Bibliografia

mercoledì 30 giugno 2010

Guerra e politica estera #2


di Murray N. Rothbard

Politica estera americana

Abbiamo visto che i libertari hanno come prima responsabilità la preoccupazione circa l'invasività e l'aggressività dei loro Stati. I libertari di Graustark devono incentrare le loro azioni alla limitazione e riduzione dello Stato di Graustark stesso, i libertari walldaviani devono provare a tenere sotto controllo lo Stato di Walldavia e così via. Nelle questioni internazionali i libertari di ogni paese devono pressare i loro governi per trattenerli dal muovere guerra o intervenire in altro modo all'estero e dissuaderli da ogni guerra in cui potrebbero essere coinvolti. Se per nessun'altra ragione, quindi, i libertari negli Stati Uniti devono concentrare la loro attenzione sulle attività imperiali e guerrafondaie del loro governo.

Ma qui ci sono ancora altre ragioni su cui i libertari devono porre il focus per quanto riguarda l'invasività e l'interventismo estero degli Stati Uniti. Prendendo l'intero ventesimo secolo, il governo più guerrafondaio, più interventista, più imperialista è stato quello degli Stati Uniti. Una simile frase è usata per dare una scossa agli Americani, soggetti che hanno subito per decadi un'intensa dose di propaganda dall'Establishment circa l'indissolubile santità, le intenzioni pacifiche e la devozione per la giustizia del governo americano nelle questioni estere.

L'impulso espansionistico dello Stato americano prese piede (per poi aumentare) nel diciannovesimo secolo, dal baldanzoso salto oltreoceano nella guerra contro la Spagna, alla dominazione di Cuba, dalla sottomissione di Puerto Rico a quella delle Filippine, sopprimendo brutalmente anche una rivolta filippina per l'indipendenza. L'espansione imperiale degli Stati Uniti raggiunse il suo apice nella prima guerra mondiale, quando l'intromissione del presidente Wilson nel conflitto prolungò la guerra e l'uccisione di massa, e causò inavvertitamente la spaventosa devastazione la quale portò direttamente al trionfo bolscevico in Russia e quello nazista in Germania. Era il particolare pensiero di Wilson ad alimentare quel velo pietistico e moralistico di una nuova politica americana di intervento e dominazione globale, una politica atta a modellare ogni paese ad immagine dell'America, sopprimendo regimi radicali o marxisti da un lato e governi monarchici vecchio-stile dall'altra. Fu Woodrow Wilson ad organizzare tutte le caratteristiche della politica estera americana per il resto di quel secolo. Quasi tutti i successivi presidenti si sono considerati dei wilsoniani e seguaci delle sue politiche. Non fu un caso che entrambi Herbert Hoover e Franklin D. Roosevelt – per tanto tempo considerati agli estremi opposti -- hanno giocato ruoli importanti nella prima crociata americana quale fu la prima guerra mondiale e questi stessi uomini si rifecero alle proprie esperienze, maturate con tale interventismo bellico, per pianificare la loro future politiche interne ed estere. Ed uno dei primi atti di Richard Nixon come presidente, fu quello di posizionare una fotografia di Wilson sulla sua scrivania.

Nel nome "dell'auto-determinazione nazionale" e "della sicurezza collettiva" contro l'aggressione che il governo americano ha costantemente perseguito uno scopo ed una politica di dominazione globale, unita a quella di violenta repressione contro ribellioni che minacciavano lo status quo ovunque nel mondo. Sotto l'insegna del combattere "l'aggressione" in ogni luogo – comportandosi come il "poliziotto" del mondo – che è diventato esso stesso un grande e reitarante aggressore.

Chiunque si opponga a questa descrizione dell'America dovrebbe semplicemente considerare quale sia la tipica reazione americana a qualsiasi crisi interna o estera dovunque nel globo, perfino in qualche remoto luogo che non può essere raggiunto nemmeno dall'immaginazione può nascere una minaccia diretta o indiretta pronta a raggiungere i cittadini americani e la loro sicurezza. Il dittatore militare del "Bumblestan" è in grave pericolo; forse i suoi cittadini sono stanchi di essere sfruttati da lui e dai suoi colleghi. Gli Stati Uniti quindi diventano pesantemente coinvolti; articoli di giornalisti simpatizzanti il Dipartimento di Stato o il Pentagono diffondono l'allarme su cosa potrebbe accadere alla "stabilità" del Bumblestan ed alla sua area circostante se il dittatore dovesse essere rovesciato. Il dittatore si trasforma magicamente in un "pro-Americano" o "pro-occidente": ovvero è uno dei "nostri" invece che uno dei "loro". Milioni o addirittura miliardi di dollari in aiuti economici e militari sono inviati repentinamente dagli Stati Uniti per sostenere il capo bumblestano. Se il "nostro" dittatore si salva, allora si tira un sospiro di sollievo e si da inizio al giro di congratulazioni per aver salvato il "nostro" Stato. La continua e crescente oppressione del contribuente americano e dei cittadini bumblestani non sono, ovviamente, presenti nell'equazione. Oppure se si verificasse il caso in cui il dittatore bumblestano cada, l'isterismo colpirebbe la stampa americana e i burocrati. Ma dopo un pò, nonostante la "perdita" del Bumblestan gli americani tornerebbero a vivere la loro vita come prima – forse anche meglio, se ciò significa qualche miliardo in meno di aiuti esteri estorti da loro da mandare allo Stato del Bumblestan.

Se, quindi, si è compreso ed assimilato che gli Stati Uniti cercheranno di imporre la loro volontà in ogni crisi situata ovunque nel mondo, va da se che ciò rappresenta la chiara indicazione che l'America è una grande potenza interventista ed imperiale. L'unico posto in cui gli Stati Uniti non provano a piazzare il loro volere è l'Unione Sovietica ed i paesi comunisti – ma, senza dubbio, si è tentato già in passato. Woodrow Wilson, come anche l'Inghilterra e la Francia, ha provato molteplici volte a distruggere il bolscevismo sin dalla sua nascita, mandando truppe americane ed alleate in Russia per aiutare le forze zariste ("bianche") a sconfiggere i rossi. Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti fecero del loro meglio per spodestare i sovietici dall'Europa orientale e ci riuscirino cacciandoli dall'Azerbaijan, a nord-ovest dell'Iran. Aiutarono anche gli inglesi a distruggere il regime comunista in Grecia. Gli Stati Uniti fecero del loro meglio per mantenere in piedi la dittatura di Chiang Kai-shek in Cina, paracatutando molte truppe di Chiang a nord per occupare la Manchuria lasciata dai russi dopo la seconda guerra mondiale; allo stesso tempo tenendo i cinesi lontano dall'occupazione delle loro isole al largo, Quemoy e Matsu. Dopo aver virtualmente insediato il dittatore Batista a Cuba, gli Stati Uniti provarono disperatamente a spodestare il regime comunista di Castro, dall'operazione d'invasione pianificata dalla CIA chiamata Baia dei Porci fino agli accordi CIA-mafia per assassinare Castro.

Di tutte le recenti guerra americane, la più traumatica per gli americani e per il loro comportamento nella politica estera fu sicuramente la guerra del Vietnam. La guerra imperiale americana in Vietnam è stata, invece, un microcosmo di ciò che è andato tragicamente male con tale politica estera statunitense in questo secolo. L'intervento americano in Vietnam non è iniziato, come molte persone pensano, con Kennedy o con Eisenhower o perfino con Truman. E' iniziato non più tardi della data in cui il governo americano, sotto Franklin Roosevelt, consegnò un chiaro ed insultante ultimatum (26 novembre 1941) al Giappone per fargli ritirare le sue truppe armate dalla Cina e l'Indocina, fondamentalmente da quel territorio che sarebbe diventato poi il Vietnam. Questo ultimatum preparò l'inevitabile palcoscenico di Pearl Harbor. Ingaggiati in guerra nel Pacifico per scacciare il Giappone dal continente asiatico, gli Stati Uniti e le sue OSS (progenitrici della CIA) sostennero ed aiutarono la resistenza comunista nazionale di Ho Chi Minh contro il Giappone. Dopo la seconda guerra mondiale il Viet Minh era a capo di tutto il Vietnam del nord. Ma poi la Francia, precedente sovrano imperiale del Vietnam, tradì il suo accordo con Ho e massacrò le forze del Viet Minh. In questo doppio gioco la Francia era aiutata da Inghilterra e Stati Uniti.

Quando i francesci persero contro la guerriglia del ricostituito Viet Minh sotto Ho, gli Stati Uniti firmarono gli accordi di Ginevra del 1954, i quali indicavano che il Vietnam doveva essere celermente riunito in un'unica nazione; poichè era generalmente riconosciuto che le divisioni post-guerra del paese in nord e sud erano puramente arbitrarie e solamente attuate per convenienza militare. Ma, avendo tentato si scacciare con l'inganno il Viet Minh dalla metà sud del Vietnam, gli Stati Uniti procedettero a rompere gli accordi di Ginevra rimpiazzando i francesci ed il loro pupazzo Bao Dai con la propria marionetta Ngo Dinh Diem e la sua famiglia, che fu insediato come dittatore a comando del Vietnam del sud. Quando Diem divenne imbarazzante, la CIA pianificò una mossa per assassinarlo e rimpiazzarlo con un altro dittatore. Per sopprimere i Viet Cong, il movimento comunista d'indipendenza nazionale, gli Stati Uniti fecero piovere devastazione sia nel nord che nel sud del Vietnam – bombardando ed uccidendo milioni di vietnamiti e trascinando mezzo milione di soldati americani nelle paludi e nelle giungle del Vietnam.

