Bibliografia

venerdì 17 dicembre 2010

La filosofia politica. Il problema della pace perpetua


Ho voluto pubblicare questa intervista per due motivi: primo, un'omaggio ad uno dei più grandi filosofi del ventesimo secolo. Secondo, Popper evidenzia molte piccole cose date per scontato che invece risultano essere colossalmente significative dal punto di vista sociale ed economico.
Dalla contrapposizione a Marx alla critica dello storicismo, dalla critica socialista al miglioramento della condizione individuale attraverso l'industrializzazione fino all'analisi della libertà. Una piacevole lettura ed un punto di partenza per piacevoli riflessioni.
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  • Professor Popper, partiamo dalla biologia e dalla teoria dell'evoluzione. Consideriamo l'importanza che questa dottrina ha per l'uomo e, in particolare, per la società. In altri termini: il nostro futuro e quello della società sono davvero "aperti" nello stesso identico modo in cui lo è il mondo fisico?

In realtà, quando parlo di "futuro aperto", ho in mente soprattutto l'uomo e la società, e questa mia tesi intendo rivolgerla soprattutto contro una certa concezione che io chiamo "storicismo". Secondo questa tesi il futuro non sarebbe aperto e noi potremmo effettivamente prevederne il corso. Lo storicismo asserisce infatti che esistono leggi dello sviluppo storico, se conoscessimo le quali potremmo prevedere ciò che accadrà, almeno a grandi linee. Gli storicisti più importanti della nostra epoca sono i marxisti. La teoria marxista sostiene di poter predire il corso della storia: vi sarà infatti uno sviluppo verso una società senza classi, che si dimostrerà meravigliosa; ma questo sviluppo comporta, secondo la dottrina marxista, un passaggio attraverso la dittatura, quella dittatura che Marx definisce, del "proletariato" (che di per sé non è affatto una buona cosa), preceduta a sua volta dalla rivoluzione sociale che, come si sa, ebbe effettivamente luogo in Russia nel 1917, e si supponeva sarebbe avvenuta in tutto il mondo. In tal modo, con lo Stato socialista, ovunque avremmo avuto il paradiso di una società senza classi. Ebbene: questa è una predizione storica fondata sull'analisi marxiana delle tendenze inerenti sin dagli inizi un po' a tutte le società, ma, in particolare, alla società del suo tempo, che egli chiamò "capitalismo" e analizzò nel suo famoso libro intitolato Il capitale. Prendiamo allora i tre volumi de Il capitale, che ho qui con me: il primo volume nella seconda edizione, il secondo e il terzo volume nella prima edizione. Questi volumi provengono dalla biblioteca di mio padre. Egli li aveva studiati con molta attenzione, come in seguito feci io. In quest'opera, Marx, dopo aver analizzato le tendenze evolutive generali della società umana, prese in esame soprattutto quelle inerenti alla società capitalista e su questa base sviluppò le sue predizioni. Il fondamento teorico del materialismo storico viene rintracciato nel determinismo che abbiamo appena discusso. Ciò significa che l'idea basilare di Marx è che noi non siamo liberi.

A dire il vero, per Marx, neppure i capitalisti sono liberi, perché sono presi, al pari di qualsiasi altro individuo, dal meccanismo della società e del suo sviluppo storico. In un certo senso, essi sono costretti ad agire come agiscono. Pertanto, sebbene debbano venir combattuti e distrutti, in realtà non possono venir biasimati perché il loro modo di agire è determinato dalle forze storiche e sociali. Contro siffatta concezione io affermo che il futuro è aperto nel senso che ho già indicato, ossia che in ogni momento vi sono infinite possibilità di sviluppo per l'immediato futuro. Alcune di queste possibilità sono molto remote e si può dire che giochino un ruolo davvero irrilevante; ma altre sono molto reali - e non sono poche!

