___________________________________________________________________________________
di Giandomenico Barcellona
«L’unico episodio in cui possiamo trovare prova d’un collegamento tra deflazione e depressione è la Grande Depressione (1929–1934). Non troviamo un tale collegamento in nessun altro periodo. […] Ciò che colpisce è che quasi il 90% degli episodi con deflazione non ha visto una depressione. In un contesto storico piú ampio, al di là della Grande Depressione, scompare l’idea che deflazione e depressione siano collegate.»
-- Andrew Atkeson & Patrick Kehoe (Federal Reserve Bank of Minneapolis), Deflation and Depression: Is There an Empirical Link?, gennaio 2004
1. QUALCHE CHIARIMENTO INTRODUTTIVO
Questa citazione precede un articolo intitolato “La deflazione è davvero una minaccia?” di Francesco Simoncelli apparso su The Fielder il 16 aprile del 2014, in difesa della deflazione. Nell’articolo l’autore, pur affermando che “non è certamente auspicabile un simile evento, e si dovrebbe condannare in primo luogo l’espansione monetaria artificiale che ha preceduto tale esito inevitabile”, asserzione indiscutibile che costituisce uno dei principali assunti della scuola austriaca, prosegue poi sottolineando il positivo effetto della deflazione, che consiste nella liquidazione degli investimenti improduttivi e nel riallineamento del livello dei prezzi all’effettiva domanda di mercato. Tale visione si ritrova in altri lavori di economisti austriaci, come ad esempio in Patrick Barron “Temete il boom, non il bust”, in vari interventi di Gary North, ma costituisce in generale anche un mantra ripetuto ossessivamente dal liberismo vicino alla visione monetarista più ortodossa. Questo approccio ha tuttavia il difetto di presentare il ragionamento più dal punto di vista dei macroaggregati che da quello dell’analisi delle vicende dei singoli soggetti, delle loro sorti, delle loro interazioni e delle conseguenze delle loro azioni, discostandosi dall’individualismo metodologico caratterizzante la scuola austriaca.
La questione va invece a mio avviso meglio precisata in quanto si corre il rischio di confondere la stabilità della moneta con lo sgonfiamento delle bolle sorte in virtù della precedente espansione artificiale; come se quest’ultimo riconducesse alla stabilità monetaria, cosa che evidentemente non è. Invece si va a distruggere produzione reale interferendo nel processo di riallineamento e quando infine si ritorna al punto di partenza di un relativo equilibrio del sistema finanziario, ebbene tale fatto è visto come l’occasione per ripartire con un nuovo ciclo espansivo. Così, confondendo i piani, non solo si perde un’occasione fondamentale per evidenziare la realizzazione degli ammonimenti austriaci, ma si viene ad essere addirittura male interpretati, finendo per sembrare cinici osservatori dei “giusti e sani” effetti di una spietata competizione.
Ora, se chi conosce i dettami misesiani può comprendere il senso del discorso riportandolo ad una salutare sveglia dopo una ubriacatura collettiva, l’assenza di specificazioni e il peana alla deflazione divengono un esercizio di massimalismo che porta ad un comprensibile ostracismo collettivo ancora maggiore verso l’economia austriaca, che viene ad essere ingiustamente percepita come l’etica economica della selezione naturale.
La deflazione non è una minaccia, come si legge nel titolo dell’articolo citato: è proprio l’avveramento della minaccia insita nel boom. Se ci sta un momento di sofferenza sociale che costituisce la riprova della validità dell’approccio austriaco, ebbene quello è il momento del bust: lì c’è la rivincita della formica sulla cicala, dell’imprenditore einaudinano su quello keynesiano, della scuola austriaca sulle altre scuole economiche mainstream. Quello è pertanto il momento di dire “ve l’avevamo detto”, non di indicare gli effetti taumaturgici della deflazione in corso. Ciò facendo, invece, la posizione austriaca si indebolisce: prima il boom viene esorcizzato, poi il bust lodato, e nessuno ovviamente può credere a chi afferma che si sta meglio quando si sta peggio.
Innanzi tutto vorrei sottolineare, con riferimento alla citazione posta come introduzione, che non è per nulla un caso che il collegamento tra deflazione e depressione si manifesti compiutamente nella grande depressione 1929-1934. Va precisato che la deflazione definita come diminuzione generalizzata dei prezzi (aggiungo per precisare: in regime di libero mercato), è cosa ben diversa dal bust misesiano. Mentre in regime di gold standard, od addirittura in periodo di gold coin standard e di assenza negli USA di banca centrale (mi riferisco alla grande crescita economica, uno dei periodi di maggiore crescita nella storia economica, avvenuto in regime di deflazione dei prezzi dal 1873 al 1896, secondo le statistiche contenute nel libro del 1963 di Friedman e Schwartz “A monetary History of the United States”), la diminuzione dei prezzi, definita come peraltro avviene generalmente “deflazione”, è stato fenomeno avvenuto come conseguenza del funzionamento del libero mercato, quello che è accaduto invece durante la crisi del 1929, come ha spiegato Rothbard nel suo libro “America’s great depression”, è stato un classico bust misesiano; una vera depressione, e non una diminuzione dei prezzi, che ha fatto seguito necessario alle politiche fortemente inflazioniste adottate dalla FED sin dall’epoca della sua creazione, nel 1913, ed in special modo a partire dal 1920.