Attraverso il tragico conflitto vietnamita, gli Stati Uniti imbastirono la bugia che quella era una guerra di "aggressione" da parte dello Stato comunista nord vietnamita contro uno Stato amico e "pro-occidente" (qualsiasi cosa il termine voglia significare) quale il Vietnam del sud, che li aveva chiamati per venire in suo soccorso. La guerra fu realmente un tentativo, seppur abbastanza lungo, destinato a sopprimere la volontà della grande massa di vietnamiti ed insidiare dittatori inpopolari nella metà meridionale del paese, anche al prezzo di un genocidio se necessario.

Gli americani non sono soliti applicare il termine "imperialismo" alle azioni del loro governo, ma tale parola vi si adatta particolarmente. Nel suo senso più largo, imperialismo potrebbe essere definito come un'aggressione di uno Stato A contro le persone di un paese B, seguita dal consecutivo mantenimento coercitivo di tale dominio estero. Riprendendo l'esempio precedente, il dominio permanente dello Stato di Graustark sulla Belgravia nord-orientale sarebbe un esempio di simile imperialismo. Ma l'mperialismo non deve prendere la forma di un dominio diretto sulla popolazione estera. Infatti nel ventesimo secolo la forma indiretta ("neoimperialismo") ha progressivamente sostituito quella diretta; essa è più subdola e meno visibile ma non meno efficace di un dominio imperialistico vero e proprio. In questa situazione lo Stato imperiale comanda la popolazione estera tramite l'effettivo controllo dei governatori-marionette del luogo. Questa versione del moderno imperialismo occidentale è stata incisivamente definita dallo storico libertario Leonard Liggio:

«Il potere imperialista dei paesi occidentali....ha imposto sulle persone di tutto il mondo un doppio o rinforzato sistema di sfruttamento – l'imperialismo – ovvero il potere dei governi occidentali sostiene la classe dirigente locale in cambio dell'opportunità di imporre lo sfruttamento occidentale su quello già esistente degli Stati autoctoni.»[1]


Questa visione dell'America, come una potenza imperialista mondiale di vecchia data, ha preso piede tra gli storici negli ultimi anni, come risultato di un dotto lavoro eseguito da un gruppo ben definito di storici revisionisti della nuova sinistra ed ispirato dal professor William Appleman Williams. Ma questo fu anche il punto di vista dei conservatori come pure quello dei classici liberali "isolazionisti" durante la seconda guerra mondiale ed all'inizio della guerra fredda.[2]


Criticismi isolazionisti

L'ultima frecciata agli anti-interventisti ed anti-imperialisti della vecchia scuola classica e liberale isolazionista venne scoccata durante la guerra di Corea. Il conservatore George Morgenstern, capo editorialista del Chicago Tribune ed autore del primo libro revisionista su Pearl Harbor, scrisse un articolo sul settimanale di Washington Human Events dove descriveva nel dettaglio l'orrore imperialista del governo statunitense dalla guerra spagnolo-americana fino a quella di Corea. Morgenstern notò che "l'esaltato non-senso" col quale il presidente McKinley ha giustificato la guerra contro la Spagna era "familiare a tutti coloro che hanno assistito ai razionalismi evangelici di Wilson per l'intervento nella guerra in Europa, di Roosevelt nelle promesse del millennio....di Eisenhower nel considerare la "crociata in Europa" come qualcosa di andato a male, o di Truman, Stevenson, Paul Douglas o del New York Times nel predicare la guerra sacra in Corea".[3]

In un ampio e noto discorso all'incirca quando l'America fu sconfitta in nord Corea per mano dei cinesi nel tardo 1950, il conservatore isolazionista Joseph P. Kennedy chiese il ritiro degli Stati Uniti dalla Corea. Kennedy disse che "Naturalmente mi oppongo al comunismo ma io dissi che se porzioni d'Europa o Asia preferiscono essere comuniste o perfino avere un comunismo imposto, noi non possiamo fermarle". Il risultato della guerra fredda, la cosidetta dottrina Truman, e del piano Marshall fu un disastro, disse Kennedy rincarando la dose – un fallimento per acquistare amici ed una minaccia nelle zone di guerra asiatiche ed europee. Kennedy avvertì che:

«....metà di questo mondo non si sottometterà mai al comando dell'altra metà....Cosa ci guadagnamo a sostenere la politica coloniale francese in Indocina o a realizzare i concetti di democrazia di Syngman Rhee in Corea? Dovremmo mandare i marines sulle montagne del Tibet per mantenere il Dalai Lama sul suo trono?»


Economicamente, aggiunse Kennedy, come conseguenza della politica della guerra fredda ci siamo caricati di debiti non necessari. Se continuiamo ad indebolire la nostra economia "con una spesa eccessiva sia in guerre estere sia in nazioni estere, corriamo il pericolo di precipitare in un altro 1932 e di distruggere il sistema che stiamo cercando di salvare".

Kennedy arrivò alla conclusione che l'unica alternativa razionale per l'America era di abbandonare completamente la politica estera della guerra fredda: "andare via dalla Corea", da Berlino e dall'Europa. Gli Stati Uniti non potevano contenere le armate russe se avessero scelto di marciare sull'Europa e se l'Europa in seguito sarebbe diventata comunista, il comunismo "avrebbe potuto auto-distruggersi se si fosse unito in un'uinca forza...Più persone avrebbe dovuto governare, più necessario sarebbe diventato per quelli che governavano giustificare se stessi davanti quelli governati. Più persone sarebbero state sotto il suo giogo, più possibilità di rivolta si sarebbero create". E qui, al tempo in cui i protagonisti della guerra fredda stavano prevedendo un mondo comunista come sola ed unica strada da seguire nella vita, Joseph Kennedy evidenziò il maresciallo Tito come esempio portante di un'eventuale smembramento del mondo comunista: anche se "Mao in Cina probabilmente non prendeva i suoi ordini da Stalin...."

Kennedy si accorse che "questa politica, di certo, sarebbe stata criticata come una pacificazione a mezzo di concessioni. [Ma]....è pacificazione a mezzo di concessioni ritrattare promesse imprudenti?....Se è saggio nel nostro interesse non prendere impegni che possano intaccare la nostra sicurezza, e ciò è considerato soddisfacente, allora io sono per la pacificazione a mezzo di concessioni". Kennedy concluse dicendo che "i suggerimenti che ho dato (potrebbero) salvare le vite americane dalla fine dell'America, e non sprecarle nelle fredde colline della Corea o nelle già segnate pianure della Germania Ovest".[4]

Uno dei più taglienti ed incisivi attacchi alla politica estera americana emerso durante la guerra di Corea fu assestato dal giornalista veterano del classicismo liberale, Garet Garrett. Garrett iniziò il suo pamphlet, The Rise of Empire (1952), dichiarando "Abbiamo superato la linea di confine tra la Repubblica e l'Impero". Legando esplicitamente questa tesi col suo famoso pamphlet del 1930, The Revolution Was, con cui denunciò l'avvento della tirannia statalista tra le mura della forma repubblicana di governo sotto il New Deal, Garret ancora una volta vide "una rivoluzione tra le forme" della vecchia repubblica costituzionale. Garrett chiamò, per esempio, l'intervento di Truman in Corea senza dichiarazione esplicita di guerra "un'usurpazione" del potere decisionale del congresso.

Nel suo pamphlet Garrett lasciò intravedere i criteri, le caratteristiche dell'esistenza dell'impero. Il primo segno è il pieno controllo del potere esecutivo, tale dominio è facilmente riscontrabile nel non autorizzato intervento del presidente in Corea. Il secondo è la subordinazione della politica interna in favore di quella estera; il terzo "il predominio del pensiero militare"; il quarto "un sistema di nazioni satellite"; ed il quinto "un complesso di paure e vanterie", lodi tessute sulla straordinaria forza della nazione combinate con un senso di continuo terrore del nemico, del "barbaro" e dell'inattendibilità delle nazioni alleate. Garrett arguì che ognuna di queste caratteristiche si adattava benissimo agli Stati Uniti.

Avendo scoperto che gli Stati Uniti presentavano tutti i segni per essere considerati un impero, Garrett aggiunse che, come gli imperi del passato, gli Stati Uniti si sentivano dei "prigionieri della storia". Un modo per diffondere ulteriori paure e menzogne sulla "sicurezza collettiva" e per impersonare il presunto ruolo di protagonisti sulla scena mondiale. Garrett concluse:

«E' arrivato il nostro momento.

Per cosa?

Il nostro momento per assumerci le responsabilità di comandanti supremi del mondo,

il nostro momento per mantenere bilanciato il potere delle forze del male in tutto il mondo – in Europa, Asia ed Africa, nell'Atlantico e nel Pacifico, per mare e per terra – i malvagi in questo caso sono i barbari russi.

Il nostro momento per mantenere la pace nel mondo.

Il nostro momento per salvare la civiltà.

Il nostro momento per servire la razza umana.

Ma questo è il linguaggio adottato da un impero. L'impero romano non dubitò neanche per un momento che esistesse per difendere la civilizzazione. Le sue buone intenzioni erano la pace, la legge e l'ordine. Limpero spagnolo aggiunse all'elenco la salvezza. L'impero britannico aggiunse il nobile mito del fardello dell'uomo bianco. Noi contribuiamo aggiungendo democrazia e libertà. Tutto ciò che può essere ancora aggiunto resta comunque parte integrante dello stesso linguaggio. Un linguaggio di potere.»[5]


La guerra come salute dello Stato

Molti libertari si sentono a disagio con i problemi della politica estera e preferiscono spendere le proprie energia sia su questioni fondamentali della teoria libertaria o su ciò che concerne affari "interni" come il libero mercato, la privatizzazione delle poste o la gestione dei rifiuti. Però un'attacco in guerra o una politica estera guerrafondaia restano punti cruciali di massima importanza per i libertari. Per due fondamentali ragioni. Una è diventata un clichè, ma non per questo meno importante: la prevenzione di un olocausto nucleare. Per tutte le ragioni di vecchia data, morali ed economiche, contro una politica estera interventista se n'è aggiunta un altra da poco, ovvero la sempreverde minaccia di una distruzione globale. Se il mondo dovesse essere distrutto, tutti gli altri problemi e tutti gli altri -ismi (socialismo, capitalismo, liberalismo o libertarianismo) non avrebbero più importanza. Da qui il focus principale di una politica estera pacifica e la conclusione della minaccia nucleare.

