Bibliografia

mercoledì 30 giugno 2010

Guerra e politica estera #2


di Murray N. Rothbard

Politica estera americana

Abbiamo visto che i libertari hanno come prima responsabilità la preoccupazione circa l'invasività e l'aggressività dei loro Stati. I libertari di Graustark devono incentrare le loro azioni alla limitazione e riduzione dello Stato di Graustark stesso, i libertari walldaviani devono provare a tenere sotto controllo lo Stato di Walldavia e così via. Nelle questioni internazionali i libertari di ogni paese devono pressare i loro governi per trattenerli dal muovere guerra o intervenire in altro modo all'estero e dissuaderli da ogni guerra in cui potrebbero essere coinvolti. Se per nessun'altra ragione, quindi, i libertari negli Stati Uniti devono concentrare la loro attenzione sulle attività imperiali e guerrafondaie del loro governo.

Ma qui ci sono ancora altre ragioni su cui i libertari devono porre il focus per quanto riguarda l'invasività e l'interventismo estero degli Stati Uniti. Prendendo l'intero ventesimo secolo, il governo più guerrafondaio, più interventista, più imperialista è stato quello degli Stati Uniti. Una simile frase è usata per dare una scossa agli Americani, soggetti che hanno subito per decadi un'intensa dose di propaganda dall'Establishment circa l'indissolubile santità, le intenzioni pacifiche e la devozione per la giustizia del governo americano nelle questioni estere.

L'impulso espansionistico dello Stato americano prese piede (per poi aumentare) nel diciannovesimo secolo, dal baldanzoso salto oltreoceano nella guerra contro la Spagna, alla dominazione di Cuba, dalla sottomissione di Puerto Rico a quella delle Filippine, sopprimendo brutalmente anche una rivolta filippina per l'indipendenza. L'espansione imperiale degli Stati Uniti raggiunse il suo apice nella prima guerra mondiale, quando l'intromissione del presidente Wilson nel conflitto prolungò la guerra e l'uccisione di massa, e causò inavvertitamente la spaventosa devastazione la quale portò direttamente al trionfo bolscevico in Russia e quello nazista in Germania. Era il particolare pensiero di Wilson ad alimentare quel velo pietistico e moralistico di una nuova politica americana di intervento e dominazione globale, una politica atta a modellare ogni paese ad immagine dell'America, sopprimendo regimi radicali o marxisti da un lato e governi monarchici vecchio-stile dall'altra. Fu Woodrow Wilson ad organizzare tutte le caratteristiche della politica estera americana per il resto di quel secolo. Quasi tutti i successivi presidenti si sono considerati dei wilsoniani e seguaci delle sue politiche. Non fu un caso che entrambi Herbert Hoover e Franklin D. Roosevelt – per tanto tempo considerati agli estremi opposti -- hanno giocato ruoli importanti nella prima crociata americana quale fu la prima guerra mondiale e questi stessi uomini si rifecero alle proprie esperienze, maturate con tale interventismo bellico, per pianificare la loro future politiche interne ed estere. Ed uno dei primi atti di Richard Nixon come presidente, fu quello di posizionare una fotografia di Wilson sulla sua scrivania.

Nel nome "dell'auto-determinazione nazionale" e "della sicurezza collettiva" contro l'aggressione che il governo americano ha costantemente perseguito uno scopo ed una politica di dominazione globale, unita a quella di violenta repressione contro ribellioni che minacciavano lo status quo ovunque nel mondo. Sotto l'insegna del combattere "l'aggressione" in ogni luogo – comportandosi come il "poliziotto" del mondo – che è diventato esso stesso un grande e reitarante aggressore.

Chiunque si opponga a questa descrizione dell'America dovrebbe semplicemente considerare quale sia la tipica reazione americana a qualsiasi crisi interna o estera dovunque nel globo, perfino in qualche remoto luogo che non può essere raggiunto nemmeno dall'immaginazione può nascere una minaccia diretta o indiretta pronta a raggiungere i cittadini americani e la loro sicurezza. Il dittatore militare del "Bumblestan" è in grave pericolo; forse i suoi cittadini sono stanchi di essere sfruttati da lui e dai suoi colleghi. Gli Stati Uniti quindi diventano pesantemente coinvolti; articoli di giornalisti simpatizzanti il Dipartimento di Stato o il Pentagono diffondono l'allarme su cosa potrebbe accadere alla "stabilità" del Bumblestan ed alla sua area circostante se il dittatore dovesse essere rovesciato. Il dittatore si trasforma magicamente in un "pro-Americano" o "pro-occidente": ovvero è uno dei "nostri" invece che uno dei "loro". Milioni o addirittura miliardi di dollari in aiuti economici e militari sono inviati repentinamente dagli Stati Uniti per sostenere il capo bumblestano. Se il "nostro" dittatore si salva, allora si tira un sospiro di sollievo e si da inizio al giro di congratulazioni per aver salvato il "nostro" Stato. La continua e crescente oppressione del contribuente americano e dei cittadini bumblestani non sono, ovviamente, presenti nell'equazione. Oppure se si verificasse il caso in cui il dittatore bumblestano cada, l'isterismo colpirebbe la stampa americana e i burocrati. Ma dopo un pò, nonostante la "perdita" del Bumblestan gli americani tornerebbero a vivere la loro vita come prima – forse anche meglio, se ciò significa qualche miliardo in meno di aiuti esteri estorti da loro da mandare allo Stato del Bumblestan.