2. LA DEFINIZIONE DI DEFLAZIONE E LA DINAMICA DELLA CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA IN REGIME DI FIAT MONEY
Quel che voglio precisare è dunque in prima istanza la definizione: non va fatta alcuna identificazione tra deflazione e diminuzione generalizzata dei prezzi, ciò che crea confusione al pari dell’identificazione tra inflazione ed aumento generalizzato dei prezzi. Perché si tratta di fatti diversi, che contengono correlazioni e causalità, ma non hanno corrispondenza biunivoca: una diminuzione generalizzata dei prezzi, fenomeno altamente auspicabile dal consumatore ed indice di aumentata ricchezza collettiva, può avvenire, ed avviene costantemente nell’economia, per molte ragioni attinenti al funzionamento del libero mercato: tra tutte l’aumento di produttività, la concorrenza e l’innovazione tecnologica. In tutti questi casi i soggetti economici diventano più ricchi, perché possono acquistare una maggiore quantità di beni possedendo la stessa quantità di moneta. Mentre non è affatto vero l’inverso, cioè che il possesso di una minore quantità di moneta, la deflazione monetaria, rende più ricchi coloro che subiscono questo fenomeno.
La deflazione va identificata pertanto come una diminuzione della quantità di moneta disponibile per le transazioni economiche.
Chi segue le teorie della scuola austriaca sa che nella sua epistemologia l’inflazione non è definita come un aumento generalizzato dei prezzi, bensì come aumento della quantità di moneta. E’ poi vero che l’aumento della quantità di moneta porta, ceteris paribus, ad un aumento dei prezzi. Ma, appunto, ceteris paribus è impossibile in un sistema complesso come il mercato. E pertanto l’aumento avviene a livelli macro e nel tempo, laddove nel tempo accadono tante cose. L’innalzamento dei prezzi è fenomeno conseguenziale che non si presenta in modo uniforme nello spazio e nel tempo, né sui beni né in capo agli attori economici. Questa difformità accade in virtù di una serie di fattori concomitanti ma, dal punto di vista monetario, in quanto la diffusione della moneta fiat avviene attraverso fonti specifiche che avvantaggiano i primi prenditori: si tratta del c.d. Effetto Cantillon.
L’accumulo di liquidità nei prenditori privilegiati, i più vicini alla fonte monetaria, cioè il settore finanziario, quello pubblico ma anche quello privato imprenditoriale vicino al pubblico (ad esempio il settore degli appalti pubblici o le imprese che operano in regime di privilegio normativo in virtù di normative che comportano, anche indirettamente -- ad esempio attraverso il possesso di elevati requisiti standard -- barriere all’accesso), provoca un aumento dei prezzi che non riguarda immediatamente i beni di consumo, pur a lungo termine toccati anch’essi. Sia perché nessuno può consumare quantità smisurate di beni di consumo, sia perché vengono presi una serie di accorgimenti affinché i costi dei beni di consumo principali restino bassi il più possibile: un costante e fortissimo impulso a migliorare la produttività del lavoro e delle imprese, l’apertura a mercati maggiormente concorrenziali, una attenta rivisitazione della composizione degli indici inflattivi, fino al caso disperato del controllo dei prezzi.
Pertanto la massa monetaria accumulata si riversa prima di tutto su determinate classi di asset, i cui prezzi aumentano a dismisura e si gonfiano sino a finire in bolla: azioni, obbligazioni, opere d’arte, mercato del lusso, e, soprattutto e sfortunatamente, il settore immobiliare, che diviene così proprietà di grandi soggetti economici e meno accessibile per chi necessita dell’acquisto dell’abitazione. Insomma, la ricchezza da moneta fiat, creata ad libitum e dal nulla, non ha sempre a che vedere con la dinamica della domanda e dell’offerta di beni e servizi sul mercato, ma ha spesso a che fare col posizionamento dei soggetti nella catena distributiva del denaro, la c.d. cinghia di trasmissione.