Gli eventi futuri dipenderanno in parte da fatti accidentali, in parte da quel che di fatto già esiste. Esistono dei limiti oggettivi e soggettivi ai futuri sviluppi: ad esempio non tutti desideriamo avere un'automobile nuova domani. Certe possibilità sono escluse dalle circostanze del tempo presente, altre restano aperte, sebbene molto improbabili, ed altre ancora appaiono invece più probabili.


  • A proposito di fatti accidentali va detto, però, che, secondo gli storicisti, essi avrebbero scarsissimo rilievo, poiché, anche quando si verificano, non influenzano comunque la direzione fondamentale della storia che, nell'insieme, resterebbe fondamentalmente deterministica.

È vero. Ma contro questo determinismo si potrebbe obiettare che gli eventi accidentali sono talvolta complessi e importanti, anche se, naturalmente, il loro peso è maggiore soprattutto nelle società più piccole. Cosa intendo infatti per "eventi accidentali"? Ad esempio, quel che capitò nella guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta, un episodio storico le cui conseguenze avvertiamo ancora oggi, poiché l'esito di quella guerra cambiò il destino della democrazia in Grecia e influì su tutti gli avvenimenti successivi, come la conquista macedone e l'instaurarsi della dittatura, due cose che a loro volta hanno esercitato un influsso sino ai nostri giorni. Ebbene, l'andamento della guerra del Peloponneso risentì certamente dell'accidentale scoppio della peste in Atene. Le truppe spartane avevano invaso l'Attica, isolando e assediando Atene. Durante l'assedio scoppiò la peste, che uccise Pericle, il faro politico ateniese, sicché, da quel momento, la città rimase senza una guida davvero forte. A questo proposito, vorrei ricordare un libro molto interessante: Ratti, pidocchi e storia, che, attraverso la storia del tifo, illustra quale forza tremenda le malattie abbiano sempre avuto sul corso degli avvenimenti.

Secondo l'autore, insomma, ratti e pidocchi con le loro conseguenze sanitarie, nella fattispecie le epidemie di tifo, avrebbero avuto per la storia d'Europa più importanza di tutte le guerre mai combattute - un'idea che trovo certamente plausibile. Ma ci sono altri esempi. Si può pensare al caso dell'assassinio del presidente Kennedy. Non vorrei perdermi in una sterile elencazione di tutti gli scenari storici che implicano elementi accidentali, ma lasciatemene citare almeno un altro analogo: lo scoppio della Prima guerra mondiale. La riuscita dell'assassinio del successore al trono austriaco fu in parte dovuta a un errore dell'autista che guidava la macchina dell'Arciduca Ferdinando: costui, infatti, prese male una curva, fu pertanto costretto a rallentare, anzi a fermare la macchina per un istante, il che certo facilitò l'assassinio - e tutti ben sappiamo quanto lo scoppio della prima guerra mondiale sia stato in qualche modo legato a questi fatti.

Naturalmente, qualcuno potrebbe argomentare che la Prima guerra mondiale sarebbe scoppiata lo stesso, anche se l'assassino non avesse avuto successo. Questo argomento è molto forte, ma non toglie che gli eventi accidentali giochino comunque un ruolo, sicché, in ogni momento, il futuro resta aperto, nel senso che noi possiamo influire sul suo corso.


  • Visto che abbiamo parlato dello scoppio della Prima guerra mondiale, posso menzionare la tesi di alcuni, secondo i quali essa sarebbe stata in parte determinata dagli orari delle ferrovie tedesche.

Non proprio dagli orari delle ferrovie, bensì da quello segreto predisposto per la mobilitazione. La mobilitazione delle truppe tedesche era stata già preparata da tempo e con molta cura tenendo conto anche degli orari ferroviari. Ogni stazione, in caso di mobilitazione, doveva avere un orario ferroviario segreto; così, non appena scattò la mobilitazione generale, esso entrò puntualmente in vigore. Di conseguenza, quando la Serbia accolse l'ultimatum austriaco ed il Kaiser tedesco ritenne che ormai la guerra non fosse più necessaria, il generale Moltke, capo dello Stato Maggiore, gli fece sapere che era troppo tardi per tornare indietro: la mobilitazione era stata ordinata e in ogni stazione i capistazione avevano già messo in funzione l'orario ferroviario segreto. Quindi, era impossibile non solo tornare all'orario di prima, ma anche rivedere in tempo utile quello segreto senza che il nemico venisse automaticamente a conoscenza dei piani segreti di mobilitazione.


