di
Ludwig M. Lachmann
[On Freedom and Free Enterprise: Essays in Honor of Ludwig von Mises (1956)]
Nel mondo libero possiamo constatare come i nemici dell’economia di mercato oggi si trovino privi di solidi argomenti. Le tesi a favore della pianificazione centralizzata hanno perso molto del loro antico splendore. Abbiamo fatto davvero molte esperienze a tale riguardo e gli avvenimenti degli ultimi quarant’anni sono anche troppo eloquenti.
Chi può oggi mettere in discussione che ogni intervento da parte di un’autorità politica, come sottolineò già trent’anni fa Ludwig von Mises, comporta ulteriori interventi per evitare le inevitabili ripercussioni economiche conseguenti al primo passo compiuto in quella direzione? Chi negherà mai che un’economia dirigista esige, per operare al meglio, un clima generale d’inflazione e chi oggi ignora i terribili effetti di una “inflazione controllata”? Sebbene alcuni economisti abbiano inventato la formula eufemistica “inflazione ordinaria” allo scopo di descrivere quell’inflazione cronica che conosciamo bene, è improbabile che qualcuno sia ancora disposto a cullarsi in questa illusione. Non avevamo davvero bisogno che il
recente esempio tedesco ci mostrasse come un’economia di mercato sappia creare ordine a partire dal caos “amministrativamente controllato”, anche all’interno delle circostanze più sfavorevoli. Una forma di organizzazione economica basata sulla cooperazione volontaria è necessariamente superiore a ogni struttura gerarchica, anche nell’ipotesi in cui potesse esistere un sistema per selezionare, grazie a un test, chi debba comandare. Quanti sono in grado di apprendere mettendo a frutto l’esperienza e utilizzando la ragione lo sapevano già in precedenza, e quelli che non lo sono difficilmente lo apprenderanno adesso.
Dinanzi a tale situazione quanti s’oppongono all’economia di mercato hanno modificato la propria strategia; ora essi si oppongono al capitalismo usando argomenti “sociali” invece che “economici”. Ora il mercato è accusato di essere ingiusto, e non già inefficiente. I critici del capitalismo insistono adesso sugli “effetti distorcenti” del controllo proprietario della ricchezza e affermano pure che “il plebiscito del mercato è falsato dal voto plurimo”. Mostrano che la distribuzione della ricchezza ha ricadute sulla produzione e sulla distribuzione del reddito, dato che i possessori di ricchezza non soltanto ricevono una “quota ingiusta” del prodotto sociale, ma questo avrebbe pure conseguenze sulla composizione del prodotto sociale: i beni di lusso sono troppi e quelli che vanno incontro alle necessità comuni troppo pochi. Per di più, dal momento che questi proprietari hanno la maggior parte dei risparmi, essi determinano pure la quota dell’accumulazione di capitale e perciò il progresso economico.
Alcuni di questi oppositori del mercato non negherebbero tuttavia che c’è una logica nella distribuzione della ricchezza quale risultato cumulativo del gioco delle forze economiche, ma al tempo stesso sosterrebbero che questa accumulazione fa sì che il presente sia schiavo del passato, che a sua volta sarebbe la sopravvivenza di un fattore arbitrario. L’odierna distribuzione del reddito è delineata dall’effettiva distribuzione della ricchezza, e anche se la ricchezza di oggi fosse stata accumulata ieri, essa era stata accumulata da processi che a loro volta riflettevano l’influenza della distribuzione della ricchezza dell’altro ieri. In questo senso, tale argomento usato da quanti s’oppongono al mercato poggia sull’istituto dell’eredità da cui, anche in una società dinamica, una maggioranza dei proprietari fa derivare la propria ricchezza.
Questo argomento appare oggi ampiamente accettato, anche da molti che sono sinceramente favorevoli alla libertà economica. Tali persone devono credere che una “redistribuzione della ricchezza”, per esempio attraverso la tassa di successione, sarebbe socialmente desiderabile, senza comportare implicazioni economiche negative. Al contrario, poiché tali misure aiuterebbero a liberare i redditi attuali dalla “mano morta” del passato essi agevolerebbero anche un adattamento dei redditi presenti ai bisogni della nostra epoca. La distribuzione della ricchezza è un dato del mercato e cambiando i dati possiamo cambiare i risultati senza interferire con il meccanismo di mercato! Ne discende che il processo di mercato produrrebbe risultati “socialmente tollerabili” solo quando fosse accompagnato da una politica economica continuamente definita per redistribuire la ricchezza esistente.
Questa visione, come ho detto, è oggi condivisa da molti, e anche da alcuni economisti che pure comprendono la superiorità dell’economia di mercato sul dirigismo economico e sull’interventismo, ma egualmente rigettano quelle che reputano essere le conseguenze sociali dell’economia competitiva. Sono pronti ad accettare l’economia di mercato solo quando è accompagnata da politiche redistributive.
Il presente saggio punta a contestare le fondamenta di questa visione.
In primo luogo, l’intero argomento poggia logicamente sulla confusione verbale che viene dal significato ambiguo del termine “dato”. Nell’uso corrente come nella maggior parte delle scienze, per esempio in statistica, la parola “dato” significa qualcosa che, in un preciso momento, è “consegnato” a noi che osserviamo la scena. In questo senso è ovviamente un truismo sostenere che il modo di distribuzione della ricchezza è un dato ad ogni preciso istante, semplicemente nel senso banale che ciò che accade è così e non in un altro modo. Ma nelle teorie basate sulla nozione di equilibrio che, nel bene e nel male, hanno condizionato tanto significativamente il pensiero economico contemporaneo e ne hanno così ampiamente delineato i contenuti, la parola “dato” ha acquisito un secondo e assai diverso significato: qui per “dato” s’intende una condizione necessaria di equilibrio, una variabile indipendente, e “i dati” nel loro insieme indicano la somma totale delle condizioni necessarie e sufficienti dalle quali, una volta che le conosciamo tutte, possiamo dedurre senza ulteriori problemi il prezzo di equilibrio e la quantità. In questo secondo senso la distribuzione della ricchezza, insieme con gli altri dati, sarebbe dunque un fattore
determinante, sebbene non il solo, dei prezzi e delle quantità dei vari beni e servizi che sono venduti e comprati.
In questo saggio il nostro principale obiettivo sarà tuttavia quello di mostrare che la distribuzione della ricchezza non è un “dato” in questo secondo e specifico senso. Lungi dall’essere una “variabile indipendente” del processo di mercato, essa è – al contrario – continuamente soggetta a modifiche che provengono dalle forze di mercato. Ovviamente ciò non significa negare che in ogni momento la distribuzione della ricchezza è tra le forze che delineano il percorso del processo di mercato nel futuro immediato, ma
significa piuttosto negare che il modo di distribuzione in quanto tale possa avere un’influenza costante. Sebbene la ricchezza sia sempre distribuita in qualche modo definito, la maniera in cui essa è assegnata muta continuamente.
Soltanto se il modo di distribuzione rimanesse lo stesso periodo dopo periodo mentre pezzi individuali di ricchezza sono trasferiti grazie all’eredità, solo in tal caso un modo costante potrebbe essere detto una forza economica permanente. Dal momento che la distribuzione della ricchezza è decisa dalle forze di mercato come un oggetto, e non come un agente, quale che sia oggi la sua conformazione essa diverrà presto una sopravvivenza del passato.
Per questo, la distribuzione della ricchezza non ha posto tra i dati dell’equilibrio. Ciò che tuttavia è di grande interesse economico e sociale non è il modo di distribuzione a un dato momento, ma la maniera in cui esso muta nel corso del tempo. Tale trasformazione, lo vedremo, trova il suo vero posto tra gli avvenimenti che succedono su quel problematico “percorso”, ma raramente in realtà tutto conduce a un equilibrio. Si tratta di un fenomeno tipicamente “dinamico”. È un fatto curioso che in un tempo nel quale si è sentito tanto parlare del bisogno di ricercare e promuovere studi dinamici, nei fatti si sia poi prodotto così poco a tale riguardo.
La proprietà è una nozione giuridica che si riferisce a oggetti materiali concreti. La ricchezza è un concetto economico che si riferisce a risorse scarse. Tutte le risorse di valore sono – o riflettono, o incorporano – oggetti materiali, ma non tutti gli oggetti materiali sono risorse: le case pericolanti o abbandonate e i mucchi di rifiuti sono ovvi esempi, dato che si tratta di oggetti che i proprietari cederebbero volentieri se trovassero qualcuno disposto a portarseli via. Per di più, ciò che ora è una risorsa può smettere di esserlo domani, mentre ciò che adesso non ha alcun valore potrebbe acquisirlo domani. Lo status di oggetti materiali è perciò sempre problematico ed entro certi limiti dipende dalla previsione che facciamo. Un oggetto costituisce ricchezza solo se rappresenta la sorgente di un flusso di reddito. Per il proprietario, effettivo o potenziale, il valore di un oggetto attesta in ogni momento la sua prevista capacità di produrre reddito. E tutto questo dipenderà, a sua volta, dagli utilizzi a cui l’oggetto può essere piegato. La mera proprietà di oggetti, perciò, non conferisce necessariamente ricchezza. Non è la proprietà, ma l’utilizzo delle risorse che rappresenta la sorgente del reddito e della ricchezza. A New York una gelateria può garantire risorse al proprietario; la stessa gelateria sarebbe difficilmente tale in Groenlandia.
