il capitalismo. L'ascesa di una classe distinta d'intellettuali del tutto ignoranti in economia, e che avrebbe dato la colpa al capitalismo per ogni male sociale, nel corso del tempo avrebbe logorato l'attaccamento della popolazione al sistema e avrebbe portato alla sostituzione del capitalismo con un'economia dichiaratamente socialista. In breve, Schumpeter temeva che il successo stesso del capitalismo avrebbe seminato i semi della sua distruzione finale.



Il Capitalismo Crea il Proletariato

Hayek continua dicendo che la "connessione tra il capitalismo e l'ascesa del proletariato, è quasi l'opposto di quello che suggeriscono queste teorie dell'espropriazione delle masse."[4] Secondo Hayek il capitalismo ha creato il proletariato, nel senso che le nuove opportunità di lavoro hanno fatto sì che molte più persone avrebbero potuto sopravvivere. "Il proletariato, la cui 'paternità' è attribuibile al capitalismo, non era dunque una fetta della società che sarebbe esistita senza di esso e che sarebbe sprofondata ad un livello più basso; rappresentava persone a cui era stato permesso di crescere grazie alle nuove opportunità di lavoro rese disponibili dal capitalismo."[5] Prima della Rivoluzione Industriale una persona non in grado di guadagnarsi da vivere nell'agricoltura, o che non era stata dotata dai genitori degli strumenti necessari per avviare un'attività indipendente, si trovava in brutte acque.

La Rivoluzione Industriale ha permesso a queste persone, che non avevano altro da offrire al mercato, di vendere il proprio lavoro ai capitalisti in cambio di un salario. Ecco perché sono stati in grado di sopravvivere. La Rivoluzione Industriale ha quindi consentito un'esplosione demografica impossibile da sostenere alle condizioni stagnanti dell'era pre-industriale. Hayek e Mises contestano l'idea che tale era fosse prospera e soddisfacente. Il pensiero popolare è ben riassunto da Mises:

I contadini erano felici. Anche i lavoratori industriali nel sistema domestico. Essi lavoravano nelle proprie case e godevano di una certa indipendenza economica poiché possedevano un giardino e strumenti propri. Ma poi la "rivoluzione industriale s'abbattè come una guerra o una peste" su questa gente. Il sistema delle fabbriche ridusse il libero lavoratore a virtuale schiavitù. Ridusse il suo tenore di vita al livello della mera sussistenza; spinse donne e bambini negli opifici, distrusse la vita familiare e indebolì i fondamenti stessi della società, della moralità e della salute pubblica.[6]

Mises concorda con Hayek quando afferma che le condizioni prima della Rivoluzione Industriale erano in realtà catastroficamente povere. L'economia alla vigilia della Rivoluzione era irrimediabilmente statica, e non forniva sbocco alcuno a tutte quelle persone che non riuscivano a vivere di sola agricoltura o manifuttara domestica.

Come sostiene Mises, il fatto che la gente accettò lavori nelle fabbriche indica che questi posti di lavoro rappresentavano la migliore opportunità che avevano.[7] "I proprietari delle fabbriche," scrive Mises, "non avevano potere di costringere chicchessia a lavorare in fabbrica. Potevano assumere semplicemente gente disposta a lavorare per il salario offerto. Per quanto bassi che potessero essere questi saggi salariali, erano nondimeno molto più di quanto questi poveri potevano guadagnare in qualsiasi altro campo loro aperto. È una distorsione dei fatti dire che le fabbriche tolsero le donne di casa dalle cure dei bambini e della casa, e i bambini dai loro giochi. Queste donne non avevano niente da cuocere con cui nutrire i loro bambini. E i bambini erano morenti di fame. Il loro unico rifugio era la fabbrica, che li salvò nello stretto senso del termine dalla morte per inedia."[8]