Se, quindi, si è compreso ed assimilato che gli Stati Uniti cercheranno di imporre la loro volontà in ogni crisi situata ovunque nel mondo, va da se che ciò rappresenta la chiara indicazione che l'America è una grande potenza interventista ed imperiale. L'unico posto in cui gli Stati Uniti non provano a piazzare il loro volere è l'Unione Sovietica ed i paesi comunisti – ma, senza dubbio, si è tentato già in passato. Woodrow Wilson, come anche l'Inghilterra e la Francia, ha provato molteplici volte a distruggere il bolscevismo sin dalla sua nascita, mandando truppe americane ed alleate in Russia per aiutare le forze zariste ("bianche") a sconfiggere i rossi. Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti fecero del loro meglio per spodestare i sovietici dall'Europa orientale e ci riuscirino cacciandoli dall'Azerbaijan, a nord-ovest dell'Iran. Aiutarono anche gli inglesi a distruggere il regime comunista in Grecia. Gli Stati Uniti fecero del loro meglio per mantenere in piedi la dittatura di Chiang Kai-shek in Cina, paracatutando molte truppe di Chiang a nord per occupare la Manchuria lasciata dai russi dopo la seconda guerra mondiale; allo stesso tempo tenendo i cinesi lontano dall'occupazione delle loro isole al largo, Quemoy e Matsu. Dopo aver virtualmente insediato il dittatore Batista a Cuba, gli Stati Uniti provarono disperatamente a spodestare il regime comunista di Castro, dall'operazione d'invasione pianificata dalla CIA chiamata Baia dei Porci fino agli accordi CIA-mafia per assassinare Castro.

Di tutte le recenti guerra americane, la più traumatica per gli americani e per il loro comportamento nella politica estera fu sicuramente la guerra del Vietnam. La guerra imperiale americana in Vietnam è stata, invece, un microcosmo di ciò che è andato tragicamente male con tale politica estera statunitense in questo secolo. L'intervento americano in Vietnam non è iniziato, come molte persone pensano, con Kennedy o con Eisenhower o perfino con Truman. E' iniziato non più tardi della data in cui il governo americano, sotto Franklin Roosevelt, consegnò un chiaro ed insultante ultimatum (26 novembre 1941) al Giappone per fargli ritirare le sue truppe armate dalla Cina e l'Indocina, fondamentalmente da quel territorio che sarebbe diventato poi il Vietnam. Questo ultimatum preparò l'inevitabile palcoscenico di Pearl Harbor. Ingaggiati in guerra nel Pacifico per scacciare il Giappone dal continente asiatico, gli Stati Uniti e le sue OSS (progenitrici della CIA) sostennero ed aiutarono la resistenza comunista nazionale di Ho Chi Minh contro il Giappone. Dopo la seconda guerra mondiale il Viet Minh era a capo di tutto il Vietnam del nord. Ma poi la Francia, precedente sovrano imperiale del Vietnam, tradì il suo accordo con Ho e massacrò le forze del Viet Minh. In questo doppio gioco la Francia era aiutata da Inghilterra e Stati Uniti.

Quando i francesci persero contro la guerriglia del ricostituito Viet Minh sotto Ho, gli Stati Uniti firmarono gli accordi di Ginevra del 1954, i quali indicavano che il Vietnam doveva essere celermente riunito in un'unica nazione; poichè era generalmente riconosciuto che le divisioni post-guerra del paese in nord e sud erano puramente arbitrarie e solamente attuate per convenienza militare. Ma, avendo tentato si scacciare con l'inganno il Viet Minh dalla metà sud del Vietnam, gli Stati Uniti procedettero a rompere gli accordi di Ginevra rimpiazzando i francesci ed il loro pupazzo Bao Dai con la propria marionetta Ngo Dinh Diem e la sua famiglia, che fu insediato come dittatore a comando del Vietnam del sud. Quando Diem divenne imbarazzante, la CIA pianificò una mossa per assassinarlo e rimpiazzarlo con un altro dittatore. Per sopprimere i Viet Cong, il movimento comunista d'indipendenza nazionale, gli Stati Uniti fecero piovere devastazione sia nel nord che nel sud del Vietnam – bombardando ed uccidendo milioni di vietnamiti e trascinando mezzo milione di soldati americani nelle paludi e nelle giungle del Vietnam.