Questo è uno dei modi in cui la ricchezza si concentra e si polarizza, aumentando e non diminuendo le diseguaglianze (per chi vede nelle diseguaglianze un necessario disvalore), ma soprattutto aumentandole in ragione di fattori esogeni alle libere scelte dei consumatori. Ecco, in breve, il motivo per cui continuare a creare nuova moneta non cambia la solita musica, anzi al contrario aggrava la situazione dei soggetti chiamati a rispondere del debito da emissione monetaria: la produzione reale. Che di rado consiste nei primi prenditori posizionati, i quali si posizionano altrettanto bene sia nel momento dell’apprensione del nuovo denaro quanto in quello della fuga dal pagamento del relativo debito da emissione.
En passant, l’altro fondamentale modo per ottenere e detenere posizioni non guadagnate nell’ambito di una libera concorrenza, è la manipolazione della regolamentazione normativa, fenomeno che si può denominare path dependance normativa, che ha a che fare con i casi di monopoli, oligopoli, concessioni, privilegi di qualsiasi genere, barriere all’ingresso di ogni tipo.
3. LA DEFLAZIONE IN REGIME DI FIAT MONEY
Allo stesso modo di quanto avviene per la definizione di inflazione, dunque, la deflazione dovrà quindi essere definita come una diminuzione della quantità di moneta, ancora più precisamente della quantità di moneta disponibile per le transazioni commerciali, e non come una diminuzione generalizzata dei prezzi. Difatti nell’articolo da cui ho preso le mosse, ad un certo punto la deflazione viene meglio precisata leggendosi testualmente “la deflazione monetaria, e la deflazione dei prezzi che ne segue”. In ipotesi di tal genere, l’eventuale diminuzione dei prezzi avviene non come benefico effetto dei meccanismi del libero mercato, ma come effetto conseguente alla diminuzione di moneta disponibile. Si verifica successivamente ad una stretta di politica monetaria ed al credit crunch che segue la parte espansiva del ciclo, dato che le banche hanno la necessità di ripulire i bilanci dai crediti in sofferenza concessi nel periodo di boom e sbornia monetaria.
Si tratta quindi di fenomeno del tutto artificiale, perché tutto in moneta fiat artificiale: sia l’aumento che la diminuzione di offerta monetaria. Precisamente, questa diminuzione è la conseguenza necessaria dell’espansione artificiale che l’ha preceduta.
Va solo precisato che la concessione del credito non è affatto fattispecie esclusiva del regime monetario fiat: il credito è stato il compagno di avventura dello sviluppo dell’economia e dell’umanità. La riserva reale, e la quantità di riserva, ne costituivano il limite, oltre il quale si giungeva al fallimento. Le banche centrali come detentori della riserva aurea fungevano, nella loro funzione ideale originaria (la realtà è sempre un’altra cosa) come una sorta di riassicuratori del sistema. Ma nell’attuale sistema delle banche centrali in moneta fiat, ogni limite pratico è rimosso: la politica monetaria fa da padrona assoluta ed il limite diviene esclusivamente politico, o comunque altamente discrezionale, altamente manipolabile, aggirabile, sino ai limiti dell’arbitrario. Ad esso concorrono certamente i fondamentali economici dell’area monetaria emittente, ma spesso essi emergono quando è troppo tardi. Invece sono di grande rilevanza soft power, hard power, capacità negoziale e statura politica, posizione geopolitica, media power.
Insomma, si sfiora l’arbitrio, tanto che le conseguenze sono le forti oscillazioni e manipolazioni dei prezzi create dall’economia finanziaria e dalle politiche delle banche centrali, divenute più importanti dell’economia reale, nel mentre si continua a ripetere che la loro mission è, addirittura, la stabilità dei prezzi. Se la stabilità dei prezzi debba essere poi effettivamente un valore da proteggere, è un altro argomento: ma è certo che la loro instabilità non dev’essere generata dalle manipolazioni nella creazione di moneta.
In una crisi deflattiva, cioè in una diminuzione di moneta in regime di fiat money, la diminuzione dei prezzi non avviene quindi in modo progressivo e spontaneo, non avviene per effetto di un benefico miglioramento delle condizioni di mercato, e non avviene senza traumi, perché la deflazione monetaria è ben più veloce dell’adeguamento sul mercato dei prezzi delle merci e del lavoro. Quest’ultimo, poi, soffre in modo particolare in virtù degli stringenti vincoli normativi, e ciò poi si riflette anche sui prezzi delle merci.
Ma quello su cui desidero appuntare l’attenzione, è che, analogamente a quanto avviene con l’Effetto Cantilllon per l’aumento della quantità di moneta, la diminuzione della quantità di moneta non si presenta in maniera uniforme nella società.
Perché la moneta, che continua ad essere moneta fiat, e perciò creata dal nulla e messa in circolo attraverso il sistema bancario e la spesa pubblica (indipendentemente dalle leggere diversità tecniche presenti nelle varie aree monetarie mondiali) non diventa indisponibile per tutti, ma solo, selettivamente, per quelle classi di soggetti economici che la pianificazione economica, monetaria, politica, colpisce per prime.