Mises ammette che "nei primi decenni della rivoluzione industriale il tenore di vita dei lavoratori nelle fabbriche era repulsivamente cattivo rispetto alle condizioni contemporanee delle classi superiori e alle condizioni presenti delle masse industriali. Le ore di lavoro erano lunghe, le condizioni sanitarie nelle fabbriche deplorevoli. La capacità individuale di lavoro era esaurita rapidamente. [...] Ma rimane il fatto che per l'eccesso di popolazione che il movimento delle enclosures aveva ridotto a terribile miseria e per cui non v'era letteralmente più posto nello schema del sistema di produzione prevalente, il lavoro nelle fabbriche fu la salvezza. Questa gente s'accalcava negli stabilimenti per nessun'altra ragione che la spinta a migliorare il proprio tenore di vita."[9]



Produzione di Massa

Un altro punto centrale è che il capitalismo industriale è dedito alla produzione di massa. "I commerci manifatturieri del tempo passato," spiega Mises, "erano ordinati esclusivamente per i bisogni dei benestanti. La loro espansione era limitata dall'ammontare dei lussi che gli strati più ricchi della popolazione potevano permettersi."[10] La produzione nelle fabbriche, invece, era orientata alla produzione di massa: merci a basso costo per l'uomo comune. Questo ha rappresentato un passo in avanti straordinario per il modo di vivere di tutti. Ed è questo principio su cui si basa tutto il sistema capitalistico:

Il fatto rilevante della rivoluzione industriale è che essa ha aperto un'epoca di produzione di massa per i bisogni delle masse. I salariati non lavorano semplicemente per il benessere degli altri. Essi stessi sono i principali consumatori dei prodotti delle fabbriche. La grande industria dipende dal consumo di massa. Attualmente non vi è in America un singolo ramo di grande industria che non provveda ai bisogni delle masse. Il principio stesso dell'industria capitalista è di servire l'uomo comune. Nella sua qualità di consumatore, l'uomo comune è il sovrano i cui acquisti o la cui astensione dagli acquisti decide il destino delle attività imprenditoriali. Nell'economia di mercato non vi sono altri mezzi per acquisire e preservare la ricchezza all'infuori che fornire le masse nel modo migliore e più conveniente dei beni che esse richiedono.[11]

La nostra comprensione degli eventi storici influenza necessariamente le nostre opinioni politiche. Il nostro punto di vista sulla Rivoluzione Industriale colora indirettamente la nostra percezione delle questioni economiche attuali. Il capitalismo, se viene lasciato indisturbato, tende ad aumentare il benessere di tutti, o è necessario l'intervento dello stato per prevenire l'impoverimento diffuso? Questo è ciò che c'è in gioco nell'attuale dibattito sulla Rivoluzione Industriale, e in questa impresa F. A. Hayek e Ludwig von Mises hanno notevolmente anticipato i tempi.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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Note

[1] F.A. Hayek, “History and Politics,” in Capitalism and the Historians, ed. F.A. Hayek (Chicago: University of Chicago Press, 1954), p. 22.

[2] Leopold Kohr, The Breakdown of Nations (New York: Rhinehart & Co., 1957), p. 155.

[3] Hayek, “History and Politics,” p. 18.

[4] Ibid., p. 15.

[5] Ibid., p. 16.

[6] Ludwig von Mises, Human Action: A Treatise on Economics, 3rd. rev. ed. (Chicago: Henry Regnery, 1966 [1949]), p. 618.

[7] Questo è un esempio del concetto di "preferenza dimostrata" di Murray Rothbard: le preferenze individuali, quando espresse in azioni volontarie, forniscono l'indicatore assolutamente affidabile attraverso il quale capiamo che l'individuo ha sostituito una situazione più soddisfacente ad una meno soddisfacente.

[8] Ludwig von Mises, Human Action: A Treatise on Economics, 3rd. rev. ed. (Chicago: Henry Regnery, 1966 [1949]), p. 619–20.

[9] Ibid., p. 620.

[10] Ibid.

[11] Ibid., p. 621.

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10 commenti:

  1. Non conosco Thomas E. Woods Jr. ma non sono molto d'accordo con lui.
    Mi sembra un modo per lamentarsi del passato senza cogliere l'attimo per costruire prospettive per il futuro.