Attraverso il tragico conflitto vietnamita, gli Stati Uniti imbastirono la bugia che quella era una guerra di "aggressione" da parte dello Stato comunista nord vietnamita contro uno Stato amico e "pro-occidente" (qualsiasi cosa il termine voglia significare) quale il Vietnam del sud, che li aveva chiamati per venire in suo soccorso. La guerra fu realmente un tentativo, seppur abbastanza lungo, destinato a sopprimere la volontà della grande massa di vietnamiti ed insidiare dittatori inpopolari nella metà meridionale del paese, anche al prezzo di un genocidio se necessario.

Gli americani non sono soliti applicare il termine "imperialismo" alle azioni del loro governo, ma tale parola vi si adatta particolarmente. Nel suo senso più largo, imperialismo potrebbe essere definito come un'aggressione di uno Stato A contro le persone di un paese B, seguita dal consecutivo mantenimento coercitivo di tale dominio estero. Riprendendo l'esempio precedente, il dominio permanente dello Stato di Graustark sulla Belgravia nord-orientale sarebbe un esempio di simile imperialismo. Ma l'mperialismo non deve prendere la forma di un dominio diretto sulla popolazione estera. Infatti nel ventesimo secolo la forma indiretta ("neoimperialismo") ha progressivamente sostituito quella diretta; essa è più subdola e meno visibile ma non meno efficace di un dominio imperialistico vero e proprio. In questa situazione lo Stato imperiale comanda la popolazione estera tramite l'effettivo controllo dei governatori-marionette del luogo. Questa versione del moderno imperialismo occidentale è stata incisivamente definita dallo storico libertario Leonard Liggio:

«Il potere imperialista dei paesi occidentali....ha imposto sulle persone di tutto il mondo un doppio o rinforzato sistema di sfruttamento – l'imperialismo – ovvero il potere dei governi occidentali sostiene la classe dirigente locale in cambio dell'opportunità di imporre lo sfruttamento occidentale su quello già esistente degli Stati autoctoni.»[1]


Questa visione dell'America, come una potenza imperialista mondiale di vecchia data, ha preso piede tra gli storici negli ultimi anni, come risultato di un dotto lavoro eseguito da un gruppo ben definito di storici revisionisti della nuova sinistra ed ispirato dal professor William Appleman Williams. Ma questo fu anche il punto di vista dei conservatori come pure quello dei classici liberali "isolazionisti" durante la seconda guerra mondiale ed all'inizio della guerra fredda.[2]


Criticismi isolazionisti

L'ultima frecciata agli anti-interventisti ed anti-imperialisti della vecchia scuola classica e liberale isolazionista venne scoccata durante la guerra di Corea. Il conservatore George Morgenstern, capo editorialista del Chicago Tribune ed autore del primo libro revisionista su Pearl Harbor, scrisse un articolo sul settimanale di Washington Human Events dove descriveva nel dettaglio l'orrore imperialista del governo statunitense dalla guerra spagnolo-americana fino a quella di Corea. Morgenstern notò che "l'esaltato non-senso" col quale il presidente McKinley ha giustificato la guerra contro la Spagna era "familiare a tutti coloro che hanno assistito ai razionalismi evangelici di Wilson per l'intervento nella guerra in Europa, di Roosevelt nelle promesse del millennio....di Eisenhower nel considerare la "crociata in Europa" come qualcosa di andato a male, o di Truman, Stevenson, Paul Douglas o del New York Times nel predicare la guerra sacra in Corea".[3]

In un ampio e noto discorso all'incirca quando l'America fu sconfitta in nord Corea per mano dei cinesi nel tardo 1950, il conservatore isolazionista Joseph P. Kennedy chiese il ritiro degli Stati Uniti dalla Corea. Kennedy disse che "Naturalmente mi oppongo al comunismo ma io dissi che se porzioni d'Europa o Asia preferiscono essere comuniste o perfino avere un comunismo imposto, noi non possiamo fermarle". Il risultato della guerra fredda, la cosidetta dottrina Truman, e del piano Marshall fu un disastro, disse Kennedy rincarando la dose – un fallimento per acquistare amici ed una minaccia nelle zone di guerra asiatiche ed europee. Kennedy avvertì che:

«....metà di questo mondo non si sottometterà mai al comando dell'altra metà....Cosa ci guadagnamo a sostenere la politica coloniale francese in Indocina o a realizzare i concetti di democrazia di Syngman Rhee in Corea? Dovremmo mandare i marines sulle montagne del Tibet per mantenere il Dalai Lama sul suo trono?»