  • Dunque, opporsi allo storicismo non significa affatto negare l'esistenza obiettiva delle forze sociali e dei loro meccanismi sovraindividuali. Quale è allora il punto debole del modo di intendere la struttura sociale proposto dagli storicisti?

Lo storicismo assume come date una gran varietà di cose, che, pur essendo sicuramente importanti, andrebbero però analizzate. La questione di fondo sta, a mio avviso, nell'essere consapevoli dell'esistenza di molteplici possibilità aperte. Tra queste figura anche la nostra capacità di influire su quel che avviene, attraverso le nostre speranze, le nostre valutazioni e le nostre scelte. Questa verità è oggi sotto gli occhi di tutti per via del grande esodo dei giovani dalla Germania orientale. Oggi è il 28 novembre 1989 e questo processo si è più o meno concluso; ma vale ugualmente la pena citarlo, perché penso che se ne parlerà anche in futuro. Ora, non si può negare che le speranze e i valori di quelli che hanno deciso di lasciare il loro paese abbiano giocato un ruolo immenso nel produrre il fenomeno collettivo dell'esodo, un ruolo certamente più grande di quello svolto dagli orari ferroviari che è pure stato necessario modificare per far partire tutti questi giovani, per esempio, trasferendoli da Praga alla Germania occidentale. La forza sociale principale di quanto è accaduto va individuata nelle loro speranze e nei loro desideri.

Tuttavia qualcuno potrebbe obiettare che se il governo della Germania Est avesse avuto una conoscenza migliore della situazione che si stava determinando nel paese, avrebbe potuto in qualche modo prevedere cosa sarebbe successo. D'accordo, forse sì: non escludo, infatti, che talvolta si possano effettivamente avanzare delle previsioni; escludo invece che un fatto del genere potesse essere previsto con certezza. Qui sta la grande differenza tra il mio modo d'intendere le cose e quello degli storicisti: anche se certe eventualità (come l'innovazione tecnologica o la scoperta scientifica) sono di fatto imprevedibili, altre invece si potranno anche prevedere; mai però con certezza, semplicemente perché le certezze non esistono. Tra le eventualità prevedibili, un individuo sufficientemente oggettivo e imparziale potrà forse valutare quale sia la più probabile; ma non è affatto detto che quest'ultima si verifichi davvero. Infatti, secondo un ovvio assunto della teoria delle probabilità, anche l'improbabile accade. Si tratta dunque di distinguere tra quel che una teoria storico-sociale può effettivamente prevedere e le concezioni religiose della prevedibilità sostenute da molti storicisti. Ma c'è anche dell'altro.

Quando si predicono certe cose, si finisce con l'alterare la situazione di partenza, perché qualcosa lo si esclude sempre, dando maggior peso a qualcos'altro. Capita pertanto che, mentre talvolta le nostre previsioni possono diversamente facilitare il prodursi dell'effetto previsto, in alte occasioni potranno spingere invece i nostri avversari a sforzarsi d'impedire in tutti i mondi che ciò accada. In ogni predizione sono implicite entrambe le possibilità: così, non è affatto escluso che una previsione non conduca all'effetto opposto rispetto a quello previsto. Per fare alcuni esempi, è del tutto evidente che la predizione marxiana della rivoluzione influenzò Lenin e diede un grande contributo alla rivoluzione in Russia. Ma, naturalmente, è vero anche il contrario, ossia che essa rese più serio lo sforzo di Bismarck volto a cogliere di sorpresa i marxisti tedeschi.

Si può dunque vedere che, se le predizioni giocano effettivamente un ruolo, quest'ultimo può tuttavia esercitarsi in modi diversi e persino opposti alle previsioni originarie. Va poi da sé che, oltre alle previsioni, anche le nostre speranze e i nostri sforzi giocano un ruolo: non a caso, forse per la prima volta nella storia, gli sforzi di tanti giovani hanno avuto un enorme ruolo nei recenti fatti della Germania Est. In un paese non democratico come quello, ciò significa naturalmente la rivoluzione. Ma anche nei paesi democratici le speranze dei giovani possono giocare un grandissimo ruolo, pur senza portare necessariamente ad una rivoluzione, come accadde negli Stati Uniti al tempo della guerra in Vietnam. O come accadde ancora prima, sempre negli Stati Uniti, quando il presidente Kennedy infiammò letteralmente le speranze dei giovani. In quel periodo io mi trovavo là, e mi accorsi che non solo egli era molto popolare fra i giovani, ma esercitava davvero su di loro un'influenza meravigliosamente positiva.


  • Queste riflessioni mi fanno pensare a un caso concreto che esemplifica la contrapposizione esistente tra lo storicismo, diciamo, teorico e i suoi effetti pratici, vale a dire alle dottrine della pianificazione economica. Si può dire, infatti, che anch'esse scaturiscano dalle concezioni storicistiche, perché solo se supponiamo di sapere dove sta andando la società, possiamo predisporre dei piani per indirizzarla verso certi fini, qualunque essi siano.

Sì, è verissimo e di grande interesse. In effetti, il marxismo va oltre l'idea che noi si possa prevedere la storia; piuttosto si suppone in grado di abbreviare e rendere meno dolorose le doglie del parto della storia. Secondo il marxismo le cose si potrebbero sistemare in modo tale da far accadere più facilmente quel che comunque deve accadere. Non è il caso di valutare ora, se questo sia un modo logico di ragionare o meno. Rimane il fatto che questa tesi portò lo storicismo all'idea di pianificazione: ai piani quinquennali dell'Unione Sovietica e ad altre iniziative simili. In realtà, lo storicismo conduce a quella che si potrebbe chiamare pianificazione su larga scala: visto che conosciamo il futuro, pianifichiamolo. Prendiamo un mio vecchio libro: Miseria dello storicismo. La prima conferenza, in cui proposi i lineamenti di questo libro, la tenni nel lontano 1935 in un seminario del professor Hayek alla "London School of Economics". Queste mie idee vennero dapprima pubblicate su una rivista, poi sotto forma di libro, in Italia e quindi in Inghilterra, nel 1957, cioè più di vent'anni dopo la sua definitiva redazione. Esso s'intitola Miseria dello storicismo per allusione a un famoso libro di Marx, Miseria della filosofia.

Così, siccome Marx era uno storicista, volli rispondergli mostrando la "miseria dello storicismo". In quell'opera avanzai grosso modo la stessa critica che ho appena delineato. Inoltre, nei due volumi de La società aperta e suoi nemici, un lavoro apparso un po' prima, ma in realtà scritto dopo Miseria dello storicismo, ho cercato di spiegare come la politica sia in un certo senso simile all'ingegneria sociale, poiché essa cerca di raggiungere certi fini mettendo in opera determinati mezzi. Ciò nonostante, la politica non potrà mai essere quel tipo di pianificazione del futuro su scala globale che gli storicisti hanno in mente; essa dovrà contentarsi piuttosto di essere una forma di ingegneria che ho chiamato "a spizzico": un termine che provocatoriamente proposi a mo' di sfida, per sottolineare la relativa modestia di ciò che possiamo fare nell'ingegneria sociale. Quest'espressione è stata criticata moltissimo e moltissimo se ne è discusso; ma le parole non contano. Ciò che conta, in questa idea, è che soltanto se facciamo certe cose cercando di soddisfare un certo bisogno sociale per mezzo di una determinata misura politica, solo allora si potrà constatare se, per caso, le nostre misure non portino ad un risultato di fatto opposto a quel che intendevamo conseguire. Molto spesso, infatti, i nostri modi di agire nella società producono esattamente il contrario di ciò che volevamo - come tra poco illustrerò con un esempio. Di solito il totalitarismo è l'approdo delle politiche che ritengono di avere pronta una risposta ad ogni possibile domanda.

Per questa ragione, andrebbero fatti unicamente dei tentativi modesti, le conseguenze dei quali possano essere controllate e sorvegliate a sufficienza, così da ricavarne la ragionevole sicurezza che esse, almeno approssimativamente, corrispondano agli obiettivi di partenza. Ma sia chiaro: tentativo modesto non significa necessariamente piccolo; vuol dire però che non dobbiamo mai farci catturare da una ideologia totalizzante, ingurgitandola, mettendoci al suo servizio e costringendo la gente ad accettarla a sua volta, fino a diventare completamente incapaci di liberarcene. Se, invece, vogliamo fare riforme anche importanti, come quella del parlamento, o dei tribunali, o delle istituzioni finanziarie, sarà opportuno ricorrere all'ingegneria "a spizzico", il che significa non farle tutte insieme, perché altrimenti non potremmo vedere ciò che effettivamente producono, e si confonderebbero le cause con gli effetti. Ciò non vuol dire che io sia contrario alla passione che i riformatori hanno per le riforme; piuttosto sono contrario al sogno di onnipotenza di alcuni riformatori, convinti di poter davvero cambiare la società, fino a che tutto non sia meraviglioso. È un tipo di passione che considero molto pericolosa e seriamente irrealistica: non a caso, quei riformatori che hanno cercato di realizzare il paradiso in terra, in realtà hanno sempre costruito duplicati dell'inferno, come quello da cui oggi i giovani tedesco-orientali cercano di scappare.


  • Nella sua insistenza sull'ingegneria sociale "a spizzico" c'è un altro aspetto che vorrei porre meglio in evidenza: l'"utilitarismo negativo", che viene brevemente presentato in Miseria dello storicismo. Cosa significa esattamente quest'espressione: forse che dovremmo soprattutto individuare e correggere le cose sbagliate?

Esattamente! Per dirla in modo molto semplice, una scarpa che ci fa male andrebbe riparata soltanto dove ci va troppo stretta: per prima cosa bisognerebbe scoprire dov'è che duole, poi cercare di allargarla proprio e solo lì. Non è una buona cosa, insomma, ogni qualvolta una scarpa ci dà fastidio, prenderne subito una nuova, perché questa potrebbe farci più male della vecchia. Se invece esaminiamo a fondo la vecchia e scopriamo dov'è che non va, potremo cercare di ripararla con successo, disponendo di dati chiari e precisi sul problema da risolvere. Infatti, quanto più il problema sarà definito, tanto meglio potremo controllare se il nostro intervento è valso allo scopo, cioè se siamo riusciti a fare una scarpa davvero migliore. Questa è l'idea fondamentale, questo è l'atteggiamento di modestia che io avevo in mente.

La cosa più facile è sempre identificare i mali, visto che nessuno sa effettivamente quale sia il bene. Quindi, anziché cercare d'instaurare il bene perfetto, a rischio di rendere l'umanità del tutto infelice, faremmo meglio a combattere i mali che abbiamo sotto gli occhi. Del resto, l'utilitarismo, come si sa, si basa sull'idea di conseguire la massima felicità per il maggior numero di persone possibile; ebbene: io ritengo, ed ho sempre sostenuto, che, a tal fine, si debbano in primo luogo eliminare le disgrazie più grandi, poi quelle un po' meno grandi, e così via. Questo è esattamente il contrario dell'utopismo, ossia dell'aspirazione a costruire il paradiso in Terra. In realtà, molto è già stato fatto in questa direzione utilitaristica e antiutopica, solo che la gente non se ne rende conto, perché tende a prendere qualsiasi miglioramento sociale per garantito - il che poi finisce per ostacolare il miglioramento sociale stesso. Così, mentre il livello medio di vita s'innalza, la gente pensa solo a come poterlo innalzare ulteriormente, dimenticandosi di tutti i benefici già ottenuti nel recente passato.

Ad esempio, ai tempi della mia infanzia, c'era davvero la società che i marxisti chiamano "borghese", che si basava effettivamente su un lavoro molto simile a quello schiavile. Non esistevano le lavatrici, ma c'erano le lavandaie; non avevamo gli aspirapolvere, ma al posto loro c'erano le domestiche che dovevano letteralmente aspirare la polvere. A quei tempi, se qualcuno avesse detto: "Ma perché non mettiamo le macchine al posto delle lavandaie e delle cameriere?", non pochi gli avrebbero risposto: "E questa povera gente poi che farà? Morirà di fame!". In realtà, anche per costoro l'introduzione delle macchine significò un incremento di libertà: ebbero altri posti nelle fabbriche, che in sostanza erano spesso migliori, dove assunsero varie e crescenti responsabilità. L'introduzione degli elettrodomestici equivalse insomma alla conquista della libertà per questi ex-servi. Oggi quel genere di schiavitù non esiste più: le cameriere d'albergo e quanti altri svolgono ancora, nelle case o altrove, questo tipo di lavoro, hanno uno status del tutto diverso; gli addetti ai servizi hanno conseguito una completa libertà, a paragone di quella assai ridotta che avevano i loro predecessori, costretti a lavorare da schiavi presso le famiglie borghesi.

Mi rendo conto che suona molto marxista dire che l'invenzione delle macchine portò al cambiamento della società. Ma c'è una differenza tra il mio modo di vedere la cosa e il suo. In effetti, Marx fu tra i primi a osservare come, ai suoi tempi, l'invenzione del motore a vapore avesse portato allo sviluppo delle grandi industrie manifatturiere. Ma qualcosa gli sfuggì: egli pensava, infatti, che l'evoluzione avrebbe portato a fabbriche e a motori sempre più grandi. L'idea che un giorno la gente avrebbe usato quotidianamente piccoli motori di ogni tipo, come quello del mio rasoio elettrico, esulava completamente dai limiti della sua immaginazione. Eppure ciò ha comportato molteplici piccole rivoluzioni nella struttura del lavoro: così, tornando al mio esempio, per farmi la barba io non ho più bisogno di andare dal barbiere e ciò ha radicalmente cambiato la situazione dei barbieri. Marx invece s'immaginò soltanto motori a vapore più grandi e industrie sempre più grandi, fino a quando le poche industrie rimaste si sarebbero, per così dire, identificate con lo Stato. Questa fu la sua intuizione: lo Stato come un'immensa industria, dove i lavoratori si sarebbero autogovernati: ecco, per sommi capi, in cosa consiste l'utopia marxiana. Che l'evoluzione tecnologica non sarebbe stata così semplice, che si sarebbe mossa ben di più verso la libertà, Marx non lo previde affatto. Io penso, invece, che a suscitare una autentica rivoluzione sociale, di cui la maggior parte della gente è inconsapevole, siano stati l'aspirapolvere e, soprattutto, la lavatrice. Questa rivoluzione ha toccato davvero tutti: uomini e - soprattutto - donne.

Tutti pertanto dovrebbero sapere di quanta libertà siano debitori all'invenzione di queste macchine, libertà che, in alcuni casi, non esisteva affatto. Prima, ad esempio, ho parlato della famiglia borghese, menzionando i servizi almeno quindicinali delle lavandaie e quelli di una o due cameriere utilizzate a servizio completo per tutto l'anno. Ma non ho menzionato il cuoco - o la cuoca -, anch'essi a servizio completo, che dovevano portare la legna o il carbone su dalla legnaia fino alla cucina: un duro lavoro che andava fatto ben prima di poter cominciare a cucinare. Oggi, tutti possono cavarsela in cucina: in un minuto il cibo è pronto per andare in cottura. Certe cose dovrebbero essere veramente apprezzate.

  • Alcuni però le considerano piuttosto espressione di valori borghesi, sostanzialmente superflui. Per criticare l'esodo dalla Germania Orientale, si è detto e scritto che tutta quella gente non cerca davvero la libertà, bensì beni personali non necessari. I giovani in fuga vengono descritti addirittura come ottusi e furfanti, che lasciano la patria che li ha educati e dato loro tutti i mezzi necessari per vivere, attirati dal possesso di maggiori beni personali non necessari.

Capisco. Sennonché, proprio i beni di consumo personali non necessari sono molto spesso quelli che ci rendono liberi. Sto sempre pensando a beni come le lavatrici, i bollitori elettrici per il tè, le caldaie elettriche e cose del genere. Tutte queste cose danno libertà, molto spesso una libertà che prima nessuno conosceva. Certamente, cose veramente superflue potranno anche essercene, non lo nego; ma sono questi i beni personali che i giovani associano all'idea della libertà. In sostanza, essi si sentono davvero non liberi, perché una essenziale povertà personale significa non libertà, mancanza di libertà. Per questa via giungiamo alla questione dell'origine dei valori: nonostante quel che alcuni sostengono, in realtà il comunismo aveva promesso la piena disponibilità di qualsiasi bene personale, anche i non necessari: ognuno avrebbe avuto secondo i suoi bisogni e così sarebbe stato libero. Questa era la promessa del comunismo: piena libertà e piena disponibilità di beni per ognuno.

Ma la questione dei valori si ripresenta anche nell'opinione che attribuisce agli occidentali, che aiutano i profughi dell'Est, l'insensata speranza di veder collassare l'unico sistema in grado di evitare povertà e miseria alla stragrande maggioranza dei cittadini dell'Europa orientale. Sorvoliamo pure sull'evidente insensatezza di questa tesi: la gente dell'Est non è sollecitata ad emigrare; emigra perché spera in un mondo migliore. Chiediamo, invece, per tornare al problema dei valori: migliore in che senso? Qualcuno potrebbe far osservare, infatti, che i valori borghesi, sebbene comportino maggiore libertà personale, certamente non portano sempre alla felicità. Essi, dunque, non dovrebbero essere accettati in modo acritico. Per tutta risposta, vorrei ricordare che l'"apertura" del futuro va intesa, nel suo senso più ampio, anche come libertà di scegliersi quei valori ritenuti importanti per sé e per la propria vita. La valutazione è caratteristica della vita, sin dalle sue prime origini. Da allora gli organismi hanno sempre problemi davanti, problemi di sopravvivenza. Ciò comporta che, tra l'altro, ogni organismo si metta alla ricerca di soluzioni, come a dire che tutti i viventi ricercano qualcosa di meglio della loro situazione del momento.

Se un organismo unicellulare fugge, diciamo, da un luogo molto caldo e si dirige verso un posto più fresco, è perché sta cercando di migliorare la sua situazione vitale. Ma l'idea di miglioramento, in realtà, richiama implicitamente quella di valore. Se parliamo di miglioramento, è perché riteniamo che qualcosa sia meglio di qualcos'altro, che è peggio, e queste sono, per l'appunto, valutazioni. Si può dunque dire che la vita stessa, fin dalla sua prima apparizione, abbia creato i valori in questo mondo, che, prima della vita, non ne aveva affatto. Problemi e valori appaiono nel nostro universo soltanto attraverso la vita, e assumono una importanza immensa per tutti gli esseri viventi. Noi tutti siamo solutori di problemi: istante per istante ci troviamo di fronte a situazioni problematiche da risolvere. Ma risolverle significa produrre valori, significa compiere delle valutazioni.

Così, sin dagli inizi, questi valori si sono evoluti insieme con la vita. Tra questi, uno dei più grandi, che tutti gli esseri viventi hanno caro, è la libertà: la libertà di azione, la libertà di migliorare la propria situazione, di risolvere i propri problemi, come richiede l'evoluzione della vita e la nostra immensa esperienza testimonia. La libertà è dunque il valore primo e più generale. Poi, allorché l'umanità ebbe sviluppato il linguaggio e fu in grado di parlare, l'altro valore importante divenne - per così dire - la verità. Il futuro è aperto non solo perché non possiamo predire quel che accadrà, ma anche perché gli avvenimenti saranno influenzati da noi e dai nostri valori. I valori sono nostre invenzioni - e spesso grandi invenzioni! Basti pensare, da una parte, a quelli raggiunti in campo musicale dai grandi compositori, e, dall'altra, agli sforzi dei grandi scienziati impegnati a risolvere i problemi in modo astratto ed a migliorare la nostra conoscenza della verità. Ma non sono invenzioni arbitrarie.


  • Anch’io sono propenso a credere che la libertà sia il più importante di tutti i valori, perché senza di essa è impossibile conseguire qualsiasi altro valore. Tuttavia, è estremamente importante rendersi conto che, com'è ovvio, anche della libertà si possa abusare.

Infatti, il problema fondamentale della vita sociale mi sembra proprio quello di far sì che ognuno goda della propria libertà compatibilmente con la libertà degli altri. Questa formulazione è kantiana. Fu Kant a sostenere che la strutturazione della vita sociale dovrebbe essere finalizzata al godimento della massima libertà individuale possibile, ma con una importantissima e significativa restrizione: che la libertà del singolo individuo non ostacoli o riduca mai la libertà degli altri. In altri termini, la libertà dovrebbe essere più o meno uguale per tutti. Naturalmente, nella pratica sociale è impossibile che un simile ideale venga completamente conseguito, tuttavia esso resta un fine ideale a cui mirare. È in questa maniera che Kant pone il problema della libertà.

Qui siamo nuovamente di fronte a un approccio di tipo negativo: qualche restrizione della libertà deve pur esserci, perché di essa si può fare cattivo uso. Questa restrizione negativa ha una portata generale di fondamentale importanza, altrimenti dovremmo ammettere che alcuni individui, in nome della propria libertà, uccidano altre persone, oppure che, come disse Marx, abbiano solo la libertà di dormire sulle panchine dei giardini pubblici - anche se questo significa sottovalutare eccessivamente la libertà che, ai tempi di Marx, era già stata conseguita: tutto sommato, anche la libertà di dormire sulle panchine dei giardini pubblici è meglio della prigione per vagabondaggio. Qui sta, a parer mio, il problema centrale dell'intera vita sociale: la convivenza pacifica implica una certa restrizione della libertà di ciascuno, perché tutti possano godere del massimo grado di libertà concepibile nella convivenza sociale. Questo è il fine a cui tutti aspiriamo.

Ovviamente, per riuscire davvero a conseguirlo, oltre alla pace interna, che comunque viene sempre al primo posto, anche la pace esterna avrà un'immensa importanza. Infatti, solo se avremo conquistato la pace tra le nazioni, potremo liberarci del problema militare, della mancanza di libertà determinata dalla crescita degli armamenti. Finché i militari approntano piani di difesa, niente di male. Ma ci sono militari che hanno mire di potere, sicché non solo ci impongono più tasse - limitando la nostra libertà economica -, ma incrementano sempre di più la paura nella gente, introducendo ogni sorta di armi temibilissime e segrete. La paura scatena il senso di insicurezza, che a sua volta conduce a crescenti limitazioni delle libertà. Kant era ben consapevole che se la sua idea di libertà fosse stata abbracciata da tutti e avesse vinto, ciò avrebbe significato la pace sulla terra. Ecco perché, tra le altre cose, scrisse un libro sulla pace perpetua.


(*). fonte originale: LINK


2 commenti:

  1. Nota
    C'è una parola mancante nella frase: In realtà, anche per costoro l'introduzione delle significò un incremento di libertà: ebbero altri posti nelle fabbriche, che in sostanza erano spesso migliori, dove assunsero varie e crescenti responsabilità.

    Congratulazioni per il materiale che pubblicate.

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  2. Ciao Gian Piero. Prima di tutto è mio dovere ringraziarti per il tuo sito, il materiale presente in esso è davvero inestimabile. In secondo luogo, il tuo supporto è ben accetto e sinonimo di gaudio per me. Grazie per la nota, ho subito rimediato alla sbavatura. A presto.

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