giovedì 19 agosto 2010

Anatomia dello Stato #2




di Murray N. Rothbard





Come lo Stato preserva se stesso

Una volta stabilitosi lo Stato, il problema del gruppo o “casta” dominante è come mantenere il dominio[1]. Mentre la forza è il modus operandi, il problema fondamentale e di lungo periodo è ideologico. Giacché allo scopo di restare in carica, ogni governo (non semplicemente un governo “democratico”) deve avere il sostegno della maggioranza dei suoi sudditi. Questo sostegno, va notato, non ha bisogno di essere attivo entusiasmo; può ben essere passiva rassegnazione come ad una legge di natura inevitabile. Ma sostegno nel senso di accettazione di qualche sorta deve essere; altrimenti la minoranza dei governanti dello Stato sarebbe alla fine vinta dalla resistenza attiva della maggioranza del pubblico. Dal momento che la spoliazione deve essere sostenuta dal surplus di produzione, è necessariamente vero che la classe che costituisce lo Stato – la burocrazia a tempo pieno (e la nobiltà) – deve essere una minoranza piuttosto piccola nel paese, benché possa, naturalmente, acquistare alleati tra importanti gruppi della popolazione. Di conseguenza, il compito principale dei governanti è sempre di assicurarsi l’accettazione attiva o rassegnata della maggioranza dei cittadini[2],[3].

Naturalmente, un metodo per assicurarsi il sostegno è attraverso la creazione di interessi economici protetti dalla legge. Di conseguenza, il Re da solo non può governare; egli deve avere un considerevole gruppo di seguaci che dispongono dei requisiti indispensabili del dominio, per esempio i membridell’apparato dello Stato, come la burocrazia a tempo pieno o la nobiltà istituita[4]. Ma ciò, tuttavia, assicura solo una minoranza di zelanti sostenitori, e anche l’essenziale acquisto di sostegno con sussidi e altre concessioni di privilegi non fa ottenere ancora il consenso della maggioranza. Per questa essenziale accettazione, la maggioranza deve essere persuasa dall’ideologia che il suo governo è buono, saggio e per lo meno inevitabile, e certamente meglio di altre alternative concepibili. Promuovere questa ideologia tra il popolo è il vitale compito sociale degli “intellettuali”. Poiché la gran parte degli uomini non creano le proprie idee, né in realtà pensano a fondo queste idee in modo indipendente, essi seguono passivamente le idee adottate e disseminate dal corpo degli intellettuali. Gli intellettuali sono, quindi, i “modellatori dell’opinione” della società. E dal momento che è precisamente di un modellamento dell’opinione che lo Stato ha soprattutto disperato bisogno, la base per la secolare alleanza tra lo Stato e gli intellettuali diventa chiara.

È evidente che lo Stato ha bisogno degli intellettuali; non è così evidente perché gli intellettuali hanno bisogno dello Stato. Per dirla semplicemente, possiamo affermare che il sostentamento degli intellettuali nel libero mercato non è mai troppo sicuro, poiché l’intellettuale deve dipendere dai valori e dalle scelte delle masse dei suoi simili, ed è precisamente caratteristico delle masse non essere generalmente interessate alle questioni intellettuali. Lo Stato, d’altra parte, è disposto ad offrire agli intellettuali un impiego permanente e sicuro nell’apparato dello Stato, così come un reddito sicuro e la panoplia del prestigio. Perché gli intellettuali saranno splendidamente ricompensati per l’importante funzione che adempiono per i governanti dello Stato, del quale gruppo ora essi diventano parte[5].

L’alleanza tra lo Stato e gli intellettuali è stata simboleggiata nel vivo desiderio dei professori dell’Università di Berlino nel diciannovesimo secolo di formare la “guardia del corpo intellettuale della Casa di Hohenzollern”[6]. Ai giorni nostri, notiamo il commento rivelatore di un eminente studioso marxista a proposito dello studio critico di Wittfogel sul dispotismo Orientale: «La civiltà che Wittfogel attacca così aspramente era una che poteva trasformare poeti e studiosi in funzionari»[7]. Tra innumerevoli esempi, possiamo citare il recente sviluppo della “scienza” della strategia, al servizio del principale braccio governativo che impiega la violenza, le forze armate[8]. Una venerabile istituzione, inoltre, è lo storico ufficiale o “di corte”, che si dedica a fornire ai governanti l’idea che essi hanno delle azioni proprie e dei loro predecessori[9].

Molti e vari sono stati gli argomenti con i quali lo Stato e i suoi intellettuali hanno indotto i loro sudditi a sostenere il loro dominio. Fondamentalmente, gli elementi del discorso possono essere riassunti come segue:

  • i dominatori dello Stato sono uomini grandi e saggi (essi “governano per diritto divino”, sono “l’aristocrazia” degli uomini, sono gli “esperti scientifici”), molto più grandi e più saggi dei sudditi, buoni ma piuttosto semplici, e
  • il dominio del governo è inevitabile, assolutamente necessario e molto meglio degli indescrivibili mali che seguirebbero alla sua caduta. L’unione di Chiesa e Stato fu uno dei più antichi e più riusciti di questi stratagemmi ideologici.


Il dominatore era o unto da Dio o, nel caso del dominio assoluto di molti dispotismi Orientali, era egli stesso Dio; per cui ogni resistenza al suo dominio sarebbe stata una bestemmia. Il clericalismo di Stato rappresentava la funzione intellettuale di base per ottenere il sostegno popolare e persino l’adorazione dei dominatori[10].

Un altro stratagemma di successo fu di instillare paura di ogni sistema alternativo di dominio o non dominio. Gli attuali governanti, era inteso, forniscono ai cittadini un servizio essenziale per il quale essi dovrebbero essere molto riconoscenti: la protezione contro criminali e saccheggiatori sporadici. Secondo la sua logica, e anche per preservare il suo monopolio della spoliazione, lo Stato ha in effetti tentato di ridurre al minimo la criminalità privata e casuale; lo Stato è da sempre geloso delle proprie prerogative. In special modo, lo Stato è riuscito nei secoli recenti ad instillare la paura dei governanti degli altri Stati. Dal momento che la superficie del globo è stata spezzettata tra Stati particolari, una delle dottrine fondamentali dello Stato fu di identificarsi con il territorio che governava. Giacché che la maggioranza degli uomini tendono ad amare la loro terra natale, l’identificazione di quella terra e del suo popolo con lo Stato fu un mezzo per far lavorare il patriottismo naturale per il vantaggio dello Stato. Se la “Ruritania” veniva attaccata dalla “Walldavia”, il primo compito dello Stato e dei suoi intellettuali era di convincere il popolo della Ruritania che l’attacco era realmente contro loro e non semplicemente contro la casta dominante. In questo modo, una guerra tra dominatori era convertita in una guerra tra popoli, con ogni popolo che interveniva in difesa dei suoi governanti nell’erronea convinzione che i governanti li stessero difendendo. Questo stratagemma del “nazionalismo” ha riscosso successo, nella civiltà occidentale, solo nei secoli recenti; non molto tempo fa, le masse dei sudditi guardavano alle guerre come irrilevanti battaglie tra diverse cricche di nobili.

Molte e sottili sono le armi che lo Stato ha adoperato attraverso i secoli. Un’ottima arma è stata la tradizione. Più a lungo il dominio di uno Stato è stato capace di preservarsi, più potente diviene quest’arma; perché allora la dinastia X o lo Stato Y ha l’apparente peso di secoli di tradizione sulle spalle[11]. Il culto dei propri antenati, quindi, diventa un mezzo tutt’altro che debole per il culto dei propri antichi dominatori. Il più grande pericolo per lo Stato è la critica intellettuale indipendente; non c’è modo migliore per soffocare quella critica che attaccare ogni voce isolata, ogni seminatore di nuovi dubbi, come un profanatore della saggezza dei suoi antenati. Un’altra possente forza ideologica è deprecare l’individuo e esaltare il collettivo della società. Dal momento che ogni forma di dominio implica l’accettazione della maggioranza, qualunque pericolo ideologico per il dominio può cominciare solo da uno o pochi individui che pensano in modo indipendente. Una nuova idea, e in particolare una nuova idea critica, deve necessariamente nascere come opinione di una piccola minoranza; di conseguenza, lo Stato deve stroncare sul nascere queste idee ridicolizzando ogni punto di vista che sfida le opinioni delle masse. “Dai ascolto solo ai tuoi fratelli” o “adeguati alla società” diventano così le armi ideologiche per schiacciare il dissenso dell’individuo[12]. Con queste misure le masse non apprenderanno mai l’inesistenza dei vestiti del loro Imperatore[13]. È altresìimportante per lo Stato far sembrare inevitabile il suo dominio; anche se il suo regno non è gradito, sarà in questo caso affrontato con rassegnazione passiva, come testimonia l’accoppiata familiare “morte e tasse”[14]. Un metodo è indurre il determinismo storiografico, opposto al libero arbitrio individuale. Se la Dinastia X ci governa, questo accade perché le Inesorabili Leggi della Storia (o la Volontà Divina, o l’Assoluto, o le Forze Produttive Materiali) così hanno decretato e nulla che uno sparuto gruppo di individui possa fare può cambiare questo inevitabile decreto. È anche importante per lo Stato inculcare nei suoi sudditi un’avversione per ogni “teoria cospirativa della storia”, perché una ricerca di “cospirazioni” significa una ricerca di motivi e una attribuzione di responsabilità per misfatti storici. Se, tuttavia, qualunque tirannia, o venalità, o guerra aggressiva imposta dallo Stato, fosse causata non dai dominatori dello Stato ma da misteriose e arcane “forze sociali”, o dalle imperfette condizioni del mondo, o, se in qualche modo, ciascuno fosse responsabile (“Siamo tutti degli assassini”, proclama uno slogan[15]), allora non ci sarebbe alcun interesse per il popolo ad indignarsi o sollevarsi contro tali misfatti. Inoltre, un attacco alle “teorie cospirative” significa che i sudditi diventeranno più ingenui nel credere alle ragioni di “benessere generale” che sono sempre addotte dallo Stato per il suo impegno in ognuna delle sue azioni dispotiche. Una “teoria cospirativa” può sconvolgere il sistema facendo dubitare il pubblico della propaganda ideologica dello Stato.

Un altro metodo sperimentato e preciso per sottomettere i sudditi al volere dello Stato consiste nell’indurre sensi di colpa. Ogni incremento nel benessere privato può essere attaccato come “avidità senza scrupoli”, “materialismo” o “eccessiva opulenza”, la capacità di fare profitti può essere attaccata come “sfruttamento” e “usura”, gli scambi reciprocamente vantaggiosi denunciati come “egoismo”, e in ogni modo si giunge sempre alla solita conclusione, che maggiori risorse dovrebbero essere travasate dal settore privato al “settore pubblico”. La colpa indotta rende il pubblico più pronto a fare proprio questo. Poiché mentre gli individui tendono a indulgere nell’“avidità egoistica”, la ritrosia dei dominatori dello Stato ad impegnarsi negli scambi si suppone significhi la loro devozione a cause più elevate e più nobili – essendo la spoliazione parassitaria apparentemente superiore da un punto di vista morale ed estetico se comparata con il lavoro pacifico e produttivo.

Nell’età presente, più secolarizzata, il diritto divino dello Stato è stato sostituito dall’invocazione di un nuovo dio, la Scienza. Il dominio dello Stato è adesso proclamato come ultrascientifico, come qualcosa che istituisce la pianificazione degli esperti. Ma mentre la “ragione” è invocata più che nei secoli precedenti, questa non è la vera ragione dell’individuo e il suo esercizio del libero arbitrio; è ancora una ragione collettivistica e deterministica, che implica sempre aggregati olistici e manipolazione coercitiva di sudditi passivi da parte dei loro dominatori.

L’uso crescente di un gergo scientifico ha permesso agli intellettuali di Stato di tessere un’apologia oscurantistica del dominio statale che, in un’epoca con meno pretese, avrebbe incontrato solo la derisione del popolo. Un rapinatore che giustificasse il suo furto dicendo che in realtà aiuta le sue vittime, per il fatto che le sue spese danno un impulso al commercio al dettaglio, troverebbe pochi proseliti; ma quando questa teoria è ammantata da equazioni keynesiane e impressionanti riferimenti all’“effetto moltiplicatore” trasmette maggior convinzione. E così l’assalto al senso comune va avanti, ogni epoca assolvendo il compito a suo modo.

In questo modo, essendo il sostegno ideologico vitale per lo Stato, esso deve incessantemente cercare di impressionare il pubblico con la sua “legittimità”, per distinguere le sue attività da quelle dei meri briganti. L’incessante determinazione del suo assalto al senso comune non è casuale, poiché come sosteneva vividamente Mencken:

L’uomo medio, qualunque siano i suoi errori sotto altri punti di vista, almeno vede chiaramente che il governo è qualcosa che sta al di fuori di sé e della generalità dei suoi simili – che è un potere separato, indipendente e ostile, solo parzialmente sotto il suo controllo, e capace di procurargli grande danno. È forse un fatto senza significato che rubare al governo sia considerato ovunque un crimine di minor importanza che derubare un individuo, o anche un’impresa?… Quel che sta dietro tutto ciò, credo, è un profondo senso del fondamentale antagonismo tra il governo e il popolo che esso governa. Il governo è visto non come un comitato di cittadini scelti per occuparsi degli affaricomuni dell’intera popolazione ma come un ente separato e autonomo, principalmente votato a sfruttare la popolazione per il beneficio dei propri membri. … Quando un privato cittadino è derubato, un uomo rispettabile viene privato dei frutti della sua industria e della sua parsimonia; quando è il governo ad esser derubato, il peggio che possa accadere è che alcuni furfanti e bighelloni hanno meno denaro di prima con cui giocare. La nozione che essi hanno guadagnato quel denaro non è mai presa in considerazione; gli uomini più sensibili la troverebbero ridicola[16].



Come lo Stato trascende i suoi limiti

Come Bertrand de Jouvenel ha saggiamente notato, attraverso i secoli gli uomini hanno forgiato concetti designati a frenare e limitare l’esercizio del dominio dello Stato; e, uno dopo l’altro, lo Stato, usando i suoi alleati intellettuali, ha saputo trasformare questi concetti in sigilli di legittimità e virtù da apporre ai suoi decreti e azioni. Originariamente, nell’Europa Occidentale, il concetto di sovranità divina sosteneva che i re possono governare solo in ossequio alla legge divina; i re trasformarono il concetto in un sigillo dell’approvazione divina per qualunque loro azione. Il concetto di democrazia parlamentare iniziò con la finalità di garantire un controllo popolare sulla monarchia assoluta; ma alla fine il parlamento incarnò la quintessenza dello Stato e qualunque suo atto diventò totalmente sovrano. Come de Jouvenel conclude:

Molti fra gli autori delle teorie della sovranità hanno certamente avuto l’una o l’altra di queste intenzioni [restringere o comunque delimitare il potere]. Ma fra quelle teorie non ve ne è nessuna che, allontanandosi più o meno rapidamente dal suo disegno originario, non abbia alfine rafforzato il Potere, conferendogli il potente ausilio di un sovrano invisibile verso il quale esso potesse propendere e con il quale esso riuscisse ad identificarsi[17].


Lo stesso è accaduto con dottrine più specifiche: i “diritti naturali” dell’individuo custoditi gelosamente in John Locke e nel Bill of Rights, divennero uno statalistico “diritto al lavoro”; l’utilitarismo passò da argomento a favore della libertà a argomento contro la resistenza all’invasione statale della libertà, etc..

Certamente il più ambizioso tentativo di porre limiti allo Stato è stato il Bill of Rights e le altre parti restrittive della Costituzione americana, in cui i limiti scritti al governo divennero la legge fondamentale da essere interpretata da un potere giudiziario che si supponeva indipendente dalle altre branche del governo. Tutti gli Americani conoscono bene il processo con il quale la costruzione di limiti nella Costituzione è stata inesorabilmente allargata nell’ultimo secolo. Ma pochi sono stati altrettanto acuti di Charles Black nel vedere che lo Stato ha, nel processo, largamente trasformato lo stesso giudizio di costituzionalità della Corte suprema da uno stratagemma di limitazione in un ennesimo strumento per fornire legittimità ideologica alle azioni del governo. Perché se una sentenza di “incostituzionalità” è un potente freno al potere del governo, un verdetto implicito o esplicito di “costituzionalità” è un’arma potente per favorire l’accettazione pubblica di un sempre maggior potere del governo.

Black inizia la sua analisi indicando la necessità cruciale di “legittimità” che ha ogni governo per durare nel tempo, significando questa legittimazione una fondamentale accettazione del governo e delle sue azioni da parte della maggioranza[18]. L’accettazione della legittimità diventa un problema particolare in un paese come gli Stati Uniti, dove «limitazioni sostanziali sono edificate nella teoria sulla quale il governo si basa». Ciò che serve, aggiunge Black, è un mezzo col quale il governo possa assicurare al pubblico che i suoi poteri crescenti sono, in realtà, “costituzionali”. E questa, conclude, è stata la funzione più importante del giudizio di costituzionalità.

Black così illustra il problema:

Il rischio supremo [per il governo] è quello della disaffezione e di un risentimento largamente diffuso in tutta la popolazione, e la perdita di autorità morale da parte del governo in quanto tale, per quanto a lungo possa esser sostenuto dalla forza d’inerzia o dalla mancanza di una soluzione affascinante e immediatamente disponibile. Quasi tutti coloro che vivono sotto un governo dai poteri limitati devono presto o tardi esser soggetti a qualche azione governativa che come materia di opinione personale egli considera fuori dal potere del governo o espressamente proibita al governo. Un uomo è chiamato alla leva, anche se non trova niente nella Costituzione a proposito della leva obbligatoria. […] A un agricoltore viene detto quanto grano può coltivare; egli è convinto, e scopre che alcuni rispettabili avvocati sono convinti come lui, che il governo non ha più diritto di dirgli quanto grano può coltivare di quanto ne abbia di dire a sua figlia con chi può sposarsi. Un uomo va al penitenziario federale per aver detto ciò che vuole, e va avanti e indietro nella propria cella recitando… “Il Congresso non ratificherà alcuna legge contro la libertà di parola”. […] A un commerciante viene detto quanto può e deve farsi pagare per il latte.

Il pericolo è così reale che ognuna di queste persone (e chi non fa parte di loro?) confronterà il concetto di limite al governo con la realtà (così come la vede) del superamento flagrante dei limiti reali, e giungerà all’ovvia conclusione per quanto riguarda la posizione del governo in merito alla legittimità[19].


Questo pericolo è evitato dallo Stato proponendo la dottrina che un’agenzia deve avere l’ultima decisione sulla costituzionalità e che questa agenzia, in ultima analisi, deve essere parte del governo federale[20]. Perché mentre l’apparente indipendenza del potere giudiziario federale ha avuto una parte vitale nel rendere le sue azioni virtualmente la Bibbia per la maggior parte del popolo, è altresì sempre vero che il potere giudiziario è parte integrante dell’apparato di governo ed è nominato dalle branche esecutiva e legislativa. Black ammette che questo significa che lo Stato si è posto come giudice in causa propria, violando così un principio giuridico fondamentale per arrivare a decisioni giuste. Egli nega bruscamente la possibilità di qualunque alternativa[21].

Black aggiunge:

Il problema è, quindi, escogitare mezzi governativi di decisione tali da poter [sperabilmente] ridurre a un minimo tollerabile l’intensità dell’obiezione che il governo è giudice in causa propria. Fatto questo, si può solo sperare che questa obiezione, benché teoricamente ancora valida, perderà praticamente abbastanza forza in modo che il lavoro di legittimazione dell’istituzione che decide possa guadagnare accettazione[22].


In ultima analisi, Black considera il compimento della giustizia e della legittimità, che avviene prendendo le mosse dal fatto che lo Stato giudica perpetuamente in causa propria, «qualcosa di miracoloso»[23].

Applicando la sua tesi al famoso conflitto tra la Corte Suprema e il New Deal, Black rimprovera in modo pungente i suoi colleghi favorevoli al New Deal per la loro miopia nel denunciare l’ostruzionismo giudiziario:

la versione classica della storia del New Deal e della Corte, benché in un certo senso accurata, è fuorviante […]. Si sofferma sulle difficoltà, e quasi dimentica come è andata a finire. Il nocciolo della questione era (ed è proprio ciò che voglio sottolineare) che dopo quasi ventiquattro mesi di inerzia […] la Corte suprema, senza apportare una sola modifica alla legge sulla sua composizione, sancì in modo definitivo la legittimità del New Deal, e dell’intera nuova concezione del governo in America[24].


In questo modo, la Corte suprema riuscì ad assestare il colpo di grazia al vasto numero di Americani che muoveva forti obiezioni costituzionali al New Deal:

Ovviamente, non tutti erano soddisfatti. La nostalgia per il laissez faire controllato dalla Costituzione riesce ancora a toccare i cuori di qualche zelota nelle lande di una irrealtà collerica. Non c’è più, però, alcun pubblico dubbio significativo o pericoloso per ciò che riguarda il potere costituzionale con cui il Congresso gestisce l’economia nazionale. […]

Non avevamo altri mezzi, oltre alla Cortesuprema, con cui dare legittimità al New Deal[25].


Come Black riconosce, un grande teorico politico che riconobbe – e con largo anticipo – l’evidente scappatoia presente in un limite costituzionale al governo che ponga il potere di interpretazione finale nella Corte Suprema fu John C. Calhoun. Calhoun non era soddisfatto del “miracolo”, ma piuttosto procedette a una profonda analisi del problema costituzionale. Nella sua Disquisition, Calhoun dimostrò la tendenza intrinseca dello Stato a forzare i limiti di tale costituzione:

Una costituzione scritta ha certamente molti e considerevoli vantaggi, ma è un grave errore pensare che il semplice inserimento di norme finalizzate a limitare i poteri del governo, senza attribuire a coloro per la cui protezione sono state concepite gli strumenti per farle rispettare, sarà sufficiente a impedire che il partito più grande e dominante abusi del suo potere. Avendo in mano il governo, essi saranno, dalla stessa costituzione dell’uomo che rende il governo necessario per proteggere la società, in favore dei poteri concessi dalla costituzione e si opporranno alle restrizioni tese a limitarli. Il partito minore o più debole, al contrario, agirebbe nella direzione opposta e le riterrebbe [le restrizioni] essenziali per potersi proteggere dal partito dominante […]. Ma là dove non ci siano mezzi con i quali costringere il partito di maggioranza a rispettare tali restrizioni, l’unica scelta rimarrebbe quella di un’impostazione più rigida della costituzione […]. A ciò il partito di maggioranza opporrebbe un’impostazione elastica […]. Ci sarebbero quindi due impostazioni opposte – una tesa a restringere, l’altra ad allargare il più possibile i poteri del governo. Quale utilità può avere, però, il disegno del partito di minoranza, in confronto alla interpretazione elastica di quello di maggioranza, quando uno ha tutti i poteri del governo per riuscire a portare a compimento il proprio progetto e l’altro è privato di qualsiasi strumento con cui far rispettare il proprio? In una contesa così disuguale, non ci sarebbero dubbi sul risultato. Il partito a favore delle restrizioni verrebbe senza alcun dubbio schiacciato […]. La disputa finirebbe con il sovvertimento della costituzione […] le restrizioni verrebbero alla fine annullate e il governo diverrebbe un potere illimitato[26].


Uno dei pochi scienziati politici che hanno apprezzato l’analisi della Costituzione di Calhoun è stato J. Allen Smith. Smith ha notato che la Costituzione fu pensata con il sistema dei pesi e contrappesi per limitare qualunque potere governativo e tuttavia si era sviluppata una Corte Suprema con il monopolio del potere di interpretazione finale. Se il Governo Federale era stato creato per tenere a freno le invasioni della libertà individuale da parte dei singoli stati, chi doveva tenere a freno il potere Federale? Smith asseriva che implicita nell’idea dei pesi e contrappesi della Costituzione era la visione concomitante che a nessuna delle branche del governo potesse esser concesso il potere di interpretazione finale: «Era dato per scontato dal popolo che al nuovo governo non potesse esser permesso di determinare i limiti della propria autorità, dal momento che ciò avrebbe reso esso, e non la Costituzione, supremo»[27].

La soluzione avanzata da Calhoun (e fatta propria in questo secolo da autori come Smith) era, naturalmente, la famosa dottrina della “maggioranza concorrente”. Se qualunque sostanziale interesse di minoranza nel paese, specialmente il Governo di uno Stato, avesse creduto che il Governo Federale stesse eccedendo il suo potere e danneggiando quella minoranza, la minoranza avrebbe avuto il diritto di porre il veto a questo esercizio del potere in quanto incostituzionale. Applicata ai Governi degli Stati, questa teoria implicava il diritto di “annullamento” di una legge o di un decreto Federale entro la giurisdizione dello stato.

In teoria, il sistema costituzionale ottenuto assicurerebbe che il Governo Federale tenga a freno ogni invasione dei diritti individuali da parte degli stati, mentre gli stati terrebbero a freno l’eccessivo potere Federale sull’individuo. E tuttavia, mentre i limiti sarebbero indubbiamente più efficaci di ora, ci sono molte difficoltà e problemi nella soluzione di Calhoun. Se, in realtà, un interesse subordinato dovesse avere legittimamente diritto di veto in materie che lo riguardano, allora perché fermarsi agli stati? Perché non porre il potere di veto a livello delle contee, delle città, delle circoscrizioni? Inoltre, gli interessi non sono solo locali, sono anche professionali, sociali, etc.. Che dire dei fornai o dei tassisti o di ogni altra professione? Non dovrebbe esser concesso loro un potere di veto sulle proprie vite? Questo ci porta al punto cruciale che la teoria dell’annullamento limita i suoi freni ad agenzie del governo stesso. Non dimentichiamo che i governi federale e degli stati, e le loro rispettive branche, sono sempre stati, sono sempre guidati dai propri interessi di stati piuttosto che dagli interessi dei privati cittadini. Che cosa impedisce al sistema di Calhoun di funzionare al contrario, con gli stati che tiranneggiano i propri cittadini e usano il veto contro il governo federale solo quando questo cerca di intervenire per fermare quella tirannia dello stato? O agli stati di accettare la tirannia federale? Che cosa impedisce ai governi federale e degli stati di formare alleanze reciprocamente vantaggiose per lo sfruttamento congiunto della cittadinanza? E anche se qualche forma di rappresentanza “funzionale” nel governo fosse data a gruppi professionali privati, che cosa impedirebbe loro di usare lo Stato per ottenere sussidi e altri privilegi speciali per se stessi o di imporre cartelli obbligatori ai propri membri?