    Piuttosto, a proposito di Leopold Kohr , consiglierei la lettura di questo articolo di Guglielmo Piombini per meglio capire il pensiero e soprattutto la proposta di Kohr per risolvere (quai) tutti i problemi attuali : stati piccoli come quelli del Rinascimento.
    Korh guarda al passato non per "dissertare", ma per trovare una soluzione per il futuro.

    http://www.rischiocalcolato.it/blogosfera/la-superiorita-delle-piccole-nazioni-nel-pensiero-di-leopold-kohr-127977.html

    E bravo Piombini per il suo lavoro di sintesi

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  2. "l'eccesso di popolazione che il movimento delle enclosures aveva ridotto a terribile miseria e per cui non v'era letteralmente più posto nello schema del sistema di produzione prevalente" qui vedo qualcosa da approfondire.. Mises, Hayek etc.. come si sono espressi sul movimento delle ecnosures..?

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    1. correggo: ecnosures sarebbe enclosures

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    2. Ciao Anonimo.

      Purtroppo non ho trovato molto riguardo questo tema nella bibliografia di entrambi gli autori. Possiamo dire però che tale movimento ebbe inizialmente luogo nel Parlamento inglese tra il 1750 e il 1860, dove vennero approvate una serie di leggi che andavano a ridistribuire una serie di diritti sulle terre che appartenevano sostanzialmente a contadini e allevatori. Questi ultimi, infatti, godevano della possibilità d'usufruire di "campi aperti" che coltivavano e su cui facevano pascolare il bestiame. Poi vennero promulgate suddette leggi, le quali sottraevano queste terre dai contadini e le cosnegnavano nelle mani di coloro che potevano permettersi di pagare per entrervi in possesso. I contadini e gli allevatori scacciati venivano liquidati con terre di qualità inferiore. Il motivo era quello di rendere più produttive quelle terre, ma in poco tempo la maggior parte di queste finì nelle mani dell'aristocrazia inglese.

      Un bel saggio che descrive il punto di vista libertario riguardo questo movimento, è quello di Joseph Stromberg. In pratica, attraverso petizioni al Parlamento inglese, i grandi latifondisti furono in grado di scacciare i vecchi proprietari ed acquisire per sé vasti appezzamenti di terreni. I contadini e gli allevatori si ritrovarono con poco o niente in mano, destinati o a lavorare per i nuovi latifondisti, o ad emigrare in America, oppure a lavorare nelle fabbriche. Molti di loro scelsero quest'ultima opzione perché più remunerativa.

      Questa non era una scelta affatto perché in questo modo non solo si andavano ad ingrossare le fila di coloro che volevano lavorare in fabbrica, abbassandone di conseguenza i salari, ma si chiamava in causa un'altra volta lo stato affinché adottasse misure sociali per impedire alle persone di morire di fame. Questa massa di persone dipendenti dall'elemosina statale, fu presa come scusa dai movimenti socialisti per attaccare la Rivoluzione Industriale. Erano a conoscenza dell'impatto del movimento degli enclosures, ciononostante si scagliarono contro l'industrializzazione.

      Certo, c'era anche chi ne approfittava, ma in ultima analisi sono sempre i mezzi politici che creano disuguaglianze e ingiustizie. Quei poveri e disperati erano lì perché l'aristocrazia e i grandi latifondisti, in prima istanza, avevano usato i mezzi politici per scavalcare i diritti individuali. Anche se l'avanzamento tecnologico rese obsoleti alcuni lavori, è piuttosto ingenuo ascrivere tutte le colpe per la miseria delle persone all'industrializzazione. Per non dire scorretto, visto che gli abusi durante quell'epoca vennero enormemente facilitati dal solito interventismo statale e dall'uso dei mezzi poltici.

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  3. Un articolo piuttosto superficiale (pur con tutto il rispetto e apprezzamento che ho per altri scritti di Thomas Woods). Certe volte uno toppa per superficialità. Troppo lungo discutere punto per punto (e chiedo venia).

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  4. Chiedo venia anch'io.... in questi giorni sto tentando di leggere "Storia dell'Economia" di John Kennet Galbraith
    Comunque mi sono segnato gli articoli da leggere, in particolare di G.North.

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  5. Io credo che dividersi tra estimatori e critici di grandi cambiamenti storici sia l'approccio meno indicato per capire. Resta sempre una questione di punti di vista. Di valutazioni soggettive, di parametri scelti per il giudizio.
    Certamente gli anni tra il 1780 ed il 1820, più o meno, hanno rappresentato il momento di un profondo cambiamento nelle modalità produttive fino ad allora conosciute. Certamente nessuno allora si rese conto di vivere nella rivoluzione industriale. Sicuramente più di qualcuno vide la propria vita cambiare, chi in meglio e chi in peggio. Comunque, cambio'.
    Tutti i fenomeni umani vivono un periodo iniziale di rodaggio, fatto di cose positive e di cose negative. Una cosa è trovarsi coinvolti nel cambiamento e subirlo, altro è riuscire a cavalcarlo. Quindi, catastrofe per alcuni ed opportunità per altri. Dipende dai punti di vista e dalle capacità di adattamento. Comunque sia, il cambiamento avvenne. Ed un certo successo bisogna concederglielo se quel cambiamento ha preso piede invece di fermarsi e declinare velocemente.
    Un cambiamento va compreso nel tempo. Noi viviamo grazie ai miglioramenti immensi delle condizioni generali di vita prodotte da quel cambiamento. Se giudichiamo da certi risultati di lungo periodo possiamo dire che noi siamo quelli che siamo perché quel modo nuovo ha funzionato. Possiamo addirittura chiederci come indirizzarlo in senso lato, scegliendone gli aspetti migliori e contrastandone i peggiori, per esempio inquinando meno e producendo ancora meglio.
    Ma mi si potrebbe dire che, anche in miseria, avremmo potuto godere, brevemente, di altro: di una vita naturale bucolica o georgica come ancora capita a qualche popolazione africana o di altre amene località. Punti di vista. Dipende da ciò che intendiamo per esistenza e modalità della stessa. Diciamo che fino ad ora la maggior parte delle migrazioni bibliche ha sempre deciso di andare dove la speranza di vita sembra più lunga e più facile. Ma nulla vieta di fare il percorso inverso.
    Non vado oltre, ma curva nord e curva sud non mi sembra il modo migliore di approcciare questo argomento. Sennò si finisce nel pensiero ideologico che è sempre stupido perché limitato ad un solo punto di vista statico.

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  6. Invece, aggiungo dell'altro.
    Che gli anni che viviamo oggi siano anni di cambiamento mi pare evidente. La direzione? Ciascuno immagina quella suggeritagli dalla teoria della conoscenza di cui dispone, consapevole o meno che ne sia. Perciò, c'è chi parla di crisi del sistema fiatmoney, chi parla di crisi finale del capitalismo finanziario, chi di crisi dello statonazione in senso sovranazionale e di meticciato culturale e sociale, chi di secessionismo identitario, chi evoca la rivincita del marxismo e chi la fine dell'interventismo, chi auspica più libertà individuale e chi promuove più limitazioni della stessa in nome di sicurezza sociale ed ordine pubblico, chi sceglie il new age e chi le comodità della deresponsabilizzazione, chi si arma e chi si espone, chi subisce, chi si adatta e chi approfitta, ...
    Tra 50, 100, 200 anni, se ancora qualcuno si dedicherà a studiare il passato, chissà come interpreterà questi eventi. Emetterà i suoi giudizi di valore. Penserà a noi come a chi visse una fine o a chi visse un inizio?
    L'unica mia certezza è che questi non sono anni qualunque. La mia epistemologia mi suggerisce una interpretazione ed un esito. Finora, non mi ha deluso, perché le sue capacità previsionali sono elastiche. Mi indica il trend. Mi permette di volare abbastanza in alto per scorgere la big picture. È un buon modo di comporre il puzzle. All'atto pratico, cerco e cercherò di difendere i miei valori soggettivi, la bussola che mi indica di andare verso più libertà e non verso meno. Ma so bene che avrò bisogno di fortuna, di salute, di intelligenza, di speranza, di amore.

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  7. Complimenti anche a DNA, economista, storico, filosofo
    e anche poeta.

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