Economicamente, aggiunse Kennedy, come conseguenza della politica della guerra fredda ci siamo caricati di debiti non necessari. Se continuiamo ad indebolire la nostra economia "con una spesa eccessiva sia in guerre estere sia in nazioni estere, corriamo il pericolo di precipitare in un altro 1932 e di distruggere il sistema che stiamo cercando di salvare".

Kennedy arrivò alla conclusione che l'unica alternativa razionale per l'America era di abbandonare completamente la politica estera della guerra fredda: "andare via dalla Corea", da Berlino e dall'Europa. Gli Stati Uniti non potevano contenere le armate russe se avessero scelto di marciare sull'Europa e se l'Europa in seguito sarebbe diventata comunista, il comunismo "avrebbe potuto auto-distruggersi se si fosse unito in un'uinca forza...Più persone avrebbe dovuto governare, più necessario sarebbe diventato per quelli che governavano giustificare se stessi davanti quelli governati. Più persone sarebbero state sotto il suo giogo, più possibilità di rivolta si sarebbero create". E qui, al tempo in cui i protagonisti della guerra fredda stavano prevedendo un mondo comunista come sola ed unica strada da seguire nella vita, Joseph Kennedy evidenziò il maresciallo Tito come esempio portante di un'eventuale smembramento del mondo comunista: anche se "Mao in Cina probabilmente non prendeva i suoi ordini da Stalin...."

Kennedy si accorse che "questa politica, di certo, sarebbe stata criticata come una pacificazione a mezzo di concessioni. [Ma]....è pacificazione a mezzo di concessioni ritrattare promesse imprudenti?....Se è saggio nel nostro interesse non prendere impegni che possano intaccare la nostra sicurezza, e ciò è considerato soddisfacente, allora io sono per la pacificazione a mezzo di concessioni". Kennedy concluse dicendo che "i suggerimenti che ho dato (potrebbero) salvare le vite americane dalla fine dell'America, e non sprecarle nelle fredde colline della Corea o nelle già segnate pianure della Germania Ovest".[4]

Uno dei più taglienti ed incisivi attacchi alla politica estera americana emerso durante la guerra di Corea fu assestato dal giornalista veterano del classicismo liberale, Garet Garrett. Garrett iniziò il suo pamphlet, The Rise of Empire (1952), dichiarando "Abbiamo superato la linea di confine tra la Repubblica e l'Impero". Legando esplicitamente questa tesi col suo famoso pamphlet del 1930, The Revolution Was, con cui denunciò l'avvento della tirannia statalista tra le mura della forma repubblicana di governo sotto il New Deal, Garret ancora una volta vide "una rivoluzione tra le forme" della vecchia repubblica costituzionale. Garrett chiamò, per esempio, l'intervento di Truman in Corea senza dichiarazione esplicita di guerra "un'usurpazione" del potere decisionale del congresso.

Nel suo pamphlet Garrett lasciò intravedere i criteri, le caratteristiche dell'esistenza dell'impero. Il primo segno è il pieno controllo del potere esecutivo, tale dominio è facilmente riscontrabile nel non autorizzato intervento del presidente in Corea. Il secondo è la subordinazione della politica interna in favore di quella estera; il terzo "il predominio del pensiero militare"; il quarto "un sistema di nazioni satellite"; ed il quinto "un complesso di paure e vanterie", lodi tessute sulla straordinaria forza della nazione combinate con un senso di continuo terrore del nemico, del "barbaro" e dell'inattendibilità delle nazioni alleate. Garrett arguì che ognuna di queste caratteristiche si adattava benissimo agli Stati Uniti.

Avendo scoperto che gli Stati Uniti presentavano tutti i segni per essere considerati un impero, Garrett aggiunse che, come gli imperi del passato, gli Stati Uniti si sentivano dei "prigionieri della storia". Un modo per diffondere ulteriori paure e menzogne sulla "sicurezza collettiva" e per impersonare il presunto ruolo di protagonisti sulla scena mondiale. Garrett concluse:

«E' arrivato il nostro momento.

Per cosa?

Il nostro momento per assumerci le responsabilità di comandanti supremi del mondo,

il nostro momento per mantenere bilanciato il potere delle forze del male in tutto il mondo – in Europa, Asia ed Africa, nell'Atlantico e nel Pacifico, per mare e per terra – i malvagi in questo caso sono i barbari russi.