Come nell’Effetto Cantillon i primi prenditori, al vertice della piramide economica, beneficiano della vicinanza alla sorgente del denaro approvvigionandosi per primi ed in maggiore quantità; analogamente, in caso di repentina diminuzione di moneta, è la base della piramide economica, quella che riceve il denaro per ultima, a subire per prima gli effetti del prosciugamento della fonte.
Per cui prima di affermare che con la deflazione vengono colpite le inefficienze e la misallocation, si deve considerare la dinamica reale della restante distribuzione monetaria in momento deflattivo.
4. LE DINAMICHE E GLI EFFETTI DELLA DEFLAZIONE MONETARIA: SU CHI GRAVA UNA CRISI DEFLATTIVA E CHI NE BENEFICIA
Ovviamente la dinamica è in effetti molto complessa, direi caotica, e non così, per dire, geometrica come appena detto nell’esempio della piramide. Cionondimeno è possibile estrapolare qualche tendenza di massima, ed è senza meno possibile rilevare un fenomeno opposto ma analogo all’effetto Cantillon.
Siccome la cornucopia del denaro continua ovviamente a funzionare, seppur a regime ridotto, ci si ritrova ad osservare che i soggetti riparati dalla concorrenza o vicini all’emissione monetaria possono sopravvivere con più facilità alla deflazione di coloro che alla concorrenza sono esposti o sono lontani dall’emittente. Addirittura coloro che si trovano in posizione riparata dagli effetti deflattivi possono beneficiare del calo dei prezzi per acquisire a buon mercato i beni oggetto delle realizzazioni necessarie per finanziare i costi imposti, attraverso le forme tributarie più varie e fantasiose, per il ripiano delle passività finanziarie sistemiche.
La pulizia della deflazione avviene sovente a carico eccessivo dell’economia reale, produttiva di beni e servizi richiesti sul mercato, mentre non vengono toccate, o vengono comunque toccate di meno e solo in un secondo momento, se e quando si rivela imprescindibile, quelle sacche di inefficienza presenti tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato (impresse sussidiate, protette ed in monopolio od oligopolio legale). D’altra parte non si può chiamare a pagare i debiti chi non ha la disponibilità finanziaria e patrimoniale; si dovrebbe però almeno avere la linearità comportamentale di cessare di finanziare le diseconomie.
Per quanto riguarda gli attori economici, sospinti in un ambiente sempre più competitivo, solo i più forti passeranno il bust. Costituisce tangibile riprova dell’iniquità dello svolgersi delle deflazioni il fatto che nel momento in cui molte imprese private, in specie medio piccole, entità comunque produttive di beni e servizi, sono costrette a chiudere sotto il peso di concorrenza sempre più forte e imposte gravose ed oneri accessori, la burocrazia non si ridimensiona, anzi magari accresce le sue fila per moltiplicare i controlli. E mentre i dipendenti privati perdono il lavoro, i dipendenti pubblici non soffrono analoga situazione (il che spiega bene il motivo per cui, nonostante molti si lamentino anche nel settore del pubblico impiego, ad ogni concorso si presenta un numero di persone impressionante rispetto ai pochi posti disponibili); le pensioni privilegiate e non contributive continuano ad esistere, le imprese sussidiate pure, le banche too big to fail continuano ad essere salvate, gli incarichi politici non recedono, i grandi appalti internazionali continuano allegramente così come per le industrie belliche non mancano i grandi contratti; le associazioni politiche, religiose e sindacali (e non solo quelle) continuano a beneficiare di finanziamenti ed esenzioni d’imposta.
Al contempo i produttori reali, imprese e lavoro in tutte le sue forme (autonomo, dipendente, etc.) debbono battersi sino allo stremo per la sopravvivenza. Non chiamerei tutto ciò “pulizia ad opera del mercato delle allocazioni errate”. Questo è un ragionamento di filosofia teoretica, non quanto avviene nella realtà. In parte sarà certamente pure così, ma non mi sembra che sia quello che accade in prima istanza.
La diminuzione di moneta non avviene primariamente per il tramite della diminuzione della spesa pubblica, e non avviene certamente in quel modo se non dopo aver esplorato ogni possibilità di resistenza. Viene bensì attuata sovente con l’aumento dell’imposizione sulla produzione reale e sui patrimoni più facilmente aggredibili (primo tra tutti: l’immobiliare). La deflazione in un sistema monetario a carattere non “reale” ma “obbligatorio”, basato sulla relazione credito/debito, altro non è che il rientro dall’eccesso di crediti divenuti inesigibili in capo al sistema finanziario, attraverso la diminuzione delle passività del settore finanziario medesimo verso i detentori del risparmio. Per diminuire il debito, visto da diversa prospettiva, devi diminuire i crediti. Si potrà trattare di bail-in, bail-out, default, aumento dell’imposta sul reddito, patrimoniale: sono tutte forme nelle quali si concreta la mediazione del potere che funge da cassa di compensazione delle partite creditorie e debitorie. In tutti i suddetti casi muta la scelta dei soggetti sui quali si decide di incidere attraverso scelte politiche che si rivelano episodiche, frammentarie, occasionali, non trasparenti ed autoritarie.
