di Murray N. Rothbard
Ciò che lo Stato teme
Ciò che lo Stato teme più di tutto, naturalmente, è ogni minaccia alle fondamenta del suo potere e della sua esistenza. La morte di uno Stato può avvenire in due modi principali:
- attraverso la conquista da parte di un altro Stato, o
- attraverso il rovesciamento rivoluzionario da parte dei propri sudditi – in breve, con la guerra o la rivoluzione.
Guerra e rivoluzione, in quanto minacce fondamentali, suscitano invariabilmente nei governanti dello Stato i loro massimi sforzi e la loro massima propaganda tra la gente. Come affermato sopra, ogni modo deve sempre essere usato per mobilitare il popolo ad accorrere in difesa dello Stato nella convinzione che stia difendendo se stesso. L’inganno di quest’idea diventa evidente quando la coscrizione è esercitata contro coloro che rifiutano di “difendere” se stessi e sono, quindi, costretti ad associarsi alla banda militare dello Stato: inutile aggiungere che nessuna “difesa” è permessa loro contro questo atto del “proprio” Stato.
In guerra il potere dello Stato è spinto al suo estremo, e, sotto gli slogan della “difesa” e della “emergenza”, esso può imporre una tirannia sul pubblico tale che in tempo di pace susciterebbe resistenza aperta. La guerra fornisce così molti benefici allo Stato, e in effetti ogni guerra moderna ha lasciato ai popoli coinvolti un’eredità permanente di accresciuti oneri statali sulla società. La guerra, inoltre, fornisce allo Stato opportunità allettanti di conquista di territori sui quali poter esercitare il suo monopolio della forza. Randolph Bourne era certamente nel giusto quando scrisse che «la guerra è la salute dello Stato», ma per ogni Stato particolare una guerra può significare sia salute, sia grave danno[1].
Possiamo testare l’ipotesi che lo Stato è maggiormente interessato a proteggere se stesso piuttosto che i suoi sudditi chiedendo: quale categoria di crimini persegue e punisce con maggior intensità lo Stato – quelli contro i privati cittadini o quelli contro se stesso? I crimini più gravi nel lessico dello Stato sono quasi invariabilmente non l’invasione della persona o della proprietà private, ma pericoli al proprio appagamento, come il tradimento, la diserzione di un soldato nelle file nemiche, la mancata registrazione alla leva, la sovversione e la cospirazione sovversiva, l’assassinio di governanti e crimini economici contro lo Stato come la falsificazione della moneta o l’evasione dell’imposta sul reddito. Oppure paragoniamo il grado di zelo messo nel perseguire l’uomo che assale un poliziotto con l’attenzione che lo Stato pone nell’aggressione di un comune cittadino. Tuttavia, è curioso come la priorità apertamente assegnata dallo Stato alla propria difesa contro il pubblico colpisca poche persone come incoerente con la sua raison d’être[2].
In quale relazione stanno gli Stati l'uno con l'altro
Dal momento che la superficie della Terra è divisa tra diversi Stati, le relazioni interstatali devono occupare molta parte del tempo e dell’energia dello Stato. La tendenza naturale di uno Stato è di espandere il suo potere, e verso l’esterno tale espansione avviene come conquista di territorio. A meno che un territorio sia privo di Stato o disabitato, ogni espansione di questo tipo comporta un intrinseco conflitto di interesse tra un gruppo di governanti e un altro. Solo un gruppo di governanti può ottenere un monopolio della coercizione su un dato territorio in un dato momento: il completo potere su un territorio da parte dello Stato X può essere ottenuto solamente con l’espulsione dello Stato Y. La guerra, ancorché rischiosa, sarà una tendenza sempre presente negli Stati, interrotta da periodi di pace e da alleanze e coalizioni mutevoli tra Stati.
Abbiamo visto che il tentativo “interno” o “domestico” di limitare lo Stato, dal diciassettesimo al diciannovesimo secolo, ha raggiunto la sua forma più notevole nel costituzionalismo. La sua controparte “esterna”, o negli “affari esteri”, è stata lo sviluppo del “diritto internazionale”, specialmente forme quali le “leggi di guerra” e i “diritti dei neutrali”[3]. Parti del diritto internazionale erano in origine puramente private e scaturivano dai bisogni di mercanti e uomini d’affari di proteggere ovunque la loro proprietà e di giudicare le controversie. Esempi sono la legge della navigazione e la legge dei mercanti. Ma anche le regole governative emersero volontariamente e non furono imposte da nessun super-Stato internazionale. L’oggetto delle “leggi di guerra” era di limitare la distruzione interstatale all’apparato dello Stato stesso, con ciò preservando i “civili” innocenti dai massacri e dalle devastazioni della guerra. L’oggetto dello sviluppo dei diritti dei neutrali era di preservare il commercio internazionale privato, anche con paesi “nemici”, dalla confisca di una delle parti belligeranti. Lo scopo principale, quindi, era di limitare l’estensione di ogni guerra e particolarmente di limitare il suo impatto distruttivo sui privati cittadini dei paesi neutrali e anche di quelli belligeranti.
Il giurista F.J.P. Veale descrive in modo delizioso questo “stato di guerra civilizzato”, quale fiorì brevemente nell’Italia del quindicesimo secolo:
"I ricchi borghesi e mercanti dell’Italia medievale erano troppo occupati a far soldi e a godersi la vita per addossarsi le sofferenze e i pericoli del mestiere di soldato. Così adottarono la pratica di assoldare mercenari per combattere per loro, ed essendo persone parsimoniose ed efficienti, congedavano i mercenari non appena i loro servigi non erano più richiesti. Le guerre erano, quindi, combattute da eserciti assoldati per ogni campagna […] Per la prima volta fare il soldato divenne una professione ragionevole e comparativamente innocua. I generali di quell’epoca manovravano l’uno contro l’altro, spesso con consumata abilità, ma quando uno aveva preso il sopravvento, il suo avversario generalmente o si ritirava o si arrendeva. Era regola riconosciuta che una città potesse essere saccheggiata solo se opponeva resistenza: l’immunità poteva sempre essere comprata pagando un riscatto […] Come conseguenza naturale, nessuna città resisteva mai, essendo ovvio che un governo troppo debole per difendere i suoi cittadini aveva perso la loro obbedienza. I civili avevano poco da temere dai pericoli della guerra che erano cura solo di soldati di professione[4]".
La quasi assoluta separazione dei civili dalle guerre dello Stato nell’Europa del diciottesimo secolo è messa in rilievo da Nef:
"Persino le comunicazioni postali non erano ridotte con successo a lungo in tempo di guerra. Le lettere circolavano senza censura, con una libertà che stupisce la mente del ventesimo secolo […]. I sudditi di due nazioni belligeranti si parlavano se si incontravano, e se non potevano incontrarsi, corrispondevano, non come nemici ma come amici. Non esisteva affatto la nozione moderna che […] i sudditi di qualunque paese nemico fossero in parte responsabili per gli atti di guerra dei loro governanti. Né i governanti in guerra avevano alcuna ferma disposizione a interrompere le comunicazioni con i sudditi del nemico. L’antico costume delle investigazioni inquisitorie sulle pratiche e le credenze religiose andava via via scomparendo, e nessun tipo paragonabile di inquisizione fu mai contemplato per quanto riguarda le comunicazioni di tipo politico o economico. I passaporti erano creati in origine come salvacondotto in tempo di guerra. Durante la maggior parte del diciottesimo secolo accadde raramente agli Europei di rinunciare ai loro viaggi in un paese straniero con il quale il proprio stava combattendo[5]".
E dato che il commercio veniva riconosciuto sempre più come benefico per entrambe le parti, le guerre del diciottesimo secolo erano controbilanciate anche da un considerevole “commercio con il nemico[6]".
Fino a che punto in questo secolo gli Stati abbiano trasceso le regole dello stato di guerra civilizzato non ha qui bisogno di essere illustrato. Nell’era moderna della guerra totale, combinata con la tecnologia della distruzione totale, la stessa idea di limitare la guerra agli apparati dello Stato sembra anche più bizzarra e obsoleta della originaria Costituzione degli Stati Uniti.
Quando gli Stati non sono in guerra, spesso sono necessari accordi per mantenere le frizioni al minimo. Una dottrina che ha curiosamente guadagnato vasta accettazione è la cosiddetta “sacralità dei trattati”. Questo concetto è considerato come la controparte della “sacralità dei contratti”. Ma un trattato e un contratto genuino non hanno niente in comune. Un contratto trasferisce, in modo preciso, titoli di proprietà privata. Dal momento che un governo non è “proprietario”, in nessun giusto senso, del suo territorio, ogni accordo che esso conclude non conferisce titoli di proprietà. Se, per esempio, il signor Jones vende o dà la sua terra al signor Smith, l’erede di Jones non può legittimamente piombare sull’erede di Smith e pretendere a buon diritto la terra come sua. Il titolo di proprietà è già stato trasferito. Il contratto del vecchio Jones è automaticamente vincolante per il giovane Jones, perché il primo ha già trasferito la proprietà; il giovane Jones, quindi, non ha titolo alla proprietà. Il giovane Jones può solo pretendere ciò che ha ereditato dal vecchio Jones, e il vecchio Jones può lasciare in eredità la proprietà che ancora possiede. Ma se, ad una certa data, il governo, per esempio, della Ruritania è costretto o anche indotto con la corruzione dal governo della Waldavia a rinunciare a parte del suo territorio, è assurdo pretendere che i governi o gli abitanti dei due paesi siano esclusi per sempre da una pretesa di riunificazione della Ruritania sulla base della sacralità di un
trattato. Né il popolo, né la terra della Ruritania nordoccidentale sono di proprietà di alcuno dei due governi. Come corollario, un governo non può certamente vincolare, con la mano morta del passato, un successivo governo attraverso un trattato. Allo stesso modo, un governo rivoluzionario che rovesciasse il re di Ruritania
non potrebbe affatto esser chiamato a render conto delle azioni o dei debiti del re, poiché un governo non è, come un bambino, un vero erede della proprietà del suo predecessore.
La storia come gara tra potere statale e potere sociale
Proprio come le due fondamentali interrelazioni, reciprocamente escludentisi, tra gli uomini sono la cooperazione pacifica e lo sfruttamento coercitivo, la produzione e la spoliazione, così la storia dell’umanità,particolarmente la sua storia economica, può esser considerata come una contesa tra questi due principî. Da una parte, c’è la produttività creativa, lo scambio e la cooperazione pacifici; dall’altro, il comando coercitivo e la spoliazione a danno di quelle relazioni sociali. Albert Jay Nock ha definito felicemente queste forze contendenti: “potere sociale” e “potere statale”[7]. Il potere sociale è il potere dell’uomo sulla natura, la sua trasformazione cooperativa delle risorse naturali e la sua comprensione delle leggi della natura, per il beneficio di tutti gli individui partecipanti. Il potere sociale consiste nel potere sulla natura, nei livelli di vita raggiunti dagli uomini nello scambio reciproco. Il potere statale, come abbiamo visto, è la confisca coercitiva e parassitaria di questa produzione – il prosciugamento dei frutti della società a beneficio dei governanti non produttivi (in realtà, anti-produttivi). Mentre il potere sociale è sulla natura, il potere statale è potere sull’uomo. Attraverso la storia, le forze produttive e creative dell’uomo hanno più volte dischiuso nuovi modi di trasformare la natura a beneficio dell’uomo. Sono stati i tempi in cui il potere sociale ha sopravanzato il potere statale e in cui il grado di invasione dello Stato nella società è considerevolmente diminuito. Ma sempre, dopo un lasso di tempo più o meno lungo, lo Stato si è spostato verso queste nuove aree, paralizzando e confiscando il potere sociale una volta di più[8]. Se i secoli dal diciassettesimo al diciannovesimo furono, in molti paesi occidentali, tempi di accelerazione del potere sociale e di conseguente espansione della libertà, della pace e del benessere materiale, il ventesimo secolo è stato principalmente l’epoca in cui il potere statale ha avuto la sua riscossa – con una conseguente regressione alla schiavitù, alla guerra e alla distruzione[9].
In questo secolo, la razza umana fronteggia, ancora una volta, il regno virulento dello Stato – dello Stato ora armato con i frutti dei poteri creativi dell’uomo, confiscati e pervertiti ai propri scopi. Gli ultimi secoli sono stati tempi in cui gli uomini hanno cercato di porre limiti costituzionali e d’altro tipo allo Stato, solo per scoprire che tali limiti, come tutti gli altri tentativi, hanno fallito. Di tutte le numerose forme che i governi hanno preso nel corso dei secoli, di tutti i concetti e le istituzioni che sono stati messi alla prova, nessuno è riuscito a tenere a freno lo Stato. Evidentemente, il problema dello Stato è lontano come non mai dalla soluzione. Forse nuovi sentieri di ricerca devono essere esplorati se la soluzione finale e coronata da successo della questione dello Stato ha mai da esser raggiunta[10].
(1). Link alla Prima Parte
(2). Link alla Seconda Parte
(3). Fonte originale articolo
(4). Fonte aggiuntiva
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Note
[1] Abbiamo visto come sia essenziale per lo Stato il sostegno degli intellettuali, e ciò include il sostegno contro le loro due acute minacce. Così, sul ruolo degli intellettuali americani nell’ingresso dell’America nella Prima Guerra Mondiale, cfr. Randolph Bourne, The War and the Intellectuals [1917], in The History of a Literary Radical and Other Papers, New York, S.A. Russell, 1956, pp. 205-222 [ora in Bourne, The Radical Will. Selected Writings 1911-1918, Edited and with an Introduction by Olaf Hansen, Berkeley, University of California Press, 1992, pp. 307-318]. Come afferma Bourne, uno stratagemma comune usato dagli intellettuali per guadagnare sostegno alle azioni dello Stato è di incanalare ogni discussione entro i limiti della politica basilare dello Stato e di scoraggiare ogni critica fondamentale o totale a questa struttura basilare. [Per la frase di Bourne citata nel testo, cfr. The State (1918), in The Radical Will cit., pp. 355-395; trad. it. La guerra è la salute dello Stato, in questo volume.]
[2] Così si esprime Mencken nel suo stile inimitabile:
«Questa banda (“gli sfruttatori che costituiscono il governo”) è quasi immune da punizioni. Le sue peggiori estorsioni, anche quando sono dirette senza riguardo al profitto privato, non comportano pene certe sotto le nostre leggi. Dagli inizi della Repubblica, meno di poche decine dei suoi membri sono stati sottoposti a impeachment, e solo pochi oscuri tirapiedi sono mai stati messi in prigione. Il numero di persone che stanno ad Atlanta e Leavenworth per essersi rivoltate contro le estorsioni del governo è sempre dieci volte il numero dei funzionari governativi condannati per aver oppresso i contribuenti per il proprio guadagno». Mencken, A Mencken Chrestomathy cit., pp. 147-148 [Atlanta e Leavenworth sono penitenziari federali]. Per una descrizione vivida e divertente della mancanza di protezione dell’individuo contro le incursioni nella sua libertà da parte dei suoi “protettori”, cfr. H.L. Mencken, The Nature of Liberty, in Prejudices: A Selection, New York, Vintage Books, 1958, pp. 138-143.
[3] Questo va distinto dal diritto internazionale moderno, con il suo accento sulla massimizzazione della misura della guerra per mezzo di concetti quali la “sicurezza collettiva”.
[4] F.J.P. Veale, Advance to Barbarism, Appleton, C.C. Nelson, 1953, p. 63. Allo stesso modo, Nef scrive della guerra di Don Carlos intrapresa in Italia da Francia, Spagna e Sardegna contro l’Austria nel diciottesimo secolo:
«all’assedio di Milano da parte degli alleati e parecchie settimane dopo a Parma [É] gli eserciti rivali si scontrarono in una feroce battaglia fuori dalla città. In nessun posto le simpatie degli abitanti erano mosse verso una parte o l’altra. L’unica loro paura era che le truppe dell’uno o dell’altro esercito potessero entrare dentro le mura per darsi al saccheggio. La paura si rivelò infondata. A Parma i cittadini accorsero sulle mura della città per guardare la battaglia nella pianura all’esterno». John U. Nef, War and Human Progess, Cambridge, Harvard University Press, 1950, p. 158. Cfr. anche HoffmanCan We Limit the War?, New York, Frederick A. Stoke, 1934. Nickerson,
[5] Nef, War and Human Progress cit., p. 162.
[6] Ivi, p. 161. Sull’appoggio al commercio con il nemico da parte di leader della Rivoluzione Americana, cfr. Joseph Dorfman, The Economic Mind in American Civilization, New York, Viking Press, 1946, vol. 1, pp. 210–211.
[7] Sui concetti di potere statale e potere sociale, cfr. Albert J. Nock, Our Enemy the StateMemoirs of a Superfluous Man, New York, Harpers, 1943, e Frank Chodorov, The Rise and Fall of Society, New York, Devin-Adair, 1959. [1935], Caldwell, Idaho, Caxton Printers, 1946; trad. it. Il nostro Nemico, lo Stato, Macerata, Liberilibri, 1994. Cfr. anche Nock,
[8] Nel flusso di espansione e contrazione, lo Stato si assicura sempre di impossessarsi e conservare certi “posti di comando” cruciali dell’economia e della società. Tra questi posti di comando ci sono il monopolio della violenza, il monopolio del potere giudiziario finale, i canali di comunicazione e di trasporto (le poste, le strade, i fiumi, le rotte aeree), le acque irrigue nel dispotismo orientale, e l’educazione – per modellare le opinioni dei suoi futuri cittadini. Nell’economia moderna, la moneta è il posto di comando cruciale.
[9] Questa riscossa parassitaria è stata pressoché apertamente annunciata da Karl Marx, il quale riconobbe che il socialismo avrebbe dovuto essere instaurato con la confisca del capitale precedentemente accumulato durante il capitalismo.
[10] Certamente, ingrediente indispensabile di tale soluzione deve essere la rottura dell’alleanza tra intellettuali e Stato, attraverso la creazione di centri di ricerca e di educazione indipendenti dal potere statale. Christopher Dawson nota che i grandi movimenti intellettuali del Rinascimento e dell’Illuminismo furono realizzati operando fuori, e talvolta contro, le università che si erano arroccate. Queste accademie delle nuove idee furono istituite da protettori indipendenti. Cfr. Christopher Dawson, The Crisis of Western Education, New York, Sheed and Ward, 1961; trad. it. La crisi dell’educazione occidentale, Brescia, Morcelliana, 1965.
Questo saggio è preso da Egalitarism as a Revolt Against Nature and Other Essays by Murray N. Rothbard (Auburn: Mises Institute, 2000 [1974], pp. 55-88.
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