Il nostro momento per mantenere la pace nel mondo.

Il nostro momento per salvare la civiltà.

Il nostro momento per servire la razza umana.

Ma questo è il linguaggio adottato da un impero. L'impero romano non dubitò neanche per un momento che esistesse per difendere la civilizzazione. Le sue buone intenzioni erano la pace, la legge e l'ordine. Limpero spagnolo aggiunse all'elenco la salvezza. L'impero britannico aggiunse il nobile mito del fardello dell'uomo bianco. Noi contribuiamo aggiungendo democrazia e libertà. Tutto ciò che può essere ancora aggiunto resta comunque parte integrante dello stesso linguaggio. Un linguaggio di potere.»[5]


La guerra come salute dello Stato

Molti libertari si sentono a disagio con i problemi della politica estera e preferiscono spendere le proprie energia sia su questioni fondamentali della teoria libertaria o su ciò che concerne affari "interni" come il libero mercato, la privatizzazione delle poste o la gestione dei rifiuti. Però un'attacco in guerra o una politica estera guerrafondaia restano punti cruciali di massima importanza per i libertari. Per due fondamentali ragioni. Una è diventata un clichè, ma non per questo meno importante: la prevenzione di un olocausto nucleare. Per tutte le ragioni di vecchia data, morali ed economiche, contro una politica estera interventista se n'è aggiunta un altra da poco, ovvero la sempreverde minaccia di una distruzione globale. Se il mondo dovesse essere distrutto, tutti gli altri problemi e tutti gli altri -ismi (socialismo, capitalismo, liberalismo o libertarianismo) non avrebbero più importanza. Da qui il focus principale di una politica estera pacifica e la conclusione della minaccia nucleare.

L'altra ragione è che, oltre la mianaccia nucleare, la guerra, dicendolo con le parole del libertario Randolph Bourne "è la salute dello Stato". La guerra è sempre stata l'occasione di una grande – e di solito permanente – accelerazione ed intensificazione del potere dello Stato sulla società. La guerra è la grande scusa per mobilitare tutte le energie e risorse di una nazione, nel nome della retorica patriottica, sotto l'egida e il comando dell'apparato statale. E' in guerra che lo Stato mostra la sua vera faccia: rigonfiandosi in potere, numero, orgoglio, dominazione assoluta su economia e società. La stessa società diventa una guardiana del gregge, cercando di uccidere i presunti nemici, sopprimendo e bandendo tutti i dissidenti che sono scettici circa gli sofrzi di guerra, tradendo allegramente la verità per il cosidetto pubblico interesse. La società diventa una fortezza, con i suoi valori e le sue morali – come il libertario Albert Jay Nock una volta asserì – di "un'armata in marcia".

E' particolarmente ironico che la guerra da sempre permetta allo Stato di raccogliere le energie dei suoi cittadini sotto lo stendardo dell'aiutare a difendere un paese straniero contro qualche bestiale minaccia esterna. E' per questo mito cardine che lo Stato accresce la sua ingordigia e la guerra è la fandonia secondo cui la guerra stessa è la strategia con la quale lo Stato difende i propri cittadini. I fatti, comunque, dimostrano il contrario. Se la guerra è la salute dello Stato, può anche essere la sua più grande rovina. Uno Stato può solo "morire" dalla sconfitta in guerra o in una rivoluzione. In guerra, dunque, lo Stato mobilizza freneticamente i suoi cittadini a combattere per esso contro un altro Stato, sotto il pretesto che è attraverso il combattimento che li difende.[6]

Nella storia degli Stati Uniti la guerra è stata genericamente l'occasione principale per la quasi permanente intensificazione del potere statale sulla società. Nella guerra del 1812 contro l'Inghilterra, come abbiamo indicato sopra, venne alla luce il moderno sistema bancario inflazionistico con riserva frazionaria per essere usato su larga scala, come lo furono le tariffe protettive, la tassazione federale interna, l'esercito e la marina stanziali. Ed una diretta conseguenza dell'inflazione in tempo di guerra fu la ri-costituzione di una banca centrale, la Seconda Banca degli Stati Uniti. In pratica tutte queste politiche ed istituzioni stataliste sono rimaste in modo permanente anche dopo che la guerra terminò. La guerra civile ed il relativo sistema mono-partitico condusse alla permanente instaurazione di una politica neo-mercantilistica di Grande Governo ed il sovvenzionamento di un grande e vario business che trovava interesse nelle tariffe protettive, nell'acquisizione di enormi territori ed in altri sussidi come quelli alle ferrovie, la tassazione federale d'imposta indiretta ed un sistema bancario controllato federalmente. Condusse inoltre alla prima coscrizione federale obbligata ed all'imposta sul reddito, creando pericolosi precedenti per il futuro. La prima guerra mondiale portò la decisiva e fatidica svolta da un'economia relativamente libera e basata sul laissez-faire all'odierno sistema corporativistico e monopolistico statale in casa ed al continuo interventismo globale all'estero. La mobilitazione economica collettivista durante la guerra, capitanata dal presidente dell'industria bellica Bernard Baruch, soddisfò il sogno emergente degli alfieri del grande business e degli intellettuali progressisti per un'economia cartellizzata e monopolizzata, pianificata da un governo federale in comoda collaborazione con la leadership della grande finanza. E fu esattamente questo collettivismo in periodo di guerra che nutrì e sviluppò il movimento operaio in tutta la nazione, il quale avrebbe preso il posto di suo partner minore nella nuova economia corporativista statale. Questo temporaneo collettivismo, in più, servì per gli alfieri della grande finanza ed i politici corporativisti come un permanente segnale e modello dell'economia anche in tempo di pace, modello che avrebbero voluto imporre negli Stati Uniti. Come imperatore nel settore alimentare, Segretario del Commercio ed infine Presidente, Herbert C. Hoover contribuì a mantenere nel tempo questa economia statalista monopolista e la visione fu completata dal New Deal di Franklin D. Roosevelt nella recrudescenza delle agenzie e perfino del personale nel periodo di guerra.[7] Con la prima guerra mondiale inoltre si instaurò il vizio fisso dell'interventismo globale estero, il catenaccio del nuovo sistema imposto della Federal Reserve, l'imposta sul reddito permanente, alti bilanci federali, coscrizione di massa e profonde connessioni tra il boom economico, contratti di guerra e prestiti alle nazioni occidentali.

Con la seconda guerra mondiale il culmine di tutte queste tendenze fu completo: Franklin D. Roosevelt finalmente legò alla vita americana le promesse fondamentali del programma interno ed estero wilsoniano: associazione permanente tra Grande Governo, alta finanza e grandi unioni; un complesso bellico-industriale crescente e sempre in espansione; coscrizione; inflazione continua e crescente; un ruolo eterno e dispendioso come "poliziotto" a guardia di tutto il mondo. Il mondo di Roosevelt-Truman-Eisenhower-Kennedy-Johnson-Nixon-Ford-Carter (e ci sono solo piccole differenze sostanziali tra l'una e l'altra amministrazione) era "corporativo liberalista", appagatore dello Stato corporativista.

E' particolarmente ironico che i conservatori, solo nella retorica sostenitori di un'economia di libero mercato, siano così compiacenti ed addirittura ammiratori del nostro vasto complesso bellico-industriale. Non c'è più grande distorsione come il concetto di libero mercato quest'oggi in America. La maggior parte dei nostri scienziati ed ingegneri è stata deviata dalle ricerche base a scopo civile, invece dell'incremento della produttività e dello standard di vita dei consumatori si assiste ai buchi neri di fondi rappresentati dall'industria inefficiente, sprecona e non-produttiva militare e spaziale. Questi buchi neri sono in ogni porzione così rovinosi, ma infinitamente più distruttivi, come una gigantesca piramide dei faraoni. Non è un caso se l'economia di Keynes sia ritenuta essere l'economia per antonomasia dello Stato liberal-corporativista. Gli economisti keynesiani approvano senza riserve qualsiasi forma di spesa del governo, sia essa in piramidi, missili o acciaierie; per definizione tutte queste spese gonfiano il prodotto nazionale lordo, indifferentemente di quanto possa essere dispendioso. E' solo di recente che molti liberali hanno iniziato a svegliarsi dai mali dell'inflazione, degli sprechi e del militarismo che il liberalismo corporativista keynesiano ha consegnato all'America.

Con l'ampliamento delle possibilità del governo – in cose militari o civili – dove spendere, scienza ed industria sono state sempre più dirottate vero scopi improduttivi e verso processi altamente inefficienti. Il fine di soddisfare i consumatori il più efficentemente possibile è stato ampiamente rimpiazzato dall'accattivarsi i favori dei fornitori del governo, di solito nella forma di accordi altamente dispendiosi "con compensi forfettari". La politica, settore dopo settore, ha sostituito l'economia come guida delle attività industriali. In più dal momento che industrie ed intere regioni del paese sono diventate dipendenti dagli accordi militari e di governo, un'enorme interesse è stato creato nel proseguimento di tali programmi senza badare al fatto che possano perfino contenere la più banale delle scuse in necessità militari. La nostra prosperità economica è stato fatto in modo che dipendesse dalla narcotica spesa improduttiva ed anti-produttiva di governo.[8]

Uno dei critici più profetici e percettivi dell'entrata in guerra dell'America nella seconda guerra mondiale fu lo scrittore classico liberale John T. Flynn. Nel suo As we go Marching scritto nel bel mezzo della guerra che aveva tanto cercato di prevenire, Flynn imputò al New Deal, la cui espressione ha avuto culmine nel periodo di guerra, il deifinitivo stabilimento dello Stato corporativista, il quale sin dall'inizio del ventesimo secolo ha cercato importanti elementi con cui fare grandi affari. "L'idea generale" scriveva Flynn, era "di riordinare la società trasformando l'economia in un surrogato di pianificazione e coercizione invece di averne una libera, in cui gli affari sarebbero stati tutti portati in grandi gilde o in un'immensa struttura corporativa, combinando gli elementi di auto-controllo e supervisione governativa con un sistema di politica economica nazionale al fine di rafforzare questi provvedimenti....Ciò, dopo tutto, non è molto lontano da quello che il business ha rappresentato....".[9]

Il New Deal aveva dapprima tentato di costruire una simile società con il National Recovery Administration e con l'Agricultural Adjustament Administration, due grandi motori di "irreggimentazione" benvenuti sia dal mondo del lavoro che quello degli affari. Poi l'avvento della seconda guerra mondiale riportò alla ribalta questo programma collettivista – "un'economia sostenuta da grandi fiumi di debito sotto pieno controllo con quasi tutte le agenzie di pianificazione operanti in potere semi-totalitarista, il tutto condito da una vasta burocrazia". Dopo la guerra, Flynn profetizzò che il New Deal avrebbe tentato di espandere questo sistema anche all'estero. Predisse saggiamente che la grande enfasi della vasta spesa governativa sarebbe continuata anche dopo la guerra sempre verso questioni militari, dal momento che queste sono una forma di spesa governativa verso la quale i conservatori non si opporrebbero mai e sarebbe sempre benvenuta agli occhi degli operai visto che crea posti di lavoro. "Sebbene il militarismo sia uno dei lavori pubblici più affascinanti è un progetto sul quale una varietà di elementi nella comunità può sempre essere portata al consenso".[10]

Flynn predisse che la politica dell'America nel dopoguerra sarebbe stata "internazionalista" nel senso che sarebbe diventata imperialista. L'impersialismo "è senza dubbio internazionale....nel senso che la guerra è internazionale" ed è la stretta conseguenza di una politica bellica. "Faremo ciò che altri paesi hanno fatto; manterremo vive le paure nelle nostre persone attraverso storie di ambizioni aggressive di altri paesi e ci imbarcheremo in un'impresa imperialistica tutta nostra". L'imperialismo assicurerà agli Stati Uniti la presenza di "nemici" perenni, intraprendendo ciò che Charles A. Beard avrebbe chiamato in seguito "una guerra perenne per una pace perenne". Flynn faceva notare inoltre: "siamo riusciti ad acquisire basi in tutto il mondo....Non c'è nessuna parte al mondo dove non possano scoppiare problemi....in cui possiamo dichiarare che i nostri interessi siano minacciati. Nonostante la minaccia deve rimanere un argomento duraturo nelle mani degli imperialisti quando la guerra si conclude, per l'instaurazione di una vasta flotta navale ed un'enorme esercito pronto ad attaccare ovunque nel mondo o resistere ad un attacco da qualsiasi nemico che siamo obbligati ad avere".[11]

Una delle descrizioni più toccanti del cambiamento della vita americana prodotto dalla seconda guerra mondiale fu scritta da John Dos Passos, un radicale per tutta la vita ed individualista che fu spinto dall' "estrema sinistra" all' "estrema destra" proprio dalla marcia del New Deal. Dos Passos espresse la sua amarezza nel suo romando del dopoguerra, The Grand Design:

«A casa organizzavamo la protezione civile, banche del sague ed imitavamo il resto del mondo mettendo in piedi campi di concentramento (solo che noi li chiamavamo centri di ricollocazione) riempiendoli.

Cittadini americani di discendenza giapponese....senza benefici dell'habeas corpus....

Il presidente degli Stati Uniti parlava da sincero democratico e così anche i membri del Congresso. Nell'amministrazione c'erano devoti credenti nella libertà civile. "Adesso siamo occupati a combattere una guerra; organizzeremo tutte le nostre libertà in seguito" dissero....

La guerra è il tempo dei Cesari....

