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di David Howden
Negli ultimi cinque anni nessun argomento ha polarizzato l'attenzione dei commentatori come quello sulle politiche post-crisi in Islanda e Irlanda.
In un articolo pubblicato su Economic Affairs (disponibile qui in formato PDF) contrasto le politiche messe in atto da Islanda e Irlanda, forse i due paesi più colpiti dal congelamento della liquidità nel 2008. Una conclusione che si sente spesso sostiene che un paese ha fatto tutto bene e l'altro ha fatto tutto male, ma io appoggio un approccio più pragmatico. Ci sono alcuni aspetti positivi in entrambi i casi, e altri aspetti di cui possiamo fare a meno.
A rischio di semplificare eccessivamente le loro situazioni, le differenze politiche fondamentali sono:
- L'Islanda ha permesso il collasso di ampie aree del suo settore finanziario (per lo più società estere sul suolo interno) mentre l'Irlanda ha promesso garanzie in bianco per tenere a galla il suo settore finanziario.
- L'Islanda ha rapidamente inflazionato la sua corona nel tentativo di recuperare la competitività internazionale attraverso la svalutazione. Essendo chiusa nell'euro, l'Irlanda non era in grado di seguire un percorso simile ed invece ha dovuto diventare più attraente per gli stranieri abbassando i prezzi sul mercato interno (cioè, disinflazione o deflazione).
- L'Islanda ha ostacolato una fuga di capitali attuando controlli monetari volti a mantenere gli investimenti all'interno del paese. Facendo parte dell'Unione Europea, l'Irlanda ha mantenuto il suo impegno con i mercati dei capitali liberi, e gli investitori sono stati in grado di entrare o uscire a loro piacimento.
Ci si potrebbe chiedere quale soluzione sia stata più efficace. L'Islanda sembra aver ammorbidito il colpo della sua recessione, ma l'attuale crescita dell'Irlanda è più forte. In modo simile, la disoccupazione in Islanda è stata ed è inferiore.
Per i nostri scopi, mi concentrerò solo sugli effetti delle rispettive politiche monetarie e come i guadagni di breve termine della risposta inflazionista dell'Islanda ora impallidiscono di fronte alla risposta più sommessa dell'Irlanda.
Figura 1: PIL nominale (2008 = 100 ) Fonte: Federal Reserve Bank di St. Louis |
La Figura 1 mostra la storia comune. La politica inflazionistica dell'Islanda ha stimolato le esportazioni, ha inondato di denaro fiat alcuni crediti inesigibili e in generale ha permesso di uscire dalla tempesta relativamente indenni. Al contrario, l'Irlanda sta languendo in una crescita lenta e cinque anni più tardi il reddito del paese è ancora il 10% inferiore rispetto al picco pre-bust.
Tale analisi trascura gli effetti perniciosi dell'inflazione per l'economia islandese. Questa politica ha aumentato l'offerta di moneta di quasi il 20% solo nel 2008, e ha portato ad un immediato aumento dei prezzi.
Figura 2: PIL reale (2008 = 100) Fonte: Federal Reserve Bank di St. Louis |
Con la figura 2 capiamo meglio come la situazione era percepita dall'islandese o dall'irlandese medio. Mentre la Banca Centrale d'Islanda inflazionava l'offerta di moneta, l'inflazione dei prezzi infuriava. Gli islandesi continuavano a percepire che la loro sicurezza finanziaria peggiorava, mentre il loro potere d'acquisto crollava. Questo non era evidente per il resto del mondo, fissato com'era sui prezzi nominali dell'economia islandese. Con il suo nadir alla fine del 2010, il reddito aggiustato all'inflazione in Islanda è sceso oltre il 35%.
In Irlanda questo calo è stato ammutolito dalla deflazione dei prezzi. Dato che i prezzi interni sono diminuiti, i cittadini irlandesi hanno visto declinare ulteriormente i loro redditi nominali. Nel suo momento peggiore, l'economia irlandese è crollata meno del 10% in termini reali.
Questo sembra suggerire che l'Irlanda abbia implementato la soluzione migliore nel non perseguire una politica monetaria inflazionistica. Alcuni noteranno, tuttavia, che la ripresa dell'Islanda sin dal 2010 è stata abbastanza forte.
In effetti se guardiamo al calo del tasso di occupazione in entrambi i paesi, molto probabilmente proveremmo più simpatia per le masse di disoccupati irlandesi.
Figura 3: Tasso di occupazione (2008 = 1) Fonte: Federal Reserve Bank di St. Louis |
Scavando più a fondo, però, scopriamo che non tutto è come sembra. Molti islandesi fanno due lavori per sbarcare il lunario. Questo effetto è diventato sempre più pronunciato con la recessione, poiché l'inflazione ha reso la vita più difficile con un solo stipendio. Come conseguenza, molti islandesi hanno perso un posto di lavoro durante la recessione ma le statistiche sulla disoccupazione non lo riflettevano poiché essi risultavano ancora impiegati altrove. Questo non è il caso dell'Irlanda, dove non solo un lavoro è la norma, ma il calo dei prezzi ha reso più facile per un lavoratore dipendente sbarcare il lunario.
Un modo migliore per valutare la situazione occupazionale è quello di esaminare i cambiamenti nelle ore lavorative.
Figura 4: Ore di lavoro annuali (2008 = 100) Fonte: Federal Reserve Bank di St. Louis |
Qui possiamo vedere che la situazione è invertita. Con la recessione del 2010 il numero di ore lavorative dell'islandese medio è sceso del 6%, mentre in Irlanda il corrispondente calo è stato solo del 3.5% — quasi la metà.
Entrambi i paesi hanno ancora problemi. I controlli monetari islandesi stanno soffocando gli investimenti necessari, mentre l'Irlanda è gravata da un grande debito per aver salvato le sue banche, e questo rappresenta uno stallo per la crescita. Una cosa è chiara — gli effetti della politica monetaria sono severi ed i benefici conclamati della politica inflazionistica dell'Islanda sono stati contrastati dall'inflazione dei prezzi che ne è seguita.
Non lasciate che una buona crisi vada sprecata; impariamo qualcosa. Come dimostra la storia di questi due paesi, inflazionare la propria valuta può dare l'apparenza di una ripresa, ma la verità è un po' meno rosea.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/
Ciao Francesco
RispondiEliminaritorniamo a precedenti riflessioni.
L'inflazione è un inganno, una frode, una tassa occulta. Le tasse esplicite sono invece una certezza e visto il carico attuale contrastano chiaramente qualsiasi possibilità di recupero, di crescita, di trarre beneficio da eventuale deflazione (ma dove?).
Per l'individualismo metodologico l'inflazione lascia qualche chance in più a chi riesce a posizionarsi meglio ed a chi ha debiti grandi come gli stati interventisti. Ma che, alla lunga, sia solo un mezzo distruttivo di ricchezza come le supertasse attuali non ci sono dubbi.
Hai dato un'occhiata a quei grafici?
Qualcosa dicono... Che siamo lì lì...
morale: se stai nella merda, stai nella merda
RispondiEliminaCiao gdb,
RispondiEliminala sapete la favola dell'uccellino?
http://www.youtube.com/watch?v=KXQDAf2Rtq4
Ciao a tutti.
RispondiEliminaDna, per quanto riguarda i grafici ho espresso il mio pensiero nell'articolo precedente. Inoltre, scrivendo su questi argomenti, ho iniziato ad acquisire una certa predisposizione alla previsione dei gusti dei lettori. :)
I benefici dall'attuale deflazione ci sono, e ne discuteremo giovedì.
Una piacevole riscoperta quel video. E visto che siamo in tema, io ci aggiungerei anche questo: http://youtu.be/a7mK8XY8jd8
Ma quanta neve?
RispondiEliminaQuanta ce ne ha messa oggi Barroso?
;D
Comunque ancora una volta emerge prorompente un avvertimento: la statistica non è il punto finale di un'analisi economica. Comparando i dati di Islanda ed Irlanda ci dimostra come scambiando alcuni parametri essi premiano in maniera alternata i due paesi (se prendiamo il PIL nominale l'Islanda "vince," se invece quello reale "vince" l'Irlanda; stessa cosa tra disoccupazione e ore lavorative).
RispondiEliminaHowden evita di essere trascinato in errore grazie al suo approccio Austriaco, il quale non dà importanza massima alla statistica. E' il ragionamento sensato e dettato dal buonsenso quello che trionfa, perché come ci ricorda Rothbard la statistica deve essere sempre vista con una sana dose di scetticismo.