Ma non mutano il fine ed il risultato: abbassare l’esposizione debitoria complessiva del sistema divenuta eccessivamente gravosa e densa di insolvenze in seguito alla precedente espansione creditizia. Il ripristino dell’equilibrio del sistema creditizio per il caso della deflazione (ovvero, in assenza di operazioni di ristabilimento delle riserve da parte della banca centrale o di monetizzazione del debito pubblico) avviene quindi prelevando moneta a chi si può prelevare facilmente. Meglio ancora sarebbe dire che avviene annullando, sempre a chi è più a portata di mano e meno dotato di strumenti difensivi, i crediti dei depositanti verso il sistema finanziario a compensazione delle perdite sui crediti che tale sistema ha subito per aver concesso finanziamenti divenuti inesigibili. Il che non significa quindi che si vada a reperire le risorse nei confronti di chi ne ha di più (né tantomeno di chi le ha ottenute in virtù della posizione privilegiata al momento della distribuzione). Difatti la pianificazione concessa dalla libertà di circolazione di merci, capitali, persone, imprese (ed è una fortuna che questa libertà ci sia) ha un costo sostenibile solo da una dimensione economica e finanziaria di un certo livello. V’è una sorta di selezione naturale anche in questo momento, che ha a che vedere con la capacità e la possibilità di gestione delle complesse regolamentazioni.
E’ pertanto l’eccesso di oneri (tributari, burocratici, transattivi) e di regolamentazione, che spero nessuno vorrà sostenerne la scarsità, a creare quel fenomeno di autodifesa da parte degli attori economici che diventa e viene visto come prevaricazione da parte del più forte; è errato invece addebitare il fenomeno tratteggiato, come si fa solitamente, all’assenza di regole, tanto da discutersi impropriamente di “liberismo/capitalismo selvaggio” o di “far west”. Perché la causa vera è all’opposto: la costrizione, l’asfissia, l’iper-regolamentazione, insomma l’assenza di libertà costringono i soggetti alla difesa dall’aggressività del dirigismo. E tuttavia solo chi è in possesso di maggiori risorse riesce effettivamente a tutelarsi.
Qui di libertà se ne vede ben poca: i soggetti economici sono costretti ad una competizione sempre più serrata da parte della pianificazione e dal settore parassitario; e l’unico mercato selvaggio è quello che riguarda il raggiungimento, personale od aziendale, di posizioni privilegiate e protette. E’ evidente che non si può dare la colpa a chi fugge da inferni fiscali, quanto si deve dare a chi li crea. Salvo, però, se da parte del fuggitivo non vi sia una sorta di compartecipazione nella creazione dell’inferno per chi vi rimane prigioniero.
Tornando all’esame della crisi deflattiva, le sacche di inefficienza e di potere resistono il più possibile, caricando sempre in misura maggiore il peso sull’economia produttiva. Solo quando non ci sta più nulla da prelevare, allora il settore parassitario tutelato dovrà necessariamente adeguarsi alla realtà: dopo che il sangue è scorso nelle strade, per citare il famoso aforisma di Nathan Rothschild, che nel frattempo avrà compiuto il suo shopping. Ma prima di allora sarà ragionevolmente stata fatta a spese dei produttori abbastanza pulizia nei bilanci da poter ricominciare.
Si arriva così ad un altro nodo della questione: si osserva che i settori più riparati dalla deflazione monetaria paradossalmente si arricchiscono in misura ancora maggiore che i primi prenditori durante la fase di boom, perché mentre durante questo tutti o quasi, seppur chi in misura maggiore chi minore, beneficiano dei flussi monetari, la deflazione monetaria è molto più selettiva nella distribuzione di quella minore quantità di moneta disponibile.
Certamente avviene che anche qualche importante player ci vada di mezzo. Ma sono casi minoritari, spesso sensazionali, e di solito i vertici sono protetti da precedenti distribuzioni, paracadute finanziari, e sono velocemente cooptati altrove.