L'altra ragione è che, oltre la mianaccia nucleare, la guerra, dicendolo con le parole del libertario Randolph Bourne "è la salute dello Stato". La guerra è sempre stata l'occasione di una grande – e di solito permanente – accelerazione ed intensificazione del potere dello Stato sulla società. La guerra è la grande scusa per mobilitare tutte le energie e risorse di una nazione, nel nome della retorica patriottica, sotto l'egida e il comando dell'apparato statale. E' in guerra che lo Stato mostra la sua vera faccia: rigonfiandosi in potere, numero, orgoglio, dominazione assoluta su economia e società. La stessa società diventa una guardiana del gregge, cercando di uccidere i presunti nemici, sopprimendo e bandendo tutti i dissidenti che sono scettici circa gli sofrzi di guerra, tradendo allegramente la verità per il cosidetto pubblico interesse. La società diventa una fortezza, con i suoi valori e le sue morali – come il libertario Albert Jay Nock una volta asserì – di "un'armata in marcia".

E' particolarmente ironico che la guerra da sempre permetta allo Stato di raccogliere le energie dei suoi cittadini sotto lo stendardo dell'aiutare a difendere un paese straniero contro qualche bestiale minaccia esterna. E' per questo mito cardine che lo Stato accresce la sua ingordigia e la guerra è la fandonia secondo cui la guerra stessa è la strategia con la quale lo Stato difende i propri cittadini. I fatti, comunque, dimostrano il contrario. Se la guerra è la salute dello Stato, può anche essere la sua più grande rovina. Uno Stato può solo "morire" dalla sconfitta in guerra o in una rivoluzione. In guerra, dunque, lo Stato mobilizza freneticamente i suoi cittadini a combattere per esso contro un altro Stato, sotto il pretesto che è attraverso il combattimento che li difende.[6]

Nella storia degli Stati Uniti la guerra è stata genericamente l'occasione principale per la quasi permanente intensificazione del potere statale sulla società. Nella guerra del 1812 contro l'Inghilterra, come abbiamo indicato sopra, venne alla luce il moderno sistema bancario inflazionistico con riserva frazionaria per essere usato su larga scala, come lo furono le tariffe protettive, la tassazione federale interna, l'esercito e la marina stanziali. Ed una diretta conseguenza dell'inflazione in tempo di guerra fu la ri-costituzione di una banca centrale, la Seconda Banca degli Stati Uniti. In pratica tutte queste politiche ed istituzioni stataliste sono rimaste in modo permanente anche dopo che la guerra terminò. La guerra civile ed il relativo sistema mono-partitico condusse alla permanente instaurazione di una politica neo-mercantilistica di Grande Governo ed il sovvenzionamento di un grande e vario business che trovava interesse nelle tariffe protettive, nell'acquisizione di enormi territori ed in altri sussidi come quelli alle ferrovie, la tassazione federale d'imposta indiretta ed un sistema bancario controllato federalmente. Condusse inoltre alla prima coscrizione federale obbligata ed all'imposta sul reddito, creando pericolosi precedenti per il futuro. La prima guerra mondiale portò la decisiva e fatidica svolta da un'economia relativamente libera e basata sul laissez-faire all'odierno sistema corporativistico e monopolistico statale in casa ed al continuo interventismo globale all'estero. La mobilitazione economica collettivista durante la guerra, capitanata dal presidente dell'industria bellica Bernard Baruch, soddisfò il sogno emergente degli alfieri del grande business e degli intellettuali progressisti per un'economia cartellizzata e monopolizzata, pianificata da un governo federale in comoda collaborazione con la leadership della grande finanza. E fu esattamente questo collettivismo in periodo di guerra che nutrì e sviluppò il movimento operaio in tutta la nazione, il quale avrebbe preso il posto di suo partner minore nella nuova economia corporativista statale. Questo temporaneo collettivismo, in più, servì per gli alfieri della grande finanza ed i politici corporativisti come un permanente segnale e modello dell'economia anche in tempo di pace, modello che avrebbero voluto imporre negli Stati Uniti. Come imperatore nel settore alimentare, Segretario del Commercio ed infine Presidente, Herbert C. Hoover contribuì a mantenere nel tempo questa economia statalista monopolista e la visione fu completata dal New Deal di Franklin D. Roosevelt nella recrudescenza delle agenzie e perfino del personale nel periodo di guerra.[7] Con la prima guerra mondiale inoltre si instaurò il vizio fisso dell'interventismo globale estero, il catenaccio del nuovo sistema imposto della Federal Reserve, l'imposta sul reddito permanente, alti bilanci federali, coscrizione di massa e profonde connessioni tra il boom economico, contratti di guerra e prestiti alle nazioni occidentali.

Con la seconda guerra mondiale il culmine di tutte queste tendenze fu completo: Franklin D. Roosevelt finalmente legò alla vita americana le promesse fondamentali del programma interno ed estero wilsoniano: associazione permanente tra Grande Governo, alta finanza e grandi unioni; un complesso bellico-industriale crescente e sempre in espansione; coscrizione; inflazione continua e crescente; un ruolo eterno e dispendioso come "poliziotto" a guardia di tutto il mondo. Il mondo di Roosevelt-Truman-Eisenhower-Kennedy-Johnson-Nixon-Ford-Carter (e ci sono solo piccole differenze sostanziali tra l'una e l'altra amministrazione) era "corporativo liberalista", appagatore dello Stato corporativista.

E' particolarmente ironico che i conservatori, solo nella retorica sostenitori di un'economia di libero mercato, siano così compiacenti ed addirittura ammiratori del nostro vasto complesso bellico-industriale. Non c'è più grande distorsione come il concetto di libero mercato quest'oggi in America. La maggior parte dei nostri scienziati ed ingegneri è stata deviata dalle ricerche base a scopo civile, invece dell'incremento della produttività e dello standard di vita dei consumatori si assiste ai buchi neri di fondi rappresentati dall'industria inefficiente, sprecona e non-produttiva militare e spaziale. Questi buchi neri sono in ogni porzione così rovinosi, ma infinitamente più distruttivi, come una gigantesca piramide dei faraoni. Non è un caso se l'economia di Keynes sia ritenuta essere l'economia per antonomasia dello Stato liberal-corporativista. Gli economisti keynesiani approvano senza riserve qualsiasi forma di spesa del governo, sia essa in piramidi, missili o acciaierie; per definizione tutte queste spese gonfiano il prodotto nazionale lordo, indifferentemente di quanto possa essere dispendioso. E' solo di recente che molti liberali hanno iniziato a svegliarsi dai mali dell'inflazione, degli sprechi e del militarismo che il liberalismo corporativista keynesiano ha consegnato all'America.

Con l'ampliamento delle possibilità del governo – in cose militari o civili – dove spendere, scienza ed industria sono state sempre più dirottate vero scopi improduttivi e verso processi altamente inefficienti. Il fine di soddisfare i consumatori il più efficentemente possibile è stato ampiamente rimpiazzato dall'accattivarsi i favori dei fornitori del governo, di solito nella forma di accordi altamente dispendiosi "con compensi forfettari". La politica, settore dopo settore, ha sostituito l'economia come guida delle attività industriali. In più dal momento che industrie ed intere regioni del paese sono diventate dipendenti dagli accordi militari e di governo, un'enorme interesse è stato creato nel proseguimento di tali programmi senza badare al fatto che possano perfino contenere la più banale delle scuse in necessità militari. La nostra prosperità economica è stato fatto in modo che dipendesse dalla narcotica spesa improduttiva ed anti-produttiva di governo.[8]

Uno dei critici più profetici e percettivi dell'entrata in guerra dell'America nella seconda guerra mondiale fu lo scrittore classico liberale John T. Flynn. Nel suo As we go Marching scritto nel bel mezzo della guerra che aveva tanto cercato di prevenire, Flynn imputò al New Deal, la cui espressione ha avuto culmine nel periodo di guerra, il deifinitivo stabilimento dello Stato corporativista, il quale sin dall'inizio del ventesimo secolo ha cercato importanti elementi con cui fare grandi affari. "L'idea generale" scriveva Flynn, era "di riordinare la società trasformando l'economia in un surrogato di pianificazione e coercizione invece di averne una libera, in cui gli affari sarebbero stati tutti portati in grandi gilde o in un'immensa struttura corporativa, combinando gli elementi di auto-controllo e supervisione governativa con un sistema di politica economica nazionale al fine di rafforzare questi provvedimenti....Ciò, dopo tutto, non è molto lontano da quello che il business ha rappresentato....".[9]

Il New Deal aveva dapprima tentato di costruire una simile società con il National Recovery Administration e con l'Agricultural Adjustament Administration, due grandi motori di "irreggimentazione" benvenuti sia dal mondo del lavoro che quello degli affari. Poi l'avvento della seconda guerra mondiale riportò alla ribalta questo programma collettivista – "un'economia sostenuta da grandi fiumi di debito sotto pieno controllo con quasi tutte le agenzie di pianificazione operanti in potere semi-totalitarista, il tutto condito da una vasta burocrazia". Dopo la guerra, Flynn profetizzò che il New Deal avrebbe tentato di espandere questo sistema anche all'estero. Predisse saggiamente che la grande enfasi della vasta spesa governativa sarebbe continuata anche dopo la guerra sempre verso questioni militari, dal momento che queste sono una forma di spesa governativa verso la quale i conservatori non si opporrebbero mai e sarebbe sempre benvenuta agli occhi degli operai visto che crea posti di lavoro. "Sebbene il militarismo sia uno dei lavori pubblici più affascinanti è un progetto sul quale una varietà di elementi nella comunità può sempre essere portata al consenso".[10]