In breve, Calhoun non spinge la sua teoria precorritrice sulla maggioranza concorrente abbastanza lontano: non la spinge fino all’individuo stesso. Se l’individuo, dopo tutto, è colui i cui diritti devono essere protetti, allora una coerente teoria della concorrenza implicherebbe un potere di veto per ogni individuo; vale a dire, una qualche forma del “principio di unanimità”. Quando Calhoun scrisse che dovrebbe essere «impossibile metterlo o mantenerlo [il governo] in azione senza il consenso concorrente di tutti», egli sottintendeva, forse involontariamente, proprio tale conclusione[28]. Ma questa speculazione comincia ad allontanarci dal nostro soggetto, in quanto seguendo questa strada si trovano sistemi politici che potrebbero ben difficilmente esser chiamati “Stati”[29]. Tanto per dirne una, proprio come il diritto di annullamento per uno stato comporta logicamente il suo diritto di secessione, così un diritto di annullamento individuale comporterebbe il diritto di ogni individuo di “secedere” dallo Stato in cui vive[30].

Così lo Stato ha invariabilmente mostrato un evidente talento per l’espansione dei suoi poteri oltre ogni limite che si è potuto porre contro di esso. Dal momento che lo Stato vive necessariamente della confisca coercitiva del capitale privato, e dal momento che la sua espansione implica necessariamente incursioni sempre maggiori ai danni di privati individui e imprese private, dobbiamo asserire che lo Stato è profondamente e intrinsecamente anticapitalista. In un certo senso, la nostra posizione è il contrario dell’affermazione marxista che lo Stato è il “comitato esecutivo” della classe dominante attuale, presumibilmente i capitalisti. Piuttosto, lo Stato – l’organizzazione del mezzo politico – costituisce, ed è la fonte, della “classe dominante” (meglio, della casta dominante), ed è in opposizione permanente al capitale genuinamente privato. Possiamo quindi affermare con de Jouvenel:

Bisognerebbe ignorare tutto ciò che non appartenga al proprio tempo, ignorare il comportamento millenario del Potere per vedere in queste operazioni [nazionalizzazioni, l’imposta sul reddito, ecc.] soltanto il frutto di determinate dottrine. Quelle operazioni sono manifestazioni normali del Potere, per nulla diverse, nella loro natura, dalla confisca dei beni monastici operata da Enrico VIII. Il principio è lo stesso: fame di autorità, sete di risorse; in quelle operazioni compaiono le stesse caratteristiche, compreso il rapido prosperare dei profittatori. Socialista o no, il Potere deve necessariamente lottare contro l’autorità capitalistica e sottrarre per sé la sostanza accumulata dai capitalisti: nel far ciò, esso segue la legge sua propria[31].


(1). Link alla Prima Parte

(2). Link alla Terza Parte


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Note

[1] Sulla distinzione cruciale tra “casta”, un gruppo con privilegi o oneri coercitivamente garantiti o imposti dallo Stato, e il concetto marxiano di “classe” nella società, cfr. Ludwig von Mises, Theory and History, New Haven, Yale University Press, 1957, pp. 112 e seg..


[2] Tale accettazione non implica naturalmente che il dominio dello Stato sia diventato “volontario”; poiché anche se il sostegno della maggioranza fosse attivo e ardente, questo sostegno non sarebbe unanime, da parte di ognuno.


[3] Che ogni governo, non importa quanto “dittatoriale” verso gli individui, debba assicurarsi tale sostegno è stato dimostrato da acuti teorici politici quali Étienne de La Boétie, David Hume e Ludwig von Mises. Cfr. D. Hume, Of the First Principles of Government, London, Ward, Locke, and Taylor, s.d., p. 23; trad. it. p. 28. É. de La Boétie, [Discours de la servitude volontaire cit. p. 12; trad. inglese] Anti-Dictator, New York, Columbia University Press, 1942, pp. 8-9[;trad. it. p. 7]. L. von Mises, Human Action, Auburn, Mises Institute, 1998, pp. 188 e seg.; trad. it. pp. 181 e seg.. Per qualcosa in più sul contributo all’analisi dello Stato da parte di La Boétie, cfr. Oscar Laszi e John D. Lewis, Against the Tyrant, Glencoe, The Free Press, 1957, pp. 55-57.


[4] Cfr. de La Boétie, op. cit., [p. 40]:
«non appena un re diventa tiranno […] coloro che sono posseduti da sfrenata ambizione e da avidità non comune, gli si raccolgono intorno e lo sostengono per avere parte al bottino e diventare, all’ombra del grande tiranno, piccoli tiranni essi stessi»; trad. inglese pp. 43-44; trad. it. pp. 30-31.

[5] Ciò non implica affatto che tutti gli intellettuali si alleino con lo Stato. Su aspetti dell’alleanza di intellettuali e Stato, cfr. B. de Jouvenel, The Attitude of the Intellectuals to the Market Society, «The Owl», Gennaio 1951, pp. 15-27; Id., The Treatment of Capitalism by Continental Intellectuals, in F.A. Hayek (ed.), Capitalism and the Historians, Chicago, University of Chicago Press, 1954, pp. 93-123 [trad. it. Gli intellettuali del continente europeo e il capitalismo, in Hayek (a cura di), Il capitalismo e gli storici, Roma, Bonacci, 1991, pp. 81-103]; ristampato in George B. de Huszar, The Intellectuals, Glencoe, The Free Press, 1960, pp. 385-399; Schumpeter, Imperialism and Social Classes, New York, Meridian Books, 1975, pp. 143-155.


[6] La frase è attribuita al fisiologo tedesco Emil Du Bois-Reymond (1818-1896), professore all’Università di Berlino dal 1858. (NdC.)


[7] Joseph Needham, Review of Karl A. Wittfogel, Oriental Despotism, «Science and Society» (1958), p. 65. Needham scrive anche che «i successivi imperatori [Cinesi] erano serviti in ogni età da una grande accolita di studiosi profondamente umani e disinteressati», p. 61. Wittfogel richiama l’attenzione sulla dottrina Confuciana che la gloria della classe dominante poggiava su di una casta di gentiluomini, studiosi e burocrati, destinati ad essere dominatori di professione e ad imporsi sulla massa della gente comune. Karl A. Wittfogel, Oriental Despotism, New Haven, Yale University Press, 1957, pp. 320-321 e passim; trad. it. Il dispotismo orientale, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 510-511. Per un atteggiamento diverso da quello di Needham, cfr. John Lukacs, Intellectual Class or Intellectual Profession?, in de Huszar, The Intellectuals cit., pp. 521-522.


[8] Jeanne Ribs, The War Plotters, «Liberation», Agosto 1961, p. 13: «gli strateghi insistono che la loro occupazione merita la ‘dignità della controparte accademica della professione militare’». Cfr. anche Marcus Raskin, The Megadeath Intellectuals, «New York Review of Books», 14 Novembre 1963, pp. 6–7.


[9] Così lo storico Conyers Read, nel suo indirizzo presidenziale, sostiene la soppressione del fatto storico al servizio dei valori “democratici” e nazionali. Read ha proclamato che «la guerra totale, sia calda, sia fredda, arruola ciascuno e chiama ciascuno a recitare la sua parte. Lo storico non è più libero del fisico da questa obbligazione». Read, The Social Responsibilities of the Historian, «American Historical Review», (1951), pp. 283 e seg.. Per una critica di Read e di altri aspetti della storia cortigiana, cfr. Howard K. Beale, The Professional Historian: His Theory and Practice, «The Pacific Historical Review», Agosto 1953, pp. 227-255. Cfr. anche Herbert Butterfield, Official History: Its Pitfalls and Criteria, in History and Human Relations, New York, Macmillan, 1952, pp. 182-224; e Harry Elmer Barnes, The Court Historians Versus Revisionism, (s.l., s.d.), pp. 2 e seg..


[10] Cfr. Wittfogel, Oriental Despotism cit., pp. 87-100; trad. it. pp. 148-168. Sui ruoli contrastanti della religione verso lo Stato nella Cina e nel Giappone antichi, cfr. Norman Jacobs, The Origin of Modern Capitalism and Eastern Asia, Hong Kong, Hong Kong University Press, 1958, pp. 161-194.


[11] De Jouvenel, On Power cit., p. 22:
«Si obbedisce essenzialmente perché questa è un’abitudine della nostra specie. […] Il Potere è per noi un fatto della natura. Per quanto la memoria collettiva risalga lontano, troveremo sempre che esso era presente nella vita umana […] le autorità che esse [le società] hanno anticamente subito non sono mai scomparse senza tramandare gli elementi costitutivi del loro prestigio alle autorità che sono ad esse subentrate, né senza lasciare negli animi impronte che si andavano aggiungendo alle precedenti. Il susseguirsi dei governi all’interno di una stessa società nel corso dei secoli può dunque essere rappresentato come un solo governo che è sempre esistito e si è lungamente arricchito»; trad. it. pp. 34-35.

[12] Su tali usi della religione in Cina, cfr. Norman Jacobs, op. cit., passim.

[13] H.L. Mencken, A Mencken Chrestomathy, New York, Knopf, 1949, p. 145:
«Tutto quello che [il governo] può vedere in un’idea originale è il cambiamento potenziale, e quindi un’invasione delle sue prerogative. L’uomo più pericoloso, per ogni governo, è quello che è in grado di pensare cose per conto suo, senza riguardo alle superstizioni e ai tabù prevalenti. Quasi inevitabilmente, egli giunge alla conclusione che il governo sotto il quale vive è disonesto, folle e intollerabile, e così, se è romantico, cerca di cambiarlo. E anche se non è personalmente romantico, egli è molto adatto a diffondere scontento tra coloro che lo sono». [Nel testo Rothbard allude alla favola di Hans Christian Andersen, Il vestito nuovo dell’Imperatore, in cui un bambino smaschera l’adulazione dei cortigiani che lodano un abito inesistente del re.]

[14] Cfr. Benjamin Franklin (1706-1790), lettera a Jean-Baptiste Leroy, 13 novembre 1789: «In this world nothing is certain but death and taxes». (NdC.)

[15] Si tratta di un celebre film francese contro la pena di morte, Nous sommes tous des assassins, di André Cayatte, che vinse il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1952. (NdC.)


[16] Mencken, A Mencken Chrestomathy cit., pp. 146-147.


[17] De Jouvenel, On Power cit., pp. 27 e seg.; trad. it. p. 40.


[18] Charles L. Black. Jr., The People and the Court, New York, Macmillan, 1960, pp. 35 e seg..


[19] Ivi, pp. 42-43. [La frase “Il Congresso non ratificherà alcuna legge contro la libertà di parola” è tratta dal Primo Emendamento del Bill of Rights del 1791.]


[20] Ivi, p. 52:
«La funzione primaria e più necessaria della Corte [suprema] è stata quella della convalida, non quella dell’invalidazione. Ciò di cui un governo dai poteri limitati ha bisogno, all’inizio e per sempre, è qualche mezzo per convincere il popolo di aver fatto tutti i passi umanamente possibili per rimanere entro i suoi poteri. Questa è la condizione della sua legittimità, e la sua legittimità, nel lungo periodo, è la condizione della sua vita. E la Corte, attraverso la sua storia, ha agito come legittimazione del governo».

[21] Per Black questa “soluzione”, ancorché paradossale, è felicemente di per sé evidente:

«Il potere ultimo dello Stato […] deve finire là dove lo ferma la legge. Ma chi deciderà il limite, chi costringerà il potere più forte a rispettare tale divieto? Ma certo, lo Stato stesso, ovviamente, attraverso i propri magistrati e le proprie leggi. Chi modera i moderati? Chi rende saggi i saggi?»;

ivi, pp. 32-33. E ancora, pp. 48-49:
«Là dove le domande riguardano il potere del governo in una nazione sovrana, non è possibile selezionare un arbitro che sia esterno al governo. Ogni governo nazionale, fino a quando è un governo, deve avere l’ultima parola sul proprio potere».

[22] Ivi, p. 49; corsivo aggiunto.

[23] Questa attribuzione di miracoloso al governo fa ricordare la giustificazione del governo di James Burnham per mezzo del misticismo e dell’irrazionalità:
«Nei tempi antichi, prima che le illusioni della scienza avessero corrotto la saggezza tradizionale, i fondatori di città erano conosciuti come dei o semidei […]. Né la fonte né la giustificazione del governo possono essere poste in termini del tutto razionali […] perché dovrei accettare il principio della legittimazione ereditaria o democratica o altro? Perché un principio dovrebbe giustificare il potere di quell’uomo su di me? […] Io accetto il principio, dunque... perché lo accetto, perché si fa a questo modo e così si è sempre fatto». James Burnham, Congress and the American Tradition, Chicago, Regnery, 1959, pp. 3-8. Ma cosa accade se qualcuno non accetta il principio? Quale sarebbe allora “il modo”?

[24] Black, The People and the Court cit., p. 64.

[25] Ivi, p. 65.


[26] John C. Calhoun, A Disquisition on Government [1848], New York, Liberal Arts Press, 1953, pp. 25-27, corsivi aggiunti; trad. it. Disquisizione sul governo e Discorso sul governo e la Costituzione degli Stati Uniti, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1986, pp. 77-79, modificata. Cfr. anche Rothbard, Conservatism and Freedom: A Libertarian Comment, «Modern Age», Spring 1961, p. 219. [Calhoun (1782-1850), uomo politico e pubblicista, fu vicepresidente degli Stati Uniti dal 1825 al 1832, quando si dimise in polemica con la politica protezionistica del presidente Andrew Jackson. Sostenitore dello schiavismo, fu tra i maggiori fautori della dottrina dei diritti degli Stati nei confronti del governo federale.]


[27] J. Allen Smith, The Growth and Decadence of Constitutional Government, New York, Henry Holt, 1930, p. 88. Smith aggiunge:
«è ovvio che se una clausola della Costituzione era pensata per limitare i poteri di un organo governativo, poteva essere annullata se la sua interpretazione e applicazione erano lasciate alle autorità per contenere le quali era pensata. Chiaramente, il senso comune richiedeva che nessun organo di governo potesse essere in grado di determinare i propri poteri».Chiaramente, il senso comune e i “miracoli” richiedono vedute molto diverse sul governo (p. 87).

[28] Calhoun, A Disquisition on Government cit., pp. 20-21.

[29] In anni recenti, il principio di unanimità ha avuto un revival fortemente attenuato, particolarmente negli scritti di James Buchanan. Introdurre l’unanimità nella situazione presente, tuttavia, e applicarla solamente ai cambiamenti nello status quo e non alle leggi esistenti, può solo risultare in un’altra trasformazione di un concetto di limitazione in un sigillo per lo Stato. Se il principio di unanimità ha da essere applicato solamente ai cambiamenti nelle leggi e decreti, la natura del “punto di origine” iniziale allora fa tutta la differenza. Cfr. James Buchanan e Gordon Tullock, The Calculus of Consent, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1962, passim; trad. it. Il calcolo del consenso, Bologna, Il Mulino, 1998.


[30] Cfr. Herbert Spencer, The Right to Ignore the State, in Social Statics cit., pp. 185-194 [Rothbard cita l’ed. New York, D. Appleton, 1890, pp. 229-239]; trad. it. Il diritto di ignorare lo stato, in questo volume.


[31] Bertrand de Jouvenel, On Power cit., p. 171; trad. it. p. 190.


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