Persino nel principale settore esposto ad una rapida dissoluzione delle bolle, il mercato azionario e finanziario in generale, spesso gli insider che muovono capitali enormi, gli stessi soggetti che hanno generato la rapida ascesa dei corsi, magari con consigli di strong buy, escono in tempo trasferendo le prossime perdite ai loro clienti privati o finanche istituzionali. Alcuni ritengono che nei mercati non solo si approfitti delle possibilità di arbitraggio, ma le oscillazioni siano addirittura create ad arte. D’altra parte si usano programmi di high frequency trading, strumenti sofisticati di ricopertura, credit default swap, derivati. Non invano. Chi dovrà essere uscito al momento opportuno lo sarà. Chi è dentro ne soffrirà. Non sarebbe la prima volta che qualcuno specula sull’andamento ondivago dei corsi azionari. Successe d’altronde anche nel 1929.
Il mercato azionario, si badi bene, è un luogo imprescindibile dell’economia e del moderno capitalismo; ma quanto evidenziato, che non si può negare che accade, non è un modo diverso dalla tassazione per trasferire ricchezza e mantenere in vita un settore improduttivo.
Sia nell’economia reale che finanziaria, pertanto, la dimensione assurge ad un ruolo importantissimo nel momento della crisi deflattiva, tanto che viene da ritenere che i cicli di boom e bust siano funzionali all’espansione di alcuni a danno di altri.
Chi ha accumulato beni reali e ricchezza finanziaria, i grossi attori economici che hanno accesso a più mercati, effettuano delocalizzazioni e pianificazione fiscale, continuano ad accumulare beni reali anche a più buon mercato, dato che molti sono costretti a monetizzare le loro proprietà per far fronte al pagamento dei debiti, di più difficile assolvimento poiché che la moneta non è più agevolmente disponibile.
Quegli stessi soggetti continuano a ricevere il credito bancario con maggiore facilità, sia per possibilità di dare maggiori garanzie, in quanto la centralizzazione del credito va di pari passo con la concentrazione dei soggetti economici, o solo per necessità sistemica dato che dal loro mantenimento in vita dipende la buona sorte delle erogazioni finanziarie già ricevute.
Chi può, beneficia dell’eccesso di offerta che fa calare i prezzi. Così è in questi periodi che si sviluppano ulteriori concentrazioni e si riducono classe media come anche la piccola e media impresa. Ci sta chi pensa che a livello macro questo sia un bene, ma il progresso esige i suoi capri espiatori.
In via più istantaneamente percepibile, e meno sistematica e generale, l’appropriazione da parte del settore privilegiato e da parte di quello parassitario, che avviene nel boom attraverso l’inflazione, nel bust avviene con l’aumento impositivo. In maniera forse più antipatica perché lascia minor scampo di quanto faccia l’inflazione, dalla quale almeno il risparmiatore può proteggersi con l’acquisto di beni reali, materie prime, oro. E’ difficile in effetti scegliere quale delle due piaghe sia preferibile, anche qui dipendendo dal posizionamento personale. La deflazione fa probabilmente più paura perché dà il senso del nowhere to run, perché avviene in clima di crisi e persecuzione fiscale, ma soprattutto perché genera recessione, e poi fallimenti e disoccupazione. Però va evidenziato che inflazione e deflazione sono due facce della stessa medaglia, e la seconda segue la prima come la notte segue il giorno, seppure la durata del ciclo è incerta dipendendo da scelte di politica monetaria, fattori economici, tecnologici, politici ed accadimenti geopolitici.
La moneta fiat, centralizzata ed a corso forzoso, è corrotta in qualsiasi momento, nel boom come nel bust: se affami la bestia allora la bestia ti divora; se levi al drogato il denaro per acquistare la droga, egli verrà a rubarti dentro casa. Non ci sta via di scampo, le scialuppe non sono sufficienti per tutti i naufraghi, ma ci sta pur sempre chi ha le scialuppe private prenotate. Od è già sbarcato.
E’ vero che lo stato teme la deflazione e la vive come la fine della festa, ma anche i sudditi dovrebbero temerla, a meno che non abbiano anche loro una scialuppa di salvataggio, perché è durante la deflazione che lo stato è capace di mostrare il lato oscuro del suo volto, la vessazione fiscale e burocratica. Nel mondo manipolato del fiat money tutto viene capovolto: la deflazione fa male al mercato e fa bene a chi al mercato non è esposto.
5. DALLA DEFLAZIONE ALLA RECESSIONE
La deflazione monetaria comporta di per sé una crisi di liquidità, anzi più esattamente essa è una crisi di liquidità. Ma è in virtù delle scelte arbitrarie della pianificazione sulla scelta dei soggetti chiamati a pagarne il conto che una deflazione si trasforma in recessione.
Invece di lasciare liquidare le posizioni frutto delle precedenti errate allocazioni al mercato, si interviene ancora, scegliendo di tassare dove si trova possibilità di aggredire con facilità e continuando a sussidiare. Talora per motivi squisitamente opportunistici, talora per motivi occupazionali (di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno), sempre aggravando la situazione.
Giunti gli interventi pianificatori, non vengono necessariamente eliminati gli investimenti improduttivi o toccate le aree di privilegio: l’arbitrarietà esiste nel bust come nel boom, i banchieri centrali, le banche ed i politici decidono chi salvare e chi no.
Se dapprima si crea debito eccessivo con l’inflazione monetaria rispetto agli investimenti possibili (i famosi falsi segnali al mercato, gli investimenti non sorretti da risparmi reali), e pertanto si dà luogo ad eccesso di investimenti che non trovano remunerazione, non si danno infiniti modi per il rientro: la prima possibilità, all’inutilità della quale ho in precedenza accennato -- a causa della modalità del funzionamento del finanziamento -- è rifinanziare il sistema. Ciò è comunque possibile solo per quelle aree economicamente ancora forti che possono permettersi un ulteriore giro ed, usando una terminologia mutuata dal diritto commerciale, un annacquamento del capitale monetario. Ma è chiaro che in questo modo si rinvia la questione, aspettando il Godot del salto tecnologico che garantisca la crescita costante richiesta dall’infinita emissione monetaria a debito. Non considerandosi che il progresso ha i suoi tempi, le sue accelerazioni ed i momenti di stasi, che non possono essere continuamente ed eccessivamente forzati dall’espansione creditizia e dalla pianificazione monetaria. Quando, poi, così fan tutti, si arriva alla currency war.
La seconda possibilità è attraverso una rapida crescita del PIL in ragione di aumento dell’export, attrazione degli investimenti dall’estero, e di una veloce circolazione monetaria interna. Questo è quanto si cerca di raggiungere, anche imponendo legislativamente una serie di oneri transattivi, che sono costi transazionali da una parte e che dall’altra invece costituiscono PIL e gettito tributario. Ma non è facile raggiungere l’obiettivo in questo modo, perché ci vuole capacità e disciplina; perché i soggetti economici fanno di tutto per evitare l’imposizione di oneri non desiderati, correndo il rischio concreto di una fuga dei capitali; perché così facendo si appesantisce la circolazione con burocrazia e controlli che rallentano anziché accelerare la vcm; perché è di ostacolo la concentrazione finanziaria (od accumulazione, o tesaurizzazione, o trappola della liquidità che dir si voglia) che richiede una rendita (anche perciò si tenta in ogni modo di manipolare i tassi di interesse al ribasso) ma è statica quanto a circolazione; perché, soprattutto, la psicologia della crisi induce i soggetti sfiduciati nel futuro al risparmio (ma al risparmio passivo, magari al ritiro del contante in banca; non agli investimenti) e non alla spesa, nel mentre i meccanismi emozionali dell’invidia e dell’attribuzione della colpa all’evasione sconsigliano la spesa medesima.
Se quindi questi modi di procedere al ripiano delle perdite sono insufficienti, ecco che si arriva alla modalità più dolorosa: l’aggressione al risparmio ed ai beni reali, ed i fallimenti.
Se v’è meno moneta in circolazione, e meno circolazione monetaria, se non calano le spese pubbliche, né i sussidi anti-economici, né i prezzi (costi) che sono più resistenti ad adeguarsi di quanto la deflazione sia veloce (anzi, con fare schizofrenico, i costi vengono aumentati per cercare di movimentare la vcm), e se infine il creditore finanziario è il soggetto protetto del rapporto, perché il mancato pagamento dei crediti oltre un certo ammontare conduce al crollo del sistema finanziario intero in virtù della forte interdipendenza, succede che il soggetto chiamato a farsi carico delle passività insolute, eccessivamente gravato da oneri improri, non può pagare il debito che su di lui viene imposto se non smobilizzando beni reali facenti parte del suo patrimonio. Siccome senza moneta che circola, e col prelievo di quella residua, è difficile saldare i debiti monetari, ecco che si verifica l’impossibilità di assolvere alle obbligazioni correnti e si giunge alle crisi di insolvenza.
L’insolvenza è impossibilità di fare fronte alle proprie obbligazioni pecuniarie: è questione di liquidità, e non sempre ha a che fare con la patrimonializzazione. Allora ecco la decrescita dei prezzi ma anche i fallimenti delle imprese. Il resto viene da sé: disoccupazione, calo dei consumi, del PIL, delle imposte, aumento del debito pubblico e delle sofferenze bancarie in un avvitamento che sembra non avere fine.
Nel periodo del boom, il momento della corsa all’oro, si indebitano i soggetti creando moneta (che sia debito pubblico o debito bancario, poco cambia visto che poi il settore bancario è pubblico anch’esso nel senso che nel sistema di moneta fiat deve essere protetto dal fallimento, a parte episodi minori, pena il default sistemico). Poi durante il bust, il momento del "si salvi chi può," si chiede alla collettività di pagare il debito artificialmente creato che il debitore prenditore originario non è in grado, per i più svariati motivi, di assolvere. Persino richiedendosi allo stesso tempo di continuare a sostenere il settore improduttivo. Purtuttavia non si fornisce la nuova moneta per pagare questo debito, per cui infine si aggredisce il patrimonio, finanziario o reale. Non ci può poi meravigliare della recessione. Il capitale viene bruciato due volte: una prima nel momento dell’allocazione improduttiva, la seconda nel momento del trasferimento dal settore produttivo a quello sussidiato per ristabilire l’equilibrio preduto.
6. CONCLUSIONI
Bisogna distinguere rigidamente la deflazione monetaria dalla deflazione dei prezzi, al pari di come si distingue l’inflazione monetaria dall’inflazione dei prezzi. La deflazione monetaria è un male perché si manifesta repentinamente e rende imprevedibile il calcolo economico. Questo evidentemente non vuol dire affatto che l’inflazione sia un bene: ogni artificiosa manipolazione del mercato monetario che lo rende instabile avvantaggia solo chi è nella posizione di poterne approfittare.
Ma va ripetuto che il fenomeno della deflazione monetaria in moneta fiat non è la stessa cosa che la deflazione dei prezzi da mercato libero in regime monetario aureo od in regime di libertà monetaria hayekiana, od anche dalla normale discesa dei prezzi nello stesso regime di fiat money in virtù del funzionamento del mercato concorrenziale. Non è di fronte a quella benefica discesa dei prezzi dei beni che ci si trova, ma alla mancanza della liquidità necessaria agli scambi e per l’assolvimento delle proprie obbligazioni, pur magari in presenza di adeguata capitalizzazione. Liquidità che in regime di corso forzoso ed assenza di libertà monetaria è difficilmente surrogabile. E’ sempre difficile e doloroso uscire da una crisi recessiva da deflazione monetaria, mentre la deflazione dei prezzi è benvenuta al consumatore, costituendo indice del progresso da buon funzionamento del mercato e della maggiore accessibilità e diffusione del benessere.
Di certo la questione è articolata ed anche in questo scenario il libero mercato non scompare del tutto: gli imprenditori reali, che hanno buoni prodotti o servizi, che innovano ed hanno idee, esistono e resistono.
Ma purtroppo avviene che la crisi deflattiva è controllata, gestita selettivamente, pianificata, premiante verso chi non sarebbe premiato dal mercato, conservatrice del privilegio e del parassitismo. La sofferenza e l’ingiustizia di una crisi deflattiva sono alimentate e moltiplicate dagli interventi della pianificazione che ritarda la guarigione, sottraendo ulteriori risorse produttive per dirigerle a salvaguardia dei soggetti meglio posizionati.
Fortunatamente il sistema è altamente caotico, di difficile prevedibilità e difficile controllo, per cui la moltitudine di soggetti presenti sul mercato, il sussistere in capo al medesimo soggetto -- in ragione appunto della struttura sistemica caotica e multiforme -- di posizioni attive e passive, il continuo riposizionarsi dei singoli che con la loro conoscenza diffusa risanano al meglio possibile la propria situazione e di riflesso quella generale, l’interdipendenza dei mercati, il lavoro quotidiano di milioni di imprenditori e lavoratori, la forza di ciò che sopravvive del mercato, attenuano i danni ed aiutano ad uscire dalla crisi. C’è il rischio che tutto questo sforzo divenga uno sforzo di Sisifo se le energie lavorative e creative imprenditoriali impiegate per l’uscita dalla recessione, vengono sprecate a causa di un altro momento espansivo.
Non bisogna arrivare ad una deflazione monetaria. La crisi deflattiva non si evita inflazionando, anzi l’inflazione ne costituisce premessa e causa, perché l’esito ultimo dell’inflazione è che il denaro non è mai sufficiente -- dando così origine ad una deflazione. Ed a ben vedere se si avverte la necessità di inflazionare, vuol dire che alla crisi deflattiva si è già arrivati. A quel punto l’opera di pulizia dei malinvestiment, che doveva avvenire già in precedenza in tempo pressoché reale, dev’essere la più immediata possibile, anche tenendo conto dei costi sociali. Gli economisti austriaci non dovrebbero lodare in maniera moralistica gli effetti curativi e taumaturgici della deflazione, che pur sussistono, ma sottolineare il dolore che ne viene e la eventuale gestione perversa della stessa, al fine di diminuire, non rafforzare, la richiesta di intervento statale. E dovrebbero chiaramente indicarne l’origine nel risalente eccesso di offerta creditizia e monetaria, proponendo le modifiche alla regolamentazione affinché il ciclo non si ripeta nuovamente. Insieme a tutto ciò potranno rivendicare la correttezza dell’analisi precedentemente effettuata.