Bibliografia

martedì 7 febbraio 2012

Dieci Grandi Miti Economici #2







Seconda Parte



Qui il link alla Prima Parte.





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di Murray Rothbard


Mito 6: Esiste un compromesso tra disoccupazione ed inflazione.

Ogni volta che qualcuno chiede al governo di abbandonare le sue politiche inflazionistiche, economisti e politici dell'establishment avvertono che il risultato non può che essere una grave disoccupazione. Siamo in trappola, dunque, nel gioco tra inflazione e disoccupazione elevata, e veniamo persuasi che dobbiamo dunque accettare un pò di entrambe.

Questa dottrina è la posizione di ripiego dei Keynesiani. In origine, i Keynesiani ci hanno promesso che attraverso la manipolazione e la messa a punto dei deficit e della spesa pubblica, avrebbero potuto portare e ci avrebbe portato prosperità permanente e piena occupazione senza inflazione. Poi, quando l'inflazione è diventata cronica e sempre più grande, hanno cambiato la loro sintonia per mettere in guardia dal presunto compromesso, in modo da indebolire ogni pressione possibile sul governo per fermare la sua creazione inflazionistica di nuova moneta.

La dottrina del compromesso si basa sulla presunta "curva di Phillips", una curva inventata molti anni fa dall'economista Britannico A.W. Phillips. Phillips correlò gli aumenti del saggio salariale con la disoccupazione, e sostenne che le due cose si muovono in modo inversamente proporzionale: più alto è l'aumento dei salari, più bassa sarà la disoccupazione. Superficialmente, questa è una dottrina particolare, dal momento che viola la logica della teoria del senso comune. La teoria ci dice che più alto è il saggio salariale, maggiore sarà la disoccupazione, e viceversa. Se ognuno domani andasse dal proprio datore di lavoro ed insisterebbe per farsi raddoppiare o triplicare il salario, molti di noi sarebbero subito senza lavoro. Eppure questo risultato bizzarro è stato accettato come un vangelo dall'establishment economica Keynesiana.

Ormai, dovrebbe essere chiaro che questo dato statistico viola i fatti così come la logica. Nel corso degli anni '50, l'inflazione era solo di circa 1-2% l'anno e la disoccupazione si aggirava intorno al 3 o 4%, mentre in seguito la disoccupazione sarebbe oscillata tra 8 e 11%, e l'inflazione tra il 5 e il 13%. Negli ultimi due o tre decenni, in breve, sia l'inflazione sia la disoccupazione sono aumentate notevolmente e gravemente. Se non altro, abbiamo avuto una curva di Phillips inversa. C'è stato tutt'altro che un compromesso inflazione-disoccupazione.

Ma gli ideologi raramente lasciano il posto ai fatti, anche quando sostengono continuamente di "provare" le proprie teorie coi Fatti. Per salvare il concetto, hanno semplicemente concluso che la curva di Phillips è ancora un compresso tra inflazione-disoccupazione, tranne che la curva si è inspiegabilmente "spostata" verso una nuova serie di presunti compromessi. Su questo tipo di mentalità, ovviamente, nessuno potrebbe mai confutare una teoria.

In realtà, l'inflazione corrente, anche se riduce la disoccupazione nel breve periodo, inducendo i prezzi a scattare in avanti rispetto ai salari (e quindi riducendo i saggi salariali reali), creerà solo più disoccupazione nel lungo periodo. Alla fine, i salari raggiungeranno l'inflazione, e l'inflazione sulla sua scia porta inevitabilmente recessione e disoccupazione. Dopo oltre due decenni di inflazione, stiamo ora vivendo in quel "lungo periodo".


Mito 7: La deflazione -- calo dei prezzi -- è impensabile, e causerebbe una depressione catastrofica.

La memoria della popolazione è breve. Dimentichiamo che, sin dall'inizio della Rivoluzione Industriale a metà del 18° secolo fino all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, i prezzi scesero in generale, anno dopo anno. La produttività in continuo aumento e la produzione di beni generati dal libero mercato, consentirono un calo dei prezzi. Non c'era alcuna depressione, tuttavia, perché i costi calarono insieme ai prezzi di vendita. Di solito, i salari rimanevano costanti, mentre il costo della vita scendeva, in modo che i salari "reali", o lo standard di vita di ciascuno, aumentassero costantemente.

Praticamente l'unica volta in cui i prezzi aumentarono in questi due secoli fu durante i periodi di guerra (Guerra del 1812, Guerra Civile, Prima Guerra Mondiale), quando i governi belligeranti inflazionarono l'offerta di moneta così pesantemente da pagare la guerra pareggiando e superando i continui guadagni della produttività.

Possiamo vedere come funziona il capitalismo di libero mercato, non ostacolato dall'inflazione del governo o della banca centrale, se guardiamo a quanto è successo negli ultimi anni per i prezzi dei computer. Anche un semplice computer soleva costare milioni di dollari. Ora, in un aumento notevole di produttività causata dalla rivoluzione dei microchip, i computer sono in calo di prezzo anche mentre scrivo. Le aziende produttrici di computer hanno successo nonostante il calo dei prezzi perché i loro costi sono scesi, e la produttività è aumentata. In realtà, questi costi e prezzi in diminuzione hanno permesso loro di sfruttare un mercato di massa caratteristico della crescita dinamica del capitalismo di libero mercato. La "deflazione" non ha portato alcun disastro a questo settore.

Lo stesso vale per le altre industrie ad alta crescita, come quella dei calcolatori elettronici, della plastica, dei televisori e dei videoregistratori. La deflazione, lungi dal portare una catastrofe, è il segno distintivo della crescita economica sana e dinamica.


Mito 8: La tassa migliore è una tassa "piatta" sul reddito, proporzionata al reddito a tutti i livelli, senza esenzioni o deduzioni.

Di solito i sostenitori di una tassa piatta sostengono che l'eliminazione di tali esenzioni consentirebbe al governo federale di tagliare il tasso d'imposta in modo sostanziale.

Ma questo punto di vista presume, per dirne una, che le detrazioni presenti dall'imposta sul reddito siano sovvenzioni immorali o "scappatoie" che non dovrebbero esistere per il bene di tutti. Una detrazione o un'esenzione è solo un "scappatoia" se si presume che il governo conserva il 100% del reddito di tutti e permettere che alcuni dei redditi rimangano non tassati costituirebbe un'irritante "scappatoia". Permettere a qualcuno di mantenere un pò del proprio reddito non è né una scappatoia né una sovvenzione. Abbassare le tasse in generale abolendo deduzioni per le cure mediche, per pagamenti degli interessi, o per perdite non assicurate, equivale semplicemente ad abbassare le tasse per una serie di persone (quelle che hanno poco interesse a pagare o spese mediche o perdite non assicurate) a scapito di elevarle a coloro che hanno sostenuto tali spese.

Non vi è inoltre alcuna garanzia né probabilità, una volta che le esenzioni e le deduzioni sono eliminate, che il governo manterrebbe la sua aliquota fiscale al livello più basso. Guardando ai dati dei governi, passati e presenti, ci sono tutte le ragioni per supporre che più del nostro denaro verrebbe preso dal governo con l'aumento dell'aliquota fiscale che tornerebbe (come minimo) al livello storico, con un conseguente e crescente drenaggio dai produttori alla burocrazia.

Si suppone che il sistema fiscale sarebbe analogo a quello di prezzo o reddito sul mercato. Ma i prezzi di mercato non sono proporzionali al reddito. Sarebbe un mondo particolare, per esempio, se i Rockefeller fossero costretti a pagare $1,000 per un pezzo di pane -- e cioè un pagamento proporzionale al loro reddito rispetto all'uomo medio. Ciò significherebbe un mondo in cui è stata imposta l'uguaglianza dei redditi in modo particolarmente bizzarro ed inefficiente. Se una tassa fosse imposta come un prezzo di mercato, sarebbe uguale per ogni "cliente", non proporzionale al reddito di ogni cliente.


Mito 9: Un taglio delle tasse sul reddito aiuterebbe tutti; non solo il contribuente ma anche il governo ne beneficerà, dal momento che le entrate fiscali aumenteranno quando l'aliquota verrà tagliata.

Questa è la cosiddetta "curva di Laffer", prevista dall'economista della California Arthur Laffer. Venne avanzata come un mezzo per permettere ai politici di far quadrare i conti; effettuare tagli fiscali, mantenere la spesa al livello attuale, ed allo stesso tempo pareggiare il bilancio. In questo modo la popolazione avrebbe goduto del suo taglio fiscale, sarebbe stata felice del pareggio di bilancio, ed avrebbe continuato a ricevere lo stesso livello di sussidi da parte del governo.

E' vero che se le aliquote fiscali sono al 99%, e vengono tagliate al 95%, il gettito fiscale salirà. Ma non c'è ragione di presumere simili e semplici connessioni in qualsiasi altro momento. In effetti, questo rapporto funziona molto meglio per un'accisa locale che per una tassa nazionale sul reddito. Qualche anno fa, il governo del Distretto di Columbia decise di procurarsi una parte degli introiti aumentando repentinamente la tassa del Distretto sulla benzina. Ma, poi, gli automobilisti avrebbero potuto semplicemente andare oltre il confine in Virginia e Maryland e fare il pieno ad un prezzo molto più economico. Le entrate fiscali dal carburante di D.C. scesero, e con grande dispiacere e confusione dei burocrati di D.C. dovettero abrogare la tassa.

Ma ciò non è probabile che accada con l'imposta sul reddito. La gente non ha intenzione di smettere di lavorare o di lasciare il paese a causa di un piccolo aumento delle tasse, oppure fare il contrario a causa di un taglio delle tasse.

Ci sono alcuni altri problemi con la curva di Laffer. Non viene mai specificata la quantità di tempo che dovrebbe impiegare l'effetto Laffer per funzionare. Ma ancora più importante: Laffer presuppone che tutto ciò che noi vogliamo è massimizzare le entrate fiscali del governo. Se -- un grosso se -- ci troviamo davvero nella metà superiore della curva di Laffer, tutti noi dovremmo quindi volere che le aliquote fiscali vengano fissate ad un punto "ottimale". Ma perché? Perché dovrebbe essere l'obiettivo di ognuno di noi massimizzare le entrate del governo? Per spingere al massimo, in breve, la quota del prodotto privato che viene dirottata alle attività del governo? Credo che dovremmo essere più interessati a ridurre al minimo le entrate del governo, spingendo le aliquote fiscali molto ma molto al di sotto di qualunque possa essere l'Optimum di Laffer.


Mito 10: Le importazioni da paesi dove la manodopera è a buon mercato causa disoccupazione negli Stati Uniti.

Uno dei tanti problemi con questa dottrina è che ignora questa domanda: perché i salari sono bassi in un paese straniero ed alti negli Stati Uniti? Si inizia con questi salari come dati ultimi, e non ci si pone la domanda del perché siano a quel livello. Fondamentalmente, sono alti negli Stati Uniti perché la produttività del lavoro è alta -- perché qui i lavoratori sono aiutati da una grande quantità di beni strumentali tecnologicamente avanzati. I salari sono bassi in molti paesi stranieri, perché i beni strumentali sono pochi e tecnologicamente primitivi. Senza l'aiuto di capitale, la produttività dei lavoratori è molto più bassa rispetto agli Stati Uniti. I salari in tutti i paesi sono determinati dalla produttività dei lavoratori in quel paese. Quindi, i salari alti negli Stati Uniti non sono una minaccia permanente alla prosperità Americana; sono il risultato di questa prosperità.

Ma perché ci sono alcune industrie negli Stati Uniti che si lamentano ad alta voce e cronicamente per la concorrenza "sleale" di prodotti da paesi a basso salario? Qui, dobbiamo renderci conto che i salari in ogni paese sono interconnessi con ogni settore, occupazione e regione. Tutti i lavoratori competono tra loro, e se i salari nell'industria A sono di gran lunga inferiori a quelli di una qualsiasi altra industria, i lavoratori -- guidati da giovani lavoratori che iniziano la loro carriera -- lascerebbero o si rifiuterebbero di entrare nell'industria A e se ne andrebbero in altre imprese o settori in cui il salario è più alto.

I salari nelle industrie che si lamentano, quindi, sono alti perché sono il risultato dell'offerta di tutti i settori industriali negli Stati Uniti. Se l'industria siderurgica o tessile negli Stati Uniti ha difficoltà a competere con i suoi omologhi all'estero, non è perché le imprese straniere stanno pagando stipendi bassi, ma perché le altre industrie Americane hanno spinto in alto i salari Americani ad un livello così elevato che il siderurgico ed il tessile non possono permettersi di pagare. In breve, ciò che sta realmente accadendo è che il siderurgico, il tessile, e altre tali imprese utilizzano manodopera inefficiente rispetto ad altre industrie Americane. I dazi per sostenere imprese inefficienti o industrie danneggiano tutti, in ogni paese, che non è in quel settore. Danneggiano tutti i consumatori Americani mantenendo alti i prezzi, mantenendo bassa la qualità e la concorrenza, e distorcendo la produzione. Un dazio è pari al dissestamento di una ferrovia o alla distruzione di una compagnia aerea poiché il suo scopo è quello di rendere il trasporto internazionale artificialmente costoso.

I dazi danneggiano anche le altre industrie Americane efficienti vincolando risorse che altrimenti si sposterebbero in usi più efficienti. E, nel lungo periodo, i dazi, come ogni sorta di privilegio monopolistico conferito dal governo, non sono un colpo di fortuna neanche per le aziende protette e sovvenzionate. Infatti, come abbiamo visto nel caso delle ferrovie e delle compagnie aeree, le industrie che godono del monopolio governativo (sia tramite dazi o normative) alla fine diventano così inefficienti che perdono soldi in ogni caso, e possono solo richiedere ulteriori salvataggi, per un riparo privilegiato e continuo contro la libera concorrenza.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


6 commenti:

  1. Ciao, scusa non ho capito il mito 10. Ad esempio se in Cina la mano d'opera viene sottopagata, sfruttata, fatta lavorare in condizioni precarie (sicurezza ecc ecc) le aziende occidentali alla fine ci rimettono. O no? Dove sbaglio? Grazie!

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  2. Ciao buf.

    L'Occidente, in realtà, trae guadagno dalle politiche mercantiliste della Cina, in questo modo ottiene i beni a basso costo.

    Ma a quanto pare i Cinesi si stanno rompendo i coglioni di questa loro situazione e di non potere beneficiare a tutti gli effetti dei loro prodotti. Nonostante le azioni repressive dello stato, nonostante lo stato Cinese sia "bravo" a copiare il modello economico Keynesiano, il boom Cinese non durerà a lungo.

    Come dicevo in un altro post, il capitalismo deve soddisfare ovviamente i clienti, ma un'impresa che vuole prosperare deve anche a soddisfare i propri dipendenti. Capirai, quindi, che lo sfruttamento non è sinonimo di prosperità economica bensì di violazione dei diritti di proprietà del proprio corpo ed è un'azione deplorevole non in sintonia con un'economia di libero mercato. Inoltre, se le imprese Occidentali vanno oltremare, è anche colpa della crescente ostilità che gli stessi governi Occidentali operano sulle imprese locali (tasse + regolamentazione selvaggia).

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  3. Ciao Johnny
    Leggo "Capirai, quindi, che lo sfruttamento non è sinonimo di prosperità economica bensì di violazione dei diritti di proprietà del proprio corpo ed è un'azione deplorevole non in sintonia con un'economia di libero mercato."
    Vero, verissimo, stravero. Ma perché diavolo chi è favorevole al libero mercato non pone mai un accento sufficientemente forte su questo punto nel corso dei vari dibattiti, soprattutto quelli televisivi?
    Perché si lascia spazio agli accentratori statalisti di parlare dello sfruttamento dei lavoratori che avviene in economie che in realtà non sono di libero mercato ma mercantiliste o non si sa cosa altro?
    Perché lasciare loro un argomento che fa presa sul pubblico, lo sfruttamento, e non piuttosto urlare che lo sfruttamento è quanto di più contrario ci sia allo spirito del libero mercato?

    P.S. Poiché il non-sfrittamento del corpo altrui è uno dei proncipi base di una società di libero mercato, chi sfrutta il corpo altrui dovrebbe essere bandito dal mercato. O, comunque, si dovrebbe impedire a chi poi vuole operare in un regime di libero mercato di andare a produrre dove c'è sfruttamento. In altre parole se uno è cittadino di Freedonia e quindi si ispira la libero mercato, non può spostare le sue fabbriche in Cina e poi vendere a Freedonia perché così facendo viola i principi di Freedonia. E un cittadino di Freedonia non dovrebbe mai comprare qualcosa Made in China

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  4. Ciao Anonimo.

    Come dicevo in precedenza le imprese de-localizzano perché "votano coi piedi", ovvero, è un segnale che lanciano ai responsabili della nazioni segnalando loro che stanno stringendo troppo il nodo della cravatta (tasse + regolamentazione). Detto questo, non bisogna fare di tutta l'erba un fascio.

    Lo sfruttamento è quell'azione violenta di un individuo che scavalca la proprietà privatà del corpo di un altro individuo costringendolo a svolgere determinate azioni contro la sua volontà. Quindi, tenendoci bene alla larga dalle generalizzazioni, se io vengo a conoscenza che un'impresa pratica questo tipo di politica (violenza o la minaccia di violneza) all'interno della sua attivà, io utilizzerò il mio "potere" di consumatore astenendomi dal comprare i prodotti di quella determinata impresa.

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  5. Da consumatori, allora, dovremmo smettere di comprare 2made in China" perché lì non esiste azienda che non sfrutti. Il non sfruttamento, in Cina, è l'eccezione, non la regola, e d'altra parte, visto il sistema politico che hanno, non potrebbe essere che così.
    Mi sembra però che tutti noi continuiamo allegramente a comprare dalla Cina.
    Vincenzo

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  6. In realtà, non è proprio un errore comprare quello che proviene dalla Cina. Ogni economia "povera" segue all'incirca lo stesso percorso quando inizia a svilupparsi. Dapprima si inserisce in settori a bassa qualità e dove non sono necessarie grandi competenze, e poi man mano inizia la sua ascesa. Sulla stessa linea crescono i salari, la qualità dei prodotti, ecc. Inoltre credo che senza i prodotti Cinesi la nostra crisi avrebbe già scatenato tensioni più gravi. Chi ha uno stipendio basso e dovrebbe comprare prodotti Italiani invece che Cinesi, come farebbe ad arrivare alla fine del mese? Credo proprio che una porzione dell'inflazione oggi è resa invisibile dai bassi prezzi dei prodotti di Cina ed India, ad esempio.

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