In un mondo caratterizzato da cambiamenti imprevedibili è sempre problematico riuscire a preservare la ricchezza; e a lungo termine si può dire che sia impossibile. Per essere in grado di mantenere una data quantità di ricchezza da una generazione all’altra, una famiglia dovrebbe possedere tali risorse con cui ottenere un flusso permanente di reddito netto, e cioè una quantità di valore aggiuntivo rispetto al costo dei servizi che integrano le risorse possedute. Sembra che questo sia possibile
solo se ci si trovi in un mondo stazionario – in un mondo nel quale oggi come ieri e domani come oggi, e in cui per questo motivo, giorno dopo giorno, e anno dopo anno, lo stesso reddito maturerà a favore degli stessi proprietari o dei loro eredi –
o se tutti i proprietari di risorse avessero una perfetta capacità di previsione. Poiché entrambe le ipotesi sono lontane dalla realtà, possiamo ignorarle senza timore. Cosa dunque succede in realtà alla ricchezza in un mondo caratterizzato da cambiamenti non prevedibili?
Tutte le ricchezze consistono in capitali che, in un modo o nell’altro, incorporano o almeno in ultima analisi riflettono le risorse materiali di produzione, le fonti dei prodotti di valore. Ogni prodotto deriva dal lavoro umano con l’aiuto di una combinazione di tali risorse. Per questo scopo le risorse devono essere usate in talune composizioni; la complementarietà è l’essenza dell’uso della risorsa. Le forme di questa complementarietà non sono in nessun modo “date” agli imprenditori che predispongono, iniziano e portano a compimento i piani di produzione. Nella realtà non esiste alcuna funzione di produzione
A. Al contrario, il compito dell’imprenditore consiste precisamente nel trovare, in un mondo caratterizzato da continui cambiamenti, quale combinazione di risorse assicurerà, nelle condizioni odierne, il massimo di produzione al minor costo, e nello scommettere che farà così nelle probabili condizioni di domani, quando i valori dei prodotti, il costo delle risorse complementari impiegate e la tecnologia saranno del tutto cambiati.
Se tutti i capitali fossero infinitamente versatili, il problema imprenditoriale consisterebbe in nient’altro che nel seguire gli scambi delle condizioni esterne con combinazioni di risorse sempre diverse, in una successione di usi fatta proficua da questi cambiamenti. Di regola, le risorse hanno una limitata versatilità ed ognuna è orientata a un numero specifico di impieghi.
[1] Per questo motivo, il bisogno di adeguare la realtà dinanzi al cambiamento comporterà spesso l’esigenza di modificare la composizione del gruppo di risorse, allo scopo di “ricomporre il capitale”. Ma ogni mutamento nella gestione di questa complementarietà avrà effetti sul valore delle risorse componenti, producendo plusvalenze e minusvalenze. Gli imprenditori avanzeranno offerte più alte per i servizi garantiti da quelle risorse da cui si sono ricavati utilizzi più proficui, e saranno disposti a pagare meno per quelle destinate a utilizzi meno interessanti. In quei limitati casi in cui nessun uso (presente o futuro, reale o potenziale) della risorsa può essere trovato e questo anche se essa, in passato, è stata parte di una combinazione assai produttiva, la risorsa stessa perderà totalmente il proprio carattere di risorsa. Ma anche in casi meno estremi le plusvalenze e le minusvalenze dei capitali composti da beni e risorse di vario genere vanno considerate un dato essenziale di un mondo contraddistinto da trasformazioni non prevedibili.
Quello del mercato deve dunque essere visto come un processo che tende a livellare. Nel mercato c’è una dinamica in direzione della redistribuzione della ricchezza che ha sempre avuto luogo, ben prima dei processi apparentemente simili che i politici moderni vanno istituendo, ma questi ultimi non reggono il confronto, se non altro perché il mercato dà la ricchezza a quanti possono gestirla, mentre i politici consegnano i capitali all’insieme di quanti li sostengono e che, di regola, non sanno farlo.
Questo processo di redistribuzione della ricchezza guidato dal mercato non è la conseguenza di una catena di casualità. Quanti vi prendono parte non stanno giocando in una gara basata sulla fortuna, ma al contrario competono mettendo in mostra le loro
abilità. Questo processo, come tutti i veri processi dinamici, riflette la trasmissione di conoscenza da una mente all’altra. Ciò è possibile solo perché alcune persone hanno conoscenze che altri non hanno ancora acquisito, dal momento che la conoscenza del mutamento e delle sue implicazioni si diffonde gradualmente e in modo tutt’altro che uniforme attraverso la società.
In questo processo ha la meglio chi capisce prima di qualsiasi altro che una data risorsa che oggi può essere prodotta (quando è nuova) o comprata (quando si tratta di una risorsa già esistente) ad un prezzo A, domani sarà parte di una combinazione produttiva il cui risultato varrà A’. Tali plusvalenze e minusvalenze, causate dall’opportunità o dal bisogno di usare in altro modo talune risorse, in maniera più o meno efficace, formanola sostanza economica di ciò che la ricchezza significa in un mondo in trasformazione e il principale veicolo del processo di redistribuzione.
In questo processo è davvero assai improbabile che lo stesso uomo abbia sempre le migliori intuizioni circa i possibili nuovi utilizzi delle risorse esistenti o potenziali, perché in quel caso sarebbe davvero un essere superiore. E anche in questo caso molto difficilmente gli eredi otterranno un successo analogo – diversamente anch’essi sarebbero davvero superiori. In un mondo caratterizzato da cambiamenti imprevisti, in definitiva le minusvalenze sono tanto inevitabili quanto le plusvalenze. La concorrenza tra proprietari di capitale e la natura specifica delle risorse durature, specie quando si tratti di “specificità multipla”, prevede che i guadagni siano seguiti da perdite così come che le perdite saranno seguite da guadagni.
Questi fatti economici comportano talune conseguenze sociali. Dal momento che i critici del mercato oggi preferiscono basare il loro attacco su argomenti “sociali”, può qui non essere fuori luogo mostrare quali siano i veri risultati sociali del processo di mercato. Abbiamo già detto come esso sia un processo livellatore. In maniera più precisa possiamo descrivere tale risultate come un esempio di quella che Vilfredo Pareto chiamò la “circolazione delle élites”. La ricchezza è incapace di restare a lungo nelle stesse mani. Passa da uno all’altro nel momento in cui un cambiamento imprevisto conferisce valore a questa o a quella specifica risorsa, causando guadagni o perdite in conto capitale. Rifacendoci a Joseph Alois Schumpeter, potremmo dire che i possessori di capitale sono come gli ospiti di un hotel o i passeggeri di un treno: sono sempre là, ma non sono mai a lungo le stesse persone.
Si può obiettare che il nostro argomento in ogni caso si applichi a un piccolo segmento della società e che la circolazione delle élites non elimini l’ingiustizia sociale. Questa circolazione può effettivamente esserci tra i possessori di ricchezza, ma cosa si può dire del resto della società? Quale opportunità hanno quanti non hanno neppure l’occasione di partecipare, non dico di vincere, al gioco? Tuttavia questa obiezione ignora la parte giocata dai manager e dagli imprenditori all’interno del processo di mercato: una parte su cui dovremo presto soffermarci.
Come abbiamo visto, in un’economia di mercato tutta la ricchezza ha una natura problematica. Quanto più durevoli sono i capitali e quanto più specifico e ristretto è lo spettro degli usi a cui essi possono essere piegati, quanto più chiaro diventa il problema. Ma in una società con poco capitale fisso (nella quale la maggior parte del capitale accumulato aveva la forma di un accumulo di beni fisici, principalmente agricoli e deperibili, trasportati in determinati periodi e per tragitti anche lunghi) e in cui i beni di consumo durevoli (eccetto forse le case e il mobilio) difficilmente esistevano, il problema non era così chiaramente visibile. Grosso modo questa era la società in cui vissero gli economisti classici e da cui la loro teoria trasse naturalmente molti elementi. Tuttavia nelle condizioni del loro tempo gli economisti classici erano giustificati, fino a un certo punto, nel considerare tutti i capitali come virtualmente omogenei e perfettamente versatili, opponendo a questo solo la terra, intesa come l’unica risorsa specifica e non riproducibile. Ma nel nostro tempo non c’è alcuna giustificazione per tale dicotomia. Quanto più il capitale è fisso e durevole, tanto maggiore è la probabilità che le risorse che costituiscono il capitale dovranno essere usate, prima che si esauriscano, in scopi diversi rispetto a quelli per cui originariamente erano state pensate. In pratica questo vuol dire che in una moderna economia di mercato non ci può essere una realtà in grado di assicurare un reddito permanente. La durata e la limitata versatilità dei capitali rendono tutto questo impossibile.
Ci si può domandare se nel presentare il nostro argomento non abbiamo confuso il proprietario di capitale con l’imprenditore, attribuendo al primo funzioni che in realtà sono proprie del secondo. La decisione in merito all’utilizzo delle risorse esistenti così come quella che specifica la forma concreta delle nuove risorse in termini di capitale (insomma, la decisione sull’investimento) non è forse il tipico compito dell’imprenditore? Non è caratteristico dell’imprenditore raggruppare e ricollocare le combinazioni dei beni capitali? Non stiamo forse attribuendo ai proprietari di capitali la funzione economica degli imprenditori?
In realtà, non siamo in primo luogo interessati ad attribuire compiti a questo o a quello. Siamo invece interessati agli effetti che il cambiamento imprevisto ha sul valore dei capitali e sulla distribuzione della ricchezza. Gli effetti di tale trasformazione ricadranno sui proprietari di ricchezza quale che sia la causa del cambiamento. Se la distinzione tra capitalista e imprenditore potesse facilmente essere tracciata, si potrebbe sostenere che la continua redistribuzione della ricchezza sia il risultato dell’azione imprenditoriale, di un processo in cui i proprietari di capitali giocano un ruolo passivo. Ma non si può dubitare che il processo abbia effettivamente luogo e che la ricchezza sia ridistribuita, né che il processo sia suscitato dalla trasmissione di conoscenze da un centro d’azione imprenditoriale all’altro. Dove i proprietari di capitali e gli imprenditori possono essere chiaramente distinti, è vero che i proprietari di ricchezza non prendono parte attiva nei processi stessi, ma ne devono accettare passivamente i risultati.
Tuttavia vi sono molte situazioni in cui una distinzione così netta non può essere fatta. Nel mondo moderno la ricchezza prende tipicamente la forma dei titoli. Il proprietario di ricchezza è tipicamente un azionista. L’azionista è un imprenditore? Frank Knight sostiene che lo è, ma svariati studiosi, da Walter Rathenau
[2] a James Burnham, affermano il contrario. Naturalmente la risposta dipende dalla nostra definizione dell’imprenditore. Se lo definiamo come colui che assume rischi, è chiaro che l'azionista è un imprenditore. Ma negli ultimi anni sembra essersi delineata una tendenza sempre più decisa a definire imprenditore colui che fa piani e assume decisioni. Se le cose stanno così, i membri del consiglio d’amministrazione e i manager sono imprenditori, mentre probabilmente gli azionisti non lo sono.
Tuttavia dobbiamo essere cauti nel derivare da ciò questa o quella conclusione. Uno dei principali compiti dell’imprenditore consiste nello specificare la forma concreta delle risorse che costituiscono un capitale, e cioè quali edifici devono essere realizzati, quali depositi di beni devono essere predisposti, e via dicendo. Per poter distinguere chiaramente tra capitalista e imprenditore dobbiamo immaginare che esista un imprenditore “puro”, senza ricchezze proprie, il quale affitta capitale in forma monetaria, ossia in una forma non definita, da “puri” proprietari di capitali.
[3]
Ma i dirigenti e gli amministratori che si trovano al vertice della struttura organizzativa assumono davvero tutte queste decisioni specifiche? Molte di esse non vengono prese ben più in basso dai capi-settore, dai supervisori e da altre figure? È davvero possibile indicare in modo tanto netto “l’imprenditore” in un mondo nel quale le funzioni manageriali sono così ampiamente distribuite?
D’altro lato, la decisione di un proprietario di capitale di acquistare nuove azioni di una società A invece di una società B è anch’essa una decisione ben specifica. E in effetti questa è la decisione primaria su cui in definitiva poggiano tutte le decisioni gestionali all’interno dell’azienda, dato che senza capitale non ci sarebbe nulla da specificare. A quanto pare, dobbiamo comprendere che le decisioni volte a operare questa specificazione che sono assunte da azionisti, consiglieri d’amministrazione, manager e altri soggetti sono alla fine tutte mutualmente dipendenti, poiché si tratta dei legami di una catena. Tutte queste decisioni si distinguono solo per il grado di concretezza, che cresce quanto più ci allontaniamo dal vertice dell’apparato organizzativo. Comprare le azioni dell’azienda A è una decisione che dà al capitale una forma meno concreta rispetto a quanto non faccia la decisione del capo-officina che sceglie con quali strumenti il lavoro deve essere fatto, ma è comunque una decisione che dà specificazione al capitale e che assicura le basi materiali per l’azione di quel capo-officina. In questo senso possiamo dire che il proprietario di capitale assume la decisione che più di tutte ha questa capacità di specificare il capitale.
Perciò la distinzione tra proprietario di capitale e imprenditore non è davvero semplice da fare. A questo livello, poi, il contrasto tra gli imprenditori attivi, che agiscono formando e ridefinendo combinazioni di beni capitali, e i proprietari che si limitano a possedere risorse, che devono accettare il verdetto delle forze di mercato in merito al successo dei “loro” imprenditori, è molto esagerato. Dopo tutto gli azionisti non sono affatto indifesi in queste situazioni. Se essi non possono persuadere i consiglieri d’amministrazione della loro azienda a non compiere certe scelte, c’è comunque una cosa che essi possono fare: possono vendere!
Ma cosa si può dire in merito ai proprietari di titoli di credito? Gli azionisti possono realizzare plusvalenze e minusvalenze; la loro ricchezza è visibilmente condizionata dalle forze di mercato. Ma quanti possiedono titoli di credito sembrano essere in una situazione del tutto diversa. Non si tratta di proprietari di ricchezza che possono pretendere immunità dalle forze di mercato che abbiamo descritto, e perciò dal processo di redistribuzione?
A un primo approccio, naturalmente, la differenza è esclusivamente un problema di grado. Non sono sconosciute situazioni in cui – a seguito del fallimento di progetti, inefficienza gestionale o altre circostanze esterne che non era possibile prevedere – i proprietari dei titoli di credito dovettero prendere il controllo della società e perciò ne divennero involontariamente i proprietari. È vero tuttavia che la maggior parte dei titolari di obbligazioni sono proprietari di ricchezze che stanno a una certa distanza dalla scena che abbiamo descritto, e cioè lontano dalla sorgente dei cambiamenti che sono destinati a modificare la maggior parte dei valori, sebbene non tutti. Le ripercussioni che s’irradiano da quella sorgente saranno stati intercettati da altri prima che raggiungano i titolari dei bond. Più alta è la “marcia” ingranata dal capitale di una impresa, più sottile è lo strato protettivo a garanzia degli investitori, e maggiori saranno le ripercussioni sui titolari dei bond, che ne saranno davvero seriamente interessati. Ed è perciò piuttosto sbagliato citare il caso del proprietario di titoli di credito allo scopo di mostrare che ci sono proprietari di risorse che sono esentati dal fare i conti con l’azione delle forze di mercato che abbiamo descritto. Come classe, i proprietari di ricchezze non possono essere liberati da ciò, anche se possono essere meno interessati da tutto ciò rispetto ad altri gruppi.
Ci sono inoltre due forze economiche che generano plusvalenze e minusvalenze da cui, per la natura di questi casi, i possessori di titoli di credito non possono proteggersi, per quanto spessa possa essere l’armatura protettiva del loro capitale: e queste due forze economiche sono il tasso d’interesse e l’inflazione. Un aumento a lungo termine dei tassi d’interesse deprimerà i valori dei titoli sebbene i loro possessori possano ancora sperare di rientrare grazie a maggiori profitti, mentre una caduta produrrà l’effetto opposto. L’inflazione trasferisce ricchezza dai creditori ai debitori, dove la deflazione ha l’effetto contrario. In entrambi i casi, naturalmente, abbiamo a che fare con modalità di quella ridistribuzione del reddito che stiamo descrivendo. Possiamo dire che con tassi di interesse costanti a lungo termine e con nessun cambio nel valore della moneta, la possibilità per la ricchezza dei titolari di bond di essere al riparo di fronte a un cambiamento inatteso dipenderà dalla loro posizione nei riguardi dei titolari delle quote di capitale, dalla loro “distanza economica” dal centro delle perturbazioni; mentre i mutamenti dell’interesse e nel valore della moneta modificheranno quella posizione.
I proprietari dei titoli di Stato, naturalmente, sono esenti da molte delle ripercussioni connesse a cambiamenti imprevedibili, ma certo non da tutte. Essi non hanno bisogno dell’armatura dei titoli di credito per proteggersi dalle forze di mercato che modificano prezzi e costi. Ma il mutamento dei tassi di interesse e l’inflazione sono una minaccia per loro come per gli altri titolari di bond. Nel mondo dell’inflazione permanente in cui oggi viviamo, sarebbe ridicolo ritenere che una ricchezza sotto forma di titoli di Stato pubblici non sia soggetta all’erosione delle forze del cambiamento. Ma in ogni caso l’esistenza di un debito statale non è il risultato dell’azione delle forze di mercato. È il risultato dell’azione dei politici desiderosi di salvare gli interessi dei loro elettori dall’onere di pagare imposte che altrimenti avrebbero dovuto pagare.
Il fatto principale che abbiamo sottolineato in questo saggio, la redistribuzione della ricchezza causata dalle forze di mercato in un mondo caratterizzato da cambiamenti inattesi, può essere comunemente osservato. Perché, allora, è costantemente ignorato? Possiamo capire per quale motivo i politici scelgano di ignorarlo: dopo tutto, è improbabile che la grande maggioranza di quanti compongono la loro base elettorale sia direttamente interessata da questo e, com’è ampiamente mostrato in caso di inflazione, difficilmente essa sarebbe in grado di capirlo se anche lo fosse. Ma perché anche gli economisti dovrebbero scegliere di ignorare tutto ciò? Che quel modo di distribuzione della ricchezza sia il risultato dell’azione di forze economiche è il genere di proposizione che, si potrebbe pensare, dovrebbe piacere loro. Perché, allora, un numero così alto di economisti continua a giudicare la distribuzione della ricchezza come un “dato”, in quel secondo senso precedentemente menzionato? C’è da supporre che la ragione possa essere trovata in un’eccessiva preoccupazione per i problemi di equilibrio.
Abbiamo visto in precedenza che i modi in cui si sussegue la distribuzione della ricchezza appartengono all’universo del disequilibrio. Plusvalenze e minusvalenze emergono in primo luogo perché le risorse durevoli devono essere utilizzate in forme per le quali non erano state progettate, e perché alcuni uomini capiscono prima e meglio di altri ciò che discende dai mutevoli bisogni e dalle risorse in trasformazione di un mondo che cambia. L’equilibrio sta ad indicare una coerenza di progetti, ma la redistribuzione della ricchezza operata dal mercato è tipicamente il risultato di un’azione incoerente. A quanti sono abituati a pensare in termini di equilibrio è naturale che tali processi che abbiamo descritto debbano apparire non proprio “rispettabili”. Ai loro occhi le “vere” forze economiche sono quelle che tendono a stabilire e mantenere l’equilibrio. Le forze che operano soltanto in disequilibrio non sono perciò considerate davvero interessanti e di conseguenza sono troppo spesso ignorate. Ci possono essere due ragioni per tale dimenticanza. Non c’è alcun dubbio che giochi un ruolo la convinzione che esista nella realtà una tendenza verso l’equilibrio e che, in ogni situazione concepibile, le forze che spingono verso l’equilibrio saranno sempre più forti di quelle che vi si oppongono.
Ma possiamo sospettare che un motivo egualmente forte sia l’incapacità degli economisti preoccupati dagli equilibri a fare i conti con le forze del disequilibrio. Tutta la teoria deve fare uso di modelli coerenti. Ma se si ha soltanto tale modello a propria disposizione, è ovvio che una buona parte dei fenomeni che non sembrano adeguarsi allo schema non saranno facilmente presi in considerazione. Il fatto d’ignorare il processo di redistribuzione, perciò, non è solo di enorme importanza pratica in politica economica, poiché ci impedisce di capire taluni aspetti del mondo in cui viviamo. Esso ha un cruciale significato metodologico per l’area centrale del pensiero economico.
Naturalmente non stiamo dicendo che l’economista moderno, formatosi alla grammatica dell’equilibrio e tanto ignorante dei fatti del mercato, non sia capace di fare i conti con il mutamento economico, o comunque non sia pronto a ciò; questo sarebbe assurdo. Stiamo solo dicendo che egli è bene equipaggiato unicamente per affrontare quei tipi di cambiamento che hanno luogo in conformità con una struttura piuttosto rigida. Nella maggior parte della letteratura economica oggi di moda il mutamento è concepito come una transizione da un equilibrio all’altro, e cioè in termini di statistica comparativa. Vi sono anche economisti che avendo seriamente frainteso l’idea di Gustav Cassel di una “economia uniformemente in movimento” non possono concepire la trasformazione economica in nessun altro modo!
[4] Tale transizione regolare da un equilibrio (di breve o lungo termine) a un altro, sbarra praticamente la strada non solo alla discussione sul processo a cui noi ci stiamo interessando, ma su tutti gli autentici processi economici. Poiché tale transizione regolare si realizzerà solo dove la nuova condizione di equilibrio è già generalmente conosciuta ed è anticipata prima di essere raggiunta. Dove non è così, si avrà un processo di tentativi ed errori (quelli che Léon Walras chiamava tâtonnements) che, alla fine, può o non può condurre a una nuova posizione d’equilibrio. Ma anche dove è così, alla fine il nuovo equilibrio raggiunto non sarà che ciò che avrebbe immediatamente anticipato ognuno fin dall’inizio, poiché sarebbe il risultato cumulativo degli avvenimenti che hanno preso forma lungo il percorso che conduce a ciò. Tra questi eventi il cambiamento della distribuzione della ricchezza occupa un posto fondamentale.
Il professor Erik Lindahl
[5] ha recentemente mostrato fino a che punto il modello analitico di John Maynard Keynes sia viziato dalla sua chiara volontà di constringere una varietà di forze economiche nel letto di Procuste di un’analisi dell’equilibrio di breve periodo. Mentre voleva descrivere il modus operandi di molte forze dinamiche, Keynes imprigiona il suo modello nella logica di un sistema di equazioni simultanee, sebbene le varie forze studiate appartenessero chiaramente a periodi di differente ampiezza. La lezione da apprendere qui è che una volta che ci concediamo il lusso di ignorare i fatti fondamentali che riguardano il mercato, come le differenze in termini di conoscenza e il fatto che alcune persone comprendono il significato di un evento prima di altre e più in generale la struttura temporale degli eventi, saremo tentati di esprimere gli effetti “immediati” nei termini dell’equilibrio di breve termine. E presto ci sentiremo pure autorizzati a dimenticare che ciò che realmente interessa l’economia non sono gli equilibri – anche nell’ipotesi in cui esistano, ciò che in ogni caso è da discutere – ma ciò che succede tra l’uno e l’altro. “Una nozione improvvisata, utilizzata dagli economisti logici come nozione limitativa”,
[6] può produrre risultati assai disastrosi quando è impiegata malamente.
Le difficoltà con cui l’equilibrio alla fine costringe a fare i conti derivano dalla confusione tra soggetto e oggetto, tra la mente di chi osserva e le menti degli attori osservati. Naturalmente non ci può essere una scienza sistematica senza una struttura coerente di riferimento, ma difficilmente possiamo attenderci di trovare coerenza se la nostra struttura concettuale di riferimento esige esiti preconfezionati nelle situazioni che esaminiamo. Al contrario, il nostro compito è di ottenere risultati grazie a uno sforzo analitico. Nelle scienze sociali vi sono molte situazioni che sono interessanti per noi proprio perché le azioni umane che sostanziano la realtà sono incoerenti l’una rispetto all’altra e perché la coerenza, se mai c’è, è alla fine prodotta dall’interazione delle menti di alcuni con quelle di altri. Questo saggio si propone di studiare tale situazione. Abbiamo tentato di mostrare che un fenomeno sociale di una qualche importanza può essere compreso se è presentato come un processo che riflette l’interazione della mente sulla mente, ma non altrimenti. I costruttori di modelli, econometrici o di differente tipo, naturalmente devono evitare questi temi.
È necessario sperare in futuro che gli economisti si mostrino meno inclini di quanto non sia avvenuto nel passato a cercare una coerenza predefinita ma spuria, e mostrino più interesse per quella varietà di modi nei quali la mente umana trae coerenza da una situazione inizialmente incoerente.
[*] traduzione
Istituto Bruno Leoni
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Note
[1] L’argomento che presento in questo testo deve molto alle idee formulate per la prima volta da Ludwig von Mises in “Das festangelegte Kapital”. Si veda: Grundprobleme der Nationaloekonomie, Jena, Fischer, 1933, pp. 201–14.
[2] Walter Rathenau, Vom Aktienwesen, Berlino, Fischer, 1917.
[3] Naturalmente questa definizione comporta alcune implicazioni sociali. Quanti l’accettano difficilmente possono continuare a considerare gli imprenditori come una classe a cui quanti sono privi di ricchezze non possono in alcun modo accedere. Quale che sia il grado di “imperfezione del mercato dei capitali” che sceglieremo di assumere, non otterremo comunque quel risultato.
[4] Per un’efficace critica di questo tipo di costruzione di modelli si veda: Joan Robinson “The Model of an Expanding Economy”, Economic Journal, marzo 1952.
[5] Erik Lindahl, “On Keynes’ Economic System”, Economic Record, maggio-novembre 1954.
[6] Ludwig von Mises, Human Action, New haven, Yale University Press, 1950, p. 352.
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