E gli americani erano tenuti a dire grazie per i secoli all'Uomo Comune trasferito per riallocazione dietro un filo spinato, che Dio l'aiuti.

Imparammo. Ci furono cose che imparammo a fare

ma non abbiamo imparato, malgrado la Costituzione, la Dichiarazione d'Indipendenza ed i grandi dibattiti di Richmond e Philadelphia

a mettere il potere sulle persone nella mani di un solo uomo

e di farglielo usare saggiamente.»[12]


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


(I). Link alla Prima Parte

(II). Link alla Terza Parte


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Note

[1] Leonard P. Liggio, Why the Futile Crusade? (New York: Center for Libertarian Studies, 1978), p. 3.

[2] Per i revisionisti della "Nuova Sinistra" si veda, in aggiunta allo stesso Williams, il lavoro di Gabriel Kolko, Lloyd Gardner, Stephen E. Ambrose, N. Gordon Levin, Jr., Walter LaFeber, Robert F. Smith, Barton Bernstein, e Ronald Radosh. Arrivarono a simili conclusioni ma da diverse tradizioni revisioniste Charles A. Beard e Harry Elmer Barnes, il libertario James J. Martin, ed i lliberale classico John T. Flynn e Garet Garrett.

Ronald Radosh, nel suo Prophets on the Right: Profiles of Conservative Critics of American Globalism (New York: Simon & Schuster 1975) ha dipinto l'opposizione isolazionista conservatrice all'intervento dell'America nella Seconda Guerra Mondiale. In numerosi articoli e nel suo Not to the Swift: The Old Isolationists in the Cold War Era (Lewisburg, Pa.: Bucknell University Press, 1978), Justus D. Doenecke ha cautamente analizzato il sentimento degli isolazionisti nella Seconda Guerra Mondiale a confronto con l'inizio della Guerra Fredda. Un richiamo ad un movimento comune di anti-interventismo e di anti-imperialismo da parte della sinistra e della destra può essere trovato in Carl Oglesby e Richard Shaull, Containment and Change (New York: Macmillan, 1967). Per una bibliografia degli scritti degli isolazionisti, si veda Doenecke, The Literature of Isolationism (Colorado Springs, Colo.: Ralph Myles, 1972).


[3] George Morgenstern, "The Past Marches On," Human Events (April 22, 1953). Il lavoro di revisione su Pearl Harbor fu di Morgenstern, Pearl Harbor: Story of a Secret War (New York: Devin-Adair 1947). Per più dettagli sui conservatori isolazionisti e la loro critica della Guerra Fredda, si veda Murray N. Rothbard, "The Foreign Policy of the Old Right," Journal of Libertarian Studies (Winter 1978).

[4] Joseph P. Kennedy, "Present Policy is Politically and Morally Bankrupt," Vital Speeches (January 1, 1951), pp. 170–73.

[5] Garet Garrett, The People's Pottage (Caldwell, Idaho: Caxton Printers, 1953), pp. 158–59, 129–174. Per più espressioni critiche dei conservatori e dei liberali classici anti-imperialisti sulla Guerra Fredda, si veda Doenecke, Not to the Swift, p. 79.

[6] Per più dettagli sulla teoria della politica estera libertaria, si veda Murray N. Rothbard, "War, Peace and the State," in Egalitarianism As A Revolt Against Nature and other Essays (Washington, D.C.: Libertarian Review Press, 1974) pp. 70–80.

[7] Numerosi storici revisionisti hanno di recente sviluppato questa interpretazione della storia americana del ventesimo secolo. In particolare si vedano i lavori di, tra lgi altri, Gabriel Kolko, James Weinstein, Robert Wiebe, Robert D. Cuff, William E. Leuchtenburg, Ellis D. Hawley, Melvin I. Urofsky, Joan Hoff Wilson, Ronald Radosh, Jerry Israel, David Eakins, e Paul Conkin – di nuovo, come nel revisionismo estero sotto l'ispirazione di William Appleman Williams. Una serie di saggi che usano questo approccio possono essere trovati in Ronald Radosh e Murray N. Rothbard, eds., A New History of Leviathan (New York: Dutton, 1972).

[8] Sulle distorsioni economiche imposte dalle politiche del sistema militare-industriale, si veda Seymour Melman, ed., The War Economy of the United States (New York: St. Martin's Press, 1971).

[9] John T. Flynn, As We Go Marching (New York: Doubleday, Doran & Co., 1944), pp. 193–94.

[10] Ibid., pp. 198, 201, 207.

[11] Ibid., pp. 212–13, 225–26.

[12] John Dos Passos, The Grand Design (Boston: Houghton Mifflin Co., 1949), pp. 416–418.

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