Flynn predisse che la politica dell'America nel dopoguerra sarebbe stata "internazionalista" nel senso che sarebbe diventata imperialista. L'impersialismo "è senza dubbio internazionale....nel senso che la guerra è internazionale" ed è la stretta conseguenza di una politica bellica. "Faremo ciò che altri paesi hanno fatto; manterremo vive le paure nelle nostre persone attraverso storie di ambizioni aggressive di altri paesi e ci imbarcheremo in un'impresa imperialistica tutta nostra". L'imperialismo assicurerà agli Stati Uniti la presenza di "nemici" perenni, intraprendendo ciò che Charles A. Beard avrebbe chiamato in seguito "una guerra perenne per una pace perenne". Flynn faceva notare inoltre: "siamo riusciti ad acquisire basi in tutto il mondo....Non c'è nessuna parte al mondo dove non possano scoppiare problemi....in cui possiamo dichiarare che i nostri interessi siano minacciati. Nonostante la minaccia deve rimanere un argomento duraturo nelle mani degli imperialisti quando la guerra si conclude, per l'instaurazione di una vasta flotta navale ed un'enorme esercito pronto ad attaccare ovunque nel mondo o resistere ad un attacco da qualsiasi nemico che siamo obbligati ad avere".[11]

Una delle descrizioni più toccanti del cambiamento della vita americana prodotto dalla seconda guerra mondiale fu scritta da John Dos Passos, un radicale per tutta la vita ed individualista che fu spinto dall' "estrema sinistra" all' "estrema destra" proprio dalla marcia del New Deal. Dos Passos espresse la sua amarezza nel suo romando del dopoguerra, The Grand Design:

«A casa organizzavamo la protezione civile, banche del sague ed imitavamo il resto del mondo mettendo in piedi campi di concentramento (solo che noi li chiamavamo centri di ricollocazione) riempiendoli.

Cittadini americani di discendenza giapponese....senza benefici dell'habeas corpus....

Il presidente degli Stati Uniti parlava da sincero democratico e così anche i membri del Congresso. Nell'amministrazione c'erano devoti credenti nella libertà civile. "Adesso siamo occupati a combattere una guerra; organizzeremo tutte le nostre libertà in seguito" dissero....

La guerra è il tempo dei Cesari....

E gli americani erano tenuti a dire grazie per i secoli all'Uomo Comune trasferito per riallocazione dietro un filo spinato, che Dio l'aiuti.

Imparammo. Ci furono cose che imparammo a fare

ma non abbiamo imparato, malgrado la Costituzione, la Dichiarazione d'Indipendenza ed i grandi dibattiti di Richmond e Philadelphia

a mettere il potere sulle persone nella mani di un solo uomo

e di farglielo usare saggiamente.»[12]


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


(I). Link alla Prima Parte

(II). Link alla Terza Parte


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Note

[1] Leonard P. Liggio, Why the Futile Crusade? (New York: Center for Libertarian Studies, 1978), p. 3.

[2] Per i revisionisti della "Nuova Sinistra" si veda, in aggiunta allo stesso Williams, il lavoro di Gabriel Kolko, Lloyd Gardner, Stephen E. Ambrose, N. Gordon Levin, Jr., Walter LaFeber, Robert F. Smith, Barton Bernstein, e Ronald Radosh. Arrivarono a simili conclusioni ma da diverse tradizioni revisioniste Charles A. Beard e Harry Elmer Barnes, il libertario James J. Martin, ed i lliberale classico John T. Flynn e Garet Garrett.

Ronald Radosh, nel suo Prophets on the Right: Profiles of Conservative Critics of American Globalism (New York: Simon & Schuster 1975) ha dipinto l'opposizione isolazionista conservatrice all'intervento dell'America nella Seconda Guerra Mondiale. In numerosi articoli e nel suo Not to the Swift: The Old Isolationists in the Cold War Era (Lewisburg, Pa.: Bucknell University Press, 1978), Justus D. Doenecke ha cautamente analizzato il sentimento degli isolazionisti nella Seconda Guerra Mondiale a confronto con l'inizio della Guerra Fredda. Un richiamo ad un movimento comune di anti-interventismo e di anti-imperialismo da parte della sinistra e della destra può essere trovato in Carl Oglesby e Richard Shaull, Containment and Change (New York: Macmillan, 1967). Per una bibliografia degli scritti degli isolazionisti, si veda Doenecke, The Literature of Isolationism (Colorado Springs, Colo.: Ralph Myles, 1972).


[3] George Morgenstern, "The Past Marches On," Human Events (April 22, 1953). Il lavoro di revisione su Pearl Harbor fu di Morgenstern, Pearl Harbor: Story of a Secret War (New York: Devin-Adair 1947). Per più dettagli sui conservatori isolazionisti e la loro critica della Guerra Fredda, si veda Murray N. Rothbard, "The Foreign Policy of the Old Right," Journal of Libertarian Studies (Winter 1978).

[4] Joseph P. Kennedy, "Present Policy is Politically and Morally Bankrupt," Vital Speeches (January 1, 1951), pp. 170–73.

[5] Garet Garrett, The People's Pottage (Caldwell, Idaho: Caxton Printers, 1953), pp. 158–59, 129–174. Per più espressioni critiche dei conservatori e dei liberali classici anti-imperialisti sulla Guerra Fredda, si veda Doenecke, Not to the Swift, p. 79.

[6] Per più dettagli sulla teoria della politica estera libertaria, si veda Murray N. Rothbard, "War, Peace and the State," in Egalitarianism As A Revolt Against Nature and other Essays (Washington, D.C.: Libertarian Review Press, 1974) pp. 70–80.

[7] Numerosi storici revisionisti hanno di recente sviluppato questa interpretazione della storia americana del ventesimo secolo. In particolare si vedano i lavori di, tra lgi altri, Gabriel Kolko, James Weinstein, Robert Wiebe, Robert D. Cuff, William E. Leuchtenburg, Ellis D. Hawley, Melvin I. Urofsky, Joan Hoff Wilson, Ronald Radosh, Jerry Israel, David Eakins, e Paul Conkin – di nuovo, come nel revisionismo estero sotto l'ispirazione di William Appleman Williams. Una serie di saggi che usano questo approccio possono essere trovati in Ronald Radosh e Murray N. Rothbard, eds., A New History of Leviathan (New York: Dutton, 1972).

[8] Sulle distorsioni economiche imposte dalle politiche del sistema militare-industriale, si veda Seymour Melman, ed., The War Economy of the United States (New York: St. Martin's Press, 1971).

[9] John T. Flynn, As We Go Marching (New York: Doubleday, Doran & Co., 1944), pp. 193–94.

[10] Ibid., pp. 198, 201, 207.

[11] Ibid., pp. 212–13, 225–26.

[12] John Dos Passos, The Grand Design (Boston: Houghton Mifflin Co., 1949), pp. 416–418.

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sabato 26 giugno 2010

Guerra e politica estera #1

Straordinario saggio di Rothbard in cui analizza fin nei minimi dettagli ogni aspetto della guerra e la relativa politca estera degli Stati. Non solo, adduce anche alle riflessioni personali le posizioni che il libertario dovrebbe prendere in questi casi. Non posso far altro che ammirare una simile figura e lasciarvi il tempo di leggere

Prima parte di tre.
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di Murray N. Rothbard


"Isolazionismo" fu coniato come termine diffamatorio da applicare agli oppositori dell'entrata in guerra dell'America nella seconda guerra mondiale. Dal momento che la parola era spesso associata a persone imputate di essere pro-naziste, "isolazionista" prese l'accezione "per chi stava a destra" diventando di conseguenza un termine generalmente di carattere negativo. Se non attivamente pro-nazisti, gli "isolazionisti" erano considerati molto vicini alla condizione di ignoranti poichè ignoravano ciò che succedesse intorno a loro, in contrapposizione ai preoccupati "internazionalisti" i quali erano favorevoli alle crociate dell'America in tutto il mondo. Nell'ultima decade, invece, le forze contrarie alle guerre sono state considerate "di sinistra" e gli internazionalisti da Lyndon Johnson a Jimmy Carter ed i loro seguaci hanno cercato di punzecchiare questi "isolazionisti", o come adesso etichettati "neoisolazionisti", della sinistra odierna.

Destra o sinistra? Nella prima guerra mondiale, i contrari alla guerra erano pressapoco attaccati come ora e denominati "di sinistra", anche se i loro ranghi includevano libertari e sostenitori del capitalismo laissez-faire. Infatti, il centro di maggior opposizione contro la guerra dell'America con la Spagna e contro la guerra con le Filippine per sopprimere la loro ribellione all'inizio del secolo, era formato da liberali del laissez-faire, uomini come il sociologo ed economo William Graham Summer e il mercante di Boston Edward Atkinson (il quale fondò la "Lega Anti-Imperialismo"). In più Atkinson e Summer si potevano correttamente inserire nella grande tradizione dei classici liberali inglesi del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, ed in particolare tanto "estremisti" del laissez-faire come Richard Cobden e John Bright della "Scuola di Manchester". Cobden e Bright furono in testa alla vigorosa opposizione verso ogni guerra inglese e politica estera interventista del loro periodo e per i suoi sforzi Cobden non era conosciuto come un "isolazionista" ma come "un uomo internazionale".[1] Fino alla campagna diffamatoria degli anni '30, gli oppositori di guerra erano ritenuti i veri "internazionalisti", uomini che si opponevano all'ingrandimento degli stati-nazione e favorivano la pace, il libero mercato, la libera migrazione e scambi culturali pacifici tra le persone di tutte le nazioni. L'intervento estero è "internazionale" solo nel senso che la guerra è internazionale: la coercizione, sia con la minaccia dell'uso della forza o col movimento di truppe senza diritto, attraverserà sempre le frontiere tra una nazione ed un altra.

"Isolazionismo" ha un suono di destra; "neutralità" e "coesistenza pacifica" suonano di sinistra. Ma la loro essenza è la stessa: opposizione alla guerra ed interventismo politico tra le nazioni. Questa è stata la posizione delle forze contrarie alla guerra per due secoli, sia che fossero i classici liberali del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, sia che fossero "i membri della sinistra" della prima guerra mondiale e della guerra fredda, sia che fossero "i membri della destra" della seconda guerra mondiale. In pochissimi casi questi anti-interventisti hanno favorito letteralmente "l'isolamento": ciò che hanno realmente favorito è il non-interventismo negli affari degli altri paesi, insieme agli internazionalismi economici e culturali nel senso di scambi in un mercato libero, investimenti ed interscambi tra i cittadini di tutte le nazioni. E questa è l'essenza della posizione libertaria.


Limitando il Governo

I libertari supportano l'abolizione di tutti gli Stati ovunque ed il rifornimento di quelle ragionevoli funzioni, adesso scarsamente garantite dai governi (come polizia, corti...etc.), gestito dal libero mercato. I libertari supportano la libertà come un naturale diritto dell'uomo e la invocano non solo per gli Americani ma per tutte le persone. In più in un mondo puramente libertario non ci sarebbe nessuna "politica estera" perchè non ci sarebbero ne Stati ne governi con monopoli coercitivi sopra specifiche aree territoriali. Ma finchè viviamo in un mondo costruito su nazioni-stato, e finchè tale sistema molto improbabilmente scomparirà in futuro, qual'è l'atteggiamento dei libertari per quanto concerne la politica estera in questo mondo Stato-dipendente?

Nell'attesa del dissolvimento degli Stati, i libertari desiderano limitare, ridurre, il più possibile ed in tutte le direzioni l'area in cui il governo esercita il proprio potere. Abbiamo già dimostrato come questo principio di "de-statalizzazione" potrebbe funzionare in varie ed importanti situazioni "domestiche", dove il fine è respingere il ruolo del governo e permettere alle energie volontarie e spontanee delle persone di emergere pienamente, attraverso l'interazione pacifica, riscontrabile nell'economia di libero mercato. Negli affari esteri lo scopo è lo stesso: impedire al governo di interferire nelle questioni di altri governi o altri paesi. L' "isolazionismo" politico e la coesistenza pacifica -- frenandosi dall'agire in altri paesi -- è, quindi, la controparte libertaria che si batte per politiche del laissez-faire sul proprio territorio. L'idea è di impedire al governo di agire all'estero propio così come glielo si impedisce in patria. L'isolazionismo o la coesistenza pacifica sono la controparte per la politica estera di una strategia limitante il governo nel proprio territorio.

Nello specifico l'intera landa terrestre è tuttora parcellizzata in vari Stati, ed ogni preciso territorio è comandato da un governo centrale col monopolio della violenza sulla suddetta area. Nelle relazioni tra gli Stati, quindi, lo scopo del libertario consiste nell'impedire ad ognuno di questi Stati di estendere la propria violenza su altri paesi, cosìcche la tirannia statale sia almeno confinata nel suo stesso distretto. Il libertario ha interesse alla riduzione, quanto più possibile, dell'aggressione statale verso tutti gli individui. Per le persone di tutti i paesi l'unica via per fare ciò, in fatto di questioni estere, è fare pressione verso gli Stati affinchè badino solo all'area che controllano e non attacchino altri Stati oppure i relativi cittadini. In poche parole l'obiettivo del libertario è confinare ogni Stato esistente al più basso livello possibile d'intromissione nei diritti e nella propietà delle persone. E ciò significa la completa estraniazione dalla guerra. Le persone di ogni rispettivo Stato dovrebbero pressare quest'ultimo a non attaccarne un altro, oppure, se dovesse scoppiare un conflitto, allontanarsi dal medesimo il più velocemente possibile.

Immaginiamo per un momento un mondo costituito da due ipotetici paesi: Graustark e Belgravia. Ognuno è comandato dal proprio Stato. Che accade se il governo di Graustark invade il territorio di Belgravia? Dal punto di vista libertario accadono immediatamente due orrori. Primo, il governo di Graustark inizia a massacrare cittadini innocenti di Belgravia, persone che non sono implicate in nessun crimine che il governo di Belgravia possa aver commesso. La guerra, quindi, non è altro che omicidio di massa, e questa massiccia "invasione" nel diritto alla vita, nella propria gestione di se stessi, nel numero delle persone non è solo un crimine per i libertari, ma IL crimine definitivo. Secondo, dal momento che i governi ottengono le loro entrate dal ladrocinio della tassazione coercitiva, mobilitazioni e lanci di truppe inevitabilmente scatenano un aumento delle tasse a Graustark. Per queste due ragioni, quindi, i libertari si oppongono alla guerra.

Però non è sempre stato così. Nel Medioevo lo scoppio di guerre era molto basso. Prima che arrivassero le armi moderne, gli armamenti erano così pochi che i governi dovevano -- e spesso lo facevano -- concentrare la loro violenza, il più possibile, sull'esercito nemico. E' vero che le tasse aumentavano, ma non c'erano stragi di civili innocenti. Nell'era premoderna, non solo la potenza di fuoco era così bassa da confinare la battaglia tra gli eserciti, ma non c'era nessuna nazione-stato centrale che potesse parlare in nome di tutti gli abitanti di un determinato territorio. Se un gruppo di re o baroni ne combatteva un altro, in quell'area non era percepito che tutti dovessero sostenere una causa o l'altra. In più gli eserciti erano formati da piccole bande di mercenari a pagamento, differentemente dalla coscrizione di massa degli eserciti schiavizzati dai loro rispettivi comandanti. Di solito, un passatempo preferito dal popolo era proprio quello di guardare la battaglia in sicurezza dai bastioni della città e la guerra era considerata come qualcosa simile ad una "sfida sportiva". Ma con l'avvento degli Stati e delle armi di distruzione di massa moderne, il massacro di civili, come la coscrizione di massa, è stata una politica cardine della strategia bellica statale.

Detto ciò, nonostante l'opposizione dei libertari, la guerra è scoppiata. Decisamente la posizione dei libertari dovrebbe essere quella finchè la guerra continua, affinchè gli assalti verso civili innocenti possano essere diminuiti drasticamente. Una legge internazionale vecchio-stile aveva due splendide postille per adempiere questo fine: le "leggi della guerra" e le "leggi della neutralità" (o diritti neutrali). Le leggi della neutralità erano strutturate appositamente per confinare la guerra solo tra gli Stati guerreggianti, in modo che non fossero attaccati Stati che non avevano nulla a che fare col conflitto e, in particolare, civili di altre nazioni. Da qui l'importanza di antichi ed ormai quasi dimenticati principi Americani come "la libertà dei mari" o severe limitazioni nei diritti degli Stati guerreggianti per bloccare il neutrale commercio con i paesi nemici. In breve il libertario tenta di convincere gli Stati neutrali a rimanere neutrali nei vari conflitti, cercando di convincere anche gli Stati guerreggianti a rispettare pienamente i diritti dei cittadini neutrali. Le "leggi di guerra", dalla loro parte, furono ideate per limitare il più possibile l'invasività degli Stati nei confronti dei diritti dei civili nei rispettivi paesi. Come il giurista inglese F.J.P. Veale disse:

«Il principio fondamentale di questo sistema di regole si basava sul fatto che le ostilità tra persone civilizzate dovessero limitarsi esclusivamente alle forze armate che combattevano....Si ricava quindi una distinzione tra combattenti e non-combattenti stabilendo quindi che l'unico interesse dei combattenti è di combattersi a vicenda e, di conseguenza, che i non-combattenti devono essere esclusi dall'ambito delle operazioni militari.»[2]


Una modificazione di questo concetto fu applicato con la proibizione di bombardare tutte quelle città che non erano sulla linea del fronte, questa regola fu osservata durante i secoli scorsi nelle guerre dell'Europa occidentale finchè l'Inghilterra nella seconda guerra mondiale lanciò un bombardamento strategico su civili. Senza dubbio ora tale concetto è scarsamente ricordato, dal momento che la vera natura della moderna strategia bellica nucleare rimane lo sterminio di tutti i cittadini.

Ritornando all'esempio ipotetico di Belgravia e Graustark, con Graustark che ha invaso Belgravia, supponiamo ora che un terzo governo, Walldavia, entri in guerra per difendere Belgravia contro "l'aggressione di Graustark". E' giustificabile quest'azione? Eccolo qui, dunque, il germe dannoso della teoria "della sicurezza collettiva" del ventesimo secolo -- l'idea che quando un governo "ne aggredisce" un altro è dovere morale degli altri governi del mondo unirsi per difendere "la vittima-Stato" aggredita.

Ci sono smisurate crepe nel concetto di sicurezza collettiva contro "l'aggressione". Una è che quando Walldavia, o qualsiasi altro Stato, entra in lotta esso stesso sta espandendo ed incrementando il tasso di aggressione, poichè:
  1. sta massacrando ingiustamente migliaia di civili di Graustark;
  2. sta aumentando le tasse sul popolo di Walldavia;
  3. in questi tempi in cui la linea demarcativa tra stato e cittadini è pressochè indefinibile, Walldavia sta lasciando i propri cittadini sguarniti ad una rappresaglia Graustarkiana fatta di bombe e missili. Quindi entrando in guerra il governo di Walldavia mette a repentaglio le vite e le proprietà dei suoi cittadini, che tanto dovrebbe proteggere.
  4. la coscrizione-schiavitù dei cittadini di Walldavia si intensificherà.


Se questo tipo di "sicurezza collettiva" dovesse essere realmente applicata su scala mondiale, con tutti i "Walldavi" che si immischiano in ogni conflitto locale intensificandolo, ogni piccola schermaglia diventerebbe ben presto una conflagrazione globale.

C'è un'ulteriore crepa nel concetto di sicurezza collettiva. L'idea di entrare in guerra per fermare "un'aggressione" è chiaramente un'analogia di un'aggressione stessa, fatta da un individuo verso un altro. Smith è stato visto picchiare Jones -- aggredendolo. La polizia si precipita per difendere la vittima Jones; stanno usando "un'azione di polizia" per fermare l'aggressione. E' stato perseguendo questo mito che, per esempio, il presidente Truman insistette per l'entrata in guerra dell'America contro la Corea del Nord definendola un "atto di polizia", uno sforzo collettivo dell'ONU per respingere "l'aggressione".

Ma "l'aggressione" ha solo senso sul piano individuale Smith-Jones, come anche il termine "azione di polizia". Questi termini però non hanno senso se innalzati a livello statale. Abbiamo visto che i governi entrando in guerra diventano essi stessi aggressori contro civili innocenti; non c'è dubbio che si trasformano in assassini seriali. Quindi, la corretta analogia all'azione aggressiva dello Stato sarebbe: Smith picchia Jones, la polizia si affretta ad intervenire in favore di Jones e mentre tenta di arrestare Jones la polizia bombarda una parte della città ed uccide migliaia di persone oppure spara all'impazzata con una mitragliatrice sulla folla. Questa è un'analogia più accurata, poichè è ciò che un governo in guerra fa e nel ventesimo secolo lo fa su vasta scala. Ma qualsiasi corpo di polizia che si comporta così diventa esso stesso un criminale, di solito molto di più di Smith che ha scatenato gli eventi.

Ma c'è anche un altra falla nell'analogia con l'aggressione individuale. Quando Smith picchia Jones o gli ruba la sua proprietà si può identificare Smith come un violatore di diritti personali e proprietari. Ma quando lo Stato Graustarkico invade un territorio Belgraviano, è inammissibile considerare "l'aggressione" in modo analogo a quello di prima. Per il libertario nessun governo ha diritto a rivendicare come sue proprietà o "sovranità" un determinato territorio. La rivendicazione del territorio da parte dello Stato Belgraviano è totalmente differente dalla rivendicazione fatta da Mr. Jones della sua proprietà (sebbene quest'ultima, dopo una investigazione, potrebbe anche risultare ottenuta da una rapina). Nessuno Stato è in possesso di legittime proprietà; tutti i territori che gestisce sono la risultante di conquiste fatte con la violenza. Da qui l'invasione Graustarkica si riduce a battaglia tra due banditi ed aggressori: l'unico problema è che civili innocenti da entrambe le parti sono calpestati.


A parte questo caveat generale sui governi, il cosidetto Stato "aggressore" di solito ha una fievole e plausibile rivendicazione sulle sue "vittime"; plausibile nel contesto del sistema stato-nazione. Supponiamo che la Graustark abbia oltrepassato il confine di Belgravia poichè la stessa Belgravia, un secolo prima, invase la Graustark e sottomise le sue provincie a Nord-Est. Gli abitanti di queste provincie sono culturalmente, etnicamente e linguisticamente Graustarkiche. Adesso la Graustark procede con l'invasione almeno per riportare sotto il suo controllo le provincie di chiara natura Graustarkiana. A proposito, in questa situazione, un libertario, mentre condanna entrambi i governi che guerreggiano ed uccidono civili, dovrebbe appoggiare la Graustark poichè avrebbe una rivendicazione più giusta da portare avanti, o perlomeno la meno ingiusta. Mettiamola in questo modo: nell'improbabile caso che i due paesi potesero tornare in tempi bellici premoderni, con
  1. armi limitate in modo da non avere perdite civili e delle rispettive proprietà;
  2. volontari piuttosto che soldati coscritti;
  3. finanziamenti con metodi volontari e non attraverso la tassazione;


il libertario potrebbe, in questo contesto, patteggiare per la Graustark.

Di tutte le recenti guerre, nessuna è andata vicino -- neanche un pò -- a soddisfare questi tre criteri di "guerra giusta" fatta eccezione per la guerra indiana del 1971 per la liberazione del Bangladesh. Il governo del Pakistan ha dato vita all'ultimo terribile retaggio dell'imperialismo britannico nel subcontinente indiano. In particolare il Pakistan era costituito da un regime imperiale con a capo i Panjabi del Pakistan occidentale, i quali governavano sui più numerosi e produttivi Bengalesi del Pakistan orientale (ed anche sui Pashtun dei confini nord-occidentali). I Bengalesi hanno desiderato per molto tempo l'indipendenza dai loro oppressori imperiali; all'inizio del 1971 il parlamento fu sospeso a causa di una vittoria del partito bengalese alle elezioni; da quel momento in poi le truppe dei Panjabi hanno sistematicamente massacrato i cittadini bengalesi. L'ingresso dell'India nel conflitto aiutò le forze della resistenza popolare bengalese del Mukhti Bahini. Mentre, come al solito, tasse e coscrizioni erano salite alla ribalta, le armate indiane non usarono le loro armi contro i bengalesi; questa fu una genuina rivoluzione del popolo bengalese contro lo Stato-occupante dei Panjabi. Solo i soldati dei Panjabi erano i ricevitori ultimi delle pallottole indiane.

Questo esempio sviscera un'altra caratteristica del sistema bellico: questa guerriglia rivoluzionaria può essere di gran lunga più coerente con i principi libertari di qualsiasi altra guerra contro lo Stato. Nella profonda essenza delle loro azioni, i guerriglieri difendono la popolazione civile contro i saccheggi dello Stato; perciò, guerriglieri, vivendo essi stessi nel medesimo territorio dello Stato-nemico, non possono usare armi nucleari o di distruzione di massa. In più: finchè i guerriglieri puntano alla vittoria grazie ad aiuti provenienti dalla popolazione, devono, come strategia di base, risparmiare i civili e concentrare meticolosamente le loro azioni solo contro l'apparato statale e le sue forze armate. Da qui la guerriglia ci riporta indietro all'onorabile ed antica virtù di concentrare precisamente gli sforzi contro il nemico risparmiando i civili innocenti. Ed i guerriglieri, per guadagnarsi il supporto della popolazione, di solito si trattengono dal tassare e coscrivere le persone, puntando al ricevimento spontaneo di materiale e volontari per combattere.

Le qualità libertarie della guerriglia si riscontrano solo nella parte rivoluzionaria; per le forze contro-rivoluzionarie dello Stato il discorso è abbastanza differente. Lo Stato non dovrebbe vessare la popolazione, ma lo fa, per necessità, puntando in primis su campagne di terrore di massa: uccidendo, terrorizzando e raggirando i cittadini. Dal momento che la guerriglia per avere successo deve avere il supporto di una grande maggioranza della popolazione, lo Stato, per vincere la sua guerra, deve concentrare i suoi sforzi sulla distruzione della popolazione o sulla reclusione forzata in campi di concentramento di ingenti numeri di civili in modo da separarli dai loro alleati guerriglieri. Questa tattica fu usata da un generale spagnoglo, "Butcher" Weyker contro i ribelli cubani nel 1890, poi dalle truppe americane nelle Filippine, dagli inglesi nelle guerre sud-africane e continua ad essere usata nella recente e nefasta "strategia del villaggio" nel sud del Vietnam.

La politica estera libertaria, quindi, non è una politica pacifista. Non portiamo avanti il pensiero, come fanno i pacifisti, che nessun individuo abbia il diritto ad usare la violenza per difendere se stesso in caso di attacco violento. Il pensiero che portiamo avanti è che nessuno ha il diritto di coscrivere, di tassare, di assassinare o di usare violenza contro gli altri. Dal momento che tutti gli Stati esistono e la loro relativa esistenza è incentrata nell'aggredire i propri cittadini e nell'acquisizione del loro territorio e finchè le guerre tra gli Stati ammazzano migliaia di civili, tali guerre saranno sempre ingiuste -- sebbene alcune possano essere più ingiuste di altre. La guerriglia contro gli Stati almeno ha il potenziale di coincidere con i requisiti libertari, poichè concentra meticolosamente la battaglia contro le armate statali ed i loro rappresentanti, inoltre perchè utilizza metodi volontari per finanziare il proprio conflitto.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


(I). Link alla Seconda Parte

(II). Link alla Terza Parte


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Note

[1] Si veda William H. Dawson, Richard Cobden and Foreign Policy (London: George Allen and Unwin, 1926).

[2] F. J. P. Veale, Advance to Barbarism (Appleton, Wisc.: C. C. Nelson Publishing Co., 1953), p. 58.

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venerdì 25 giugno 2010

Come devono comportarsi i libertari in un mondo statalizzato


Breve scritto che funge da cartina tornasole per i libertari nel momento del bisogno.

Rothbard riflette su due situazioni per cercare di analizzare le difficoltà che ogni libertario si trova ad affrontare nella vita di tutti i giorni; utili consigli per destreggiarsi in questa realtà in cui lo Stato ed i suoi tentacoli spadroneggiano.


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di Murray N. Rothbard


Gli articoli di Waters e Wollstein (pubblicati su Liberty di settembre/ottobre 1987) affrontano una questione d'importanza cruciale per i libertari: come possiamo agire, in maniera morale, in un mondo controllato e dominato dallo Stato? Credo che la cosa più importante sia quella di evitare le trappole gemelle ed ugualmente distruttive del settarismo ultra-purista, che ci impedirebbe persino di camminare per le strade di proprietà del governo; e dell'opportunismo da venduti, nel quale potremmo diventare guardiani dei campi di concentramento pur continuando a pretendere di essere "libertari" in un qualche distante mondo ideale. Gli opportunisti sono persone che separano drasticamente la teoria dalla pratica; hanno riposto i loro ideali in un cassetto o nella stanza dei trofei, in modo che non abbiano più alcuna influenza sulla loro vita quotidiana. I settari, all'opposto, soffrono di quello che i cattolici chiamano eccesso di "scrupolosità", e corrono sempre il rischio di rinchiudersi in una vita da eremiti o da potenziali martiri. Fin qui è tutto chiaro, ma per evitare entrambe le insidie abbiamo bisogno di alcuni criteri di guida.

La moralità come religione

Per Waters il problema è semplice; invece di cercare di evitare la trappola, egli vi si tuffa dentro. Per lui la risposta è quella di buttare a mate ogni principio morale, e con esso ogni passione, impegno e ostilità verso i rinnegati della libertà. A suo dire dovremmo essere "scienziati" freddi e distaccati che propongono la libertà solo su basi utilitaristiche e non emotive. In questo modo, si presume, non dovremmo preoccuparci per il tradimento o per qualsiasi altra azione, non importa quanto odiosa, che i libertari potrebbero commettere. Ad un custode dei campi di concentramento bisognerebbe parlare dolcemente dei benefici pratici del sistema dei prezzi o della divisione del lavoro! Va chiarito inanzitutto che il fatto che le persone religiose siano ostili ai traditori e agli apostati non rende questi loro punti di vista scorretti.

Accomunando i principi morali alla religione, Waters ripete una vecchia fandonia per mettere sotto accusa l'ostilità alle azioní immorali bollandola col temibile marchio della "religione". Ma non c'è alcun bisogno di essere religiosi per detestare I'immoralità o I'ipocrisia, o per essere infuriati o indignati a causa delle pugnalate alle spalle ricevute da amici o amanti. L'ideale di Waters dello scienziato privo di passioni, per quanto mi riguarda, lo considero completamente irreale. Ho conosciuto molti scienziati, ma non ne ho mai conosciuto uno che non fosse appassionatamente indignato contro la ciarlataneria o il tradimento degli ideali di ricerca della verità propri della scienza. Confesso inoltre che mi disturba cheWaters invochi il mio maestro Ludwig von Mises a sostegno del suo argomento. E' vero che Mises era un utilitarista, ma è anche vero che era appassionatamente devoto alla libertà, ed ugualmente appassionato nella sua opposizione ad ogni forma di statalismo, e a coloro che lo favorivano. Era uno scienziato, ma non era senzasangue...

Il caso Nozick

The New Republic ha riportato la notizia che il filosofo Robert Nozick si è appellato con successo alla Commissione Controllo Affitti di Cambridge, per costringere il suo padrone di casa a ridurgli I'affitto. Waters dice che per noi libertari moralisti ("religiosi") Nozick sarebbe un "apostata". Scemenza. Il termine appropriato per descrivere il comportamento di Nozick è "ipocrisia", dato che egli non ha mai abiurato pubblicamente le sue idee libertarie: semplicemente, non le applica nella sua vita quotidiana. Waters dice anche che ogni libertario che conosce "è rimasto sconvolto, arrabbiato e oltraggiato" dal comportamento di Nozick. Io no, per quanto condivida queste reazioni. Essendo un nozickologo di lunga data, le sue azioni non mi hanno sorpreso per niente. Non mi ha sorpreso che egli anteponga nella propria scala di valori l'antica e onorata tradizione urbana del Nordest di "fregare il propriopadrone di casa" agli astattiprincipi di libertà e non aggressione.

Ancora più divertente è stata la lamentela di Waters per quei libertari che sono arrivati ad "ostracizzare Nozick dalla società libertaria". E chi l'ha mai visto Nozick nella "società libertaria"? Sostanzialmente egli abbandonò la società libertaria dopo la sua unica fugace apparizione alla convention nazionale del Libertarian Party nel 1975, dove venne idolatrato per il successo del suo libro Anarchia, Stato e Utopia. Dopo di allora, il poliedrico Nozick si occupò di altri argomenti e di altri libri, perdendo ogni interesse per le questioni libertarie. Per quelli che sono appassionatamente devoti ai principi libertari, e li considerano di suprema importanza (specialmente noi "moralisti/religiosi"), questa perdita d'interesse è molto difficile da capire. Le cose però stanno così. La mia opinione su Nozick, basata sia sulla sua personalità sia sul modo in cui scrive i libri, è che sia molto meno interessato al contenuto dei suoi libri di quanto io sia per la brillantezza dei suoi processi mentali quando vi sta lavorando attorno. Questo genere di persone perde facilmente interesse per il contenuto dei suoi libri precedenti, e non ha difficolta a fottere un padrone di casa che gli sta antipatico senza pensare troppo ai principi libertari. Affrontiamo ora il colpo basso in sé e la questione sostanziale sollevata dall'articolo di Waters: indignarsi per la fregatura fatta da Nozick al suo padrone di casa equivale a rimproverare lui (o chiunque altro) quando cammina per le strade possedute dal governo, o prende un aereo da un aeroporto di proprietà del govemo?

Penso di no. L'errore fondamentale di Waters è quello di confondere l'azione di chi accetta una situazione che non ha creato con quella di chi si impegna attivamente per peggiorarla. In breve, non c'è niente di sbagliato nel comportamento di un libertario che vive in un appartamento a equo canone e che paga perciò un affitto inferiore a quello di mercato. Né io né Nozick siamo responsabili della legge sul controllo degti affitti, e pertanto siamo costretti a conviverci. Per questa ragione non c'è niente di sbagliato nel fatto che egli viva in un appartamento con l'affitto calmierato, così come non vi è niente di sbagliato nel fatto che passeggi per le strade pubbliche, prenda l'aereo da aeroporti statali, mangi pane il cui prezzo è sussidiato e così via. Nulla di tutto questo è opera nostra o di Nozick. Sarebbe perciò da folli o da martiri rinunciare a questi appartamenti se disponibili, rifiutare ogni cibo la cui produzione è regolamentata dal governo, non usare le poste di Stato e così via. La nostra responsabilità è quella di attivarci ed operare affinché siano rimosse queste situazioni di statalismo; questo è il massimo che possiamo razionalmente fare. Anch'io vivo in un appartamento ad affitto controllato, ma ho anche scritto e mi sono impegnato per anni contro il sistema di controllo degli affitti e ho esortato alla sua abolizione. Questa non è ipocrisia o tradimento, ma solo razionalità o buon senso. L'errore morale di Nozick (chiamiamolo "peccato", tanto per provocare Waters) va molto oltre il semplice fatto di vivere in un appartamento ad affrtto calmierato. La sua azione immorale è stata quella di perseguitare attivamente il padrone di casa, di rivolgersi all'autorità ed attivarsi a ripetizione
affrnché lo Stato lo costringesse ad abbassare I'affitto richiesto. Mi sembra che ci sia un'enorme differenza tra le due azíoni. Una cosa è vivere all'interno di una "matrice" creata dallo Stato, tentando al contempo di lavorare contro il sistema; tutt'altra cosa è usare attivamente lo Stato a proprio beneficio per fregare il prossimo, che significa dare inizio ed essere complici nell'aggressione e nel furto.

Lavorare per il governo

Il criterio da applicare nel caso di Nozick mi pare tutto sommato semplice, ma ci sono questioni molto più difficili. Come giudicare chi lavora alle dipendenze dello Stato? Non c'è dubbio che da un punto di vista libertario e pragmatico, a parità di condizioni, è molto meglio lavorare per un imprenditore privato piuttosto che per il govemo. Ma cosa succede nel caso in cui il governo abbia di fatto monopolizzato la tua occupazione, non lasciando altra alternativa pratica se non quella di lavorare per lo Stato? Prendiamo il caso dell'Unione Sovietica, dove il governo aveva effettivamente monopolizzato tutti gli impieghi, e dove in pratica non vi erano datori di lavoro privati. Dobbiamo condannare tutti i russi come criminali in quanto dipendenti pubblici? L'unico atto morale di ogni russo avrebbe dovuto essere quello di suicidarsi? Questa sarebbe un'idiozia. Nessun sistema morale può pretendere dalla gente il martirio. Anche negli Stati Uniti, per quanto non statalazati come la Russia, vi sono molte occupazioni virtualmente monopolizzate dal governo. È impossibile fare il medico senza diventare membro di una professione pesantemente regolamentata e centralizzata. Se la propria vocazione è l'insegnamento uriversitario è quasi impossibile trovare un'uninersità che non sia posseduta, economicamente se non legalmente, dallo Stato. Se per università pubbliche si intendono quelle che ricevono più del 50% delle proprie entrate dallo Stato, allora non vi è praticamente nessuria università "privata", salvo uno o due piccoli college. Durante le contestazioni di fine anni Sessanta gli studenti della Columbia University scoprirono che più del 50% delle enfrate di questa asserita universita "privata" provenivano dal govemo. In questa situazione, sarebbe folle e settario condannare gli insegnanti perché al servizio dello Stato. Non c'è niente di sbagliato, ed è perfettamente razionale, accettare la "matrice" della propria vita quotidiana. Quello che è sbagliato è aggravare e aggiungere altro Stato alla "matrice" statalista. Farò un esempio riguardante la mia carriera. Per molti anni ho insegnato presso un'università "privata" (anche se non mi sarei sorpreso di scoprire che più della metà delle sue entrate venissero dal govemo). Questa universita è stata per lungo tempo sull'orlo della bancarotta, e ad un certo punto tentò di rimediare a questa situazione facendosi "statalizzare", cioè chiedendo l'incorporazione nel sistema universitario statale di NewYork, che in quei tempi felici navigava nell'oro.

Per un certo periodo sembrava che la fusione si realizzasse, e c'erano forti pressioni affinché tutti i membri della facolta manifestassero ad Albany e facessero lobby a favore dell'accorpamento nel
sistema universitario statale. Io però mi rifiutati di farlo, poiché ritenevo fosse immorale impegnarmi ad accrescere lo statalismo attomo a me. Questo significa che tutti i libertari, se non fanno azione di lobby a favore dello statalismo, possono allegramente lavorare per lo Stato e lasciar perdere ogni scrupolo di coscienza? Certamente no. Qui è vitale distinguere tra due tipi di attività statali:
  1. attività che sarebbero perfettamente legittime se svolte da imprese private nel mercato;
  2. attività che sono immorali e criminali di per sè, e che sarebbero illecite in una societa libertaria.
Le seconde non devono essere svolte dai libertari in nessuna circostanza. In questo senso, un libertario non dovrebbe fare il direttore o la guardia di un campo di concentramento, il funzionario del fisco, l'arruolatore dei coscritti, il controllore o il regolamentatore della società o dell'economia. Prendiamo un caso concreto e vediamo come funziona il criterio proposto. Un mio vecchio amico, un anarco-libertario ed economista austriaco, ha accettato un importante posto di economista alla Federal Reserve. Lecito o illecito? Morale o immorale? Vediamo quali sono le funzioni della banca centrale. La Fed esercita il monopolio della contraffazione, crea dal nulla la moneta statale, cartellizza il sistema bancario, concede privilegi alle banche e salva quelle in difficoltà, regola o cerca di regolare la moneta e il credito, i livelli dei prezzi e l'economia stessa. Dovrebbe essero abolita non solo perché statale, ma anche perché le sue attività sono intrinsecamente immorali. Naturalmente non sorprende che questo mio amico vedesse il problema morale in maniera diversa dalla mia. Mi pare, allora, che il criterio fondamentale al quale dobbiamo attenerci per comportarci moralmente e razionalmente in un mondo statalizzato sia quello di:
  1. lavorare ed impegnarci al massimo a vantaggio della libertà;
  2. quando lavoriamo all'interno della "matrice" del mondo che ci è dato, rifiutarci di aggiungere ulteriore statalismo;
  3. rifiutarci assolutamente di partecipare alle attivita statali che sono immorali e criminali di per sé.

(Articolo apparso originariameúte su Liberty, n. 3, 1987 ; traduzione di Guglielmo Piombini)


giovedì 24 giugno 2010

Raccogliendo le briciole...






di Francesco Simoncelli


Con l'ultima catastrofe ambientale si levano sempre più veementemente le voci che vogliono la fine dell'umanità, troppo crudeli e troppo noncuranti del bene che madre natura ci ha fornito, bisognerebbe levare le tende da questo mondo per risolvere tutti i problemi (?).

La litania ha un suo seguito se è esistita ed ha resistito per anni (Malthus, in fin dei conti, non è un giovincello).

Il più fantasioso dei modi (curiosamente) auspicati è lo sterminio per via virale...la cosa interessante è che ogni anno i fanatici dello sterminio (mi raccomando quando si sparano queste sentenze, fatelo sempre con la bandiera colorata a 4 fonemi) vengono accontentati dalla nuova uscita di un patogeno potenzialmente capace di mietere vittime come la peste del '600. Dalla SARS alla recente H1N1 e la delirante campagna mediatica al seguito. Ma come non mai i fanatici hanno visto realizzati i loro desideri grazie alla comparsa di una delle piaghe più note (forse, no) della nostra era: l'AIDS.

Bizzarro come molte interconessioni si leghino molto bene a questa vicenda, verrebbe da pensare anche a chi abbia veicolato un simile pernsiero (la risposta potrebbe nascere dal NSSM 200 e crescere nel WWF); verrebbe da pensare anche che come fonte di guadagno non sia male, d'altronde il pensiero primario della persone è rimanere in salute..."a tutti i costi". Questo fine lucrativo/machiavellico è facilmente riscontrabile nelle brodaglie propinate come vaccini anti-influenzali, oppure, come nel caso dell'AIDS, dal caso SV40 ed il continuo utilizzo (al posto di materiale di sintesi) di materiale biologico contaminato. Eh si, lo sapeva Salk, lo sapeva Koprowski, lo sapeva Sabin.

Le smentite sono arrivate frettolose negli anni, bisognava salvaguardare la scienza (forse nell'attesa di introdurre queste stramaledetto agente in grado di fare piazza pulita del genere umano "indegno"), il potere assoluto di decidere cosa fosse vero o meno, cosa si dovesse pensare o meno, come, soprattutto, guadagnare una barca di soldi sulle spalle delle persone. La scusa non è male, si accontentano tutti alla fine: i fanatici sterminatori, gli elargitori di solidarietà compulsiva, gli amanti delle storie ufficiali. Creare un fenomeno di massa, renderlo comune, parlarne, ripetere costantemente la sua estrema pericolosità, ripeterlo soprattutto nelle scuole e non ultimo indire campagne mediatiche di raccolta fondi e sensibilizzazione. L'Africa l'idea, gli Stati Uniti l'attuazione, l'intero mondo il compimento...e probabilmente, il libero pensiero il risveglio.


Letture consigliate ed approfondimenti:

AIDS, tutto quello che non vi hanno mai detto

La storia dello sviluppo dell'AIDS:
  1. Body Graves' ESP-1 (HIV/AIDS) Development Timeline
  2. Estratto da "State Origin: The Evidence of Laboratory Birth (sito ufficiale di Body E. Graves)
  3. L'esperimento gay che ha fatto scoppiare l'AIDS in America
Il genocidio dell'AIDS e la sovra-popolazione, alcune cospirazioni sono vere...

Le origini dell'AIDS e L'origine del male


PS: a proposito di profitti e verità nascoste...




mercoledì 23 giugno 2010

Troppo Governo nei disastri


Ron Paul aggiorna i suoi lettori circa il disastro del Golfo del Messico, analizzando i danni ed il ruolo del governo in tutta la vicenda.


Tirando le somme il ruolo dello Stato, alla fine della storia, è sempre il solito e, purtroppo, anche quello dei contribuenti.



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di Ron Paul


Purtroppo il disastro nel Golfo del Messico continua anche questa settimana, nel frattempo gli sforzi della BP nel contenimento della falla continuano ad incontrare intoppi ed i residenti lungo la costa si accapigliano per pulire le spiaggie e salvaguardare la propria vita. Molti hanno criticato il governo federale durante le scorse settimane per non aver fatto abbastanza. La realtà è che di governo ce n'è tanto, fin troppo anche e la conseguenza di ciò può solo prolungare il problema ed indirizzare il dolore nella parte sbagliata. Per esempio, nel tentativo "di fare qualcosa" l'amministrazione di governo ha emanato un divieto unilaterale per le perforazioni in mare aperto. Questo è controproducente. Sono orgoglioso di partecipare alla rimozione di suddetto divieto. Perchè punire altre compagnie petrolifere ed i loro lavoratori che non hanno avuto niente a che fare con quel disastro e, soprattutto, hanno migliori regole sulla sicurezza?

E, come di solito accade dopo i disastri, molte persone -- perfino ufficiali di governo locale e statale -- sono venute a conoscenza di chi sapeva cosa bisognava fare e vorrebbero aiutare, ma sono stati ostacolati da rigidi burocrati federali mentre il petrolio continuava a sgorgare. Il vero problema non è tanto la mancaza di assistenza governativa, ma la mancata presa in considerazione di quelle persone che hanno le soluzioni. Si è assistito allo stesso fenomeno durante gli uragani Katrina ed Ike. Sembra che il ruolo principale del governo in queste situazioni sia trovare scuse per prendere tempo, organizzare meetings e conferenze stampa, sprecare denaro, punire le persone sbagliate e sovra-regolare.

Nonostante i vari esempi di incompetenza del passato, le persone ancora si affidano ai governi per risolvere i problemi quando ci sono simili disastri. Un governo che cerca di essere tutte le cose per tutte le persone potrebbe causare un circolo di crescente dipendenza, ma ultimamente fa solo del male alle persone che dovrebbe servire, le quali aspettano senza speranza la salvezza da Washington.

Il governo potrebbe dare una mano punendo i gruppi pienamente responsabili dei danni e pulire le coste. Sono speranzoso che gli sforzi per fare ciò sono genuini e la BP sia veramente ritenuta responsabile per tutti i danni, e non protetta o rimborsata sottobanco con i soldi dei contribuenti. Sfortunatamente, una grande somma dei soldi delle tasse, che dovrebbero finire nelle casse della BP, è stata convogliata nell'imminente conto supplementare per la pulitara del Golfo. I contribuenti non dovrebbero soccorrere un delle più grandi compagnie petrolifere che ha causato un tale disastro alle nostre spiagge.

E' da notare che la BP non è esattamente un bastione di libero mercato. Piuttosto sono molto interessati nell'acquisizione di sussidi governativi, di politiche di favore, e dell'impastoiamento dei meccanismi di competizione. BP è anche stata una delle maggiori influenzatrici del sistema cap-and-trade, al fine di far approvare una certa serie di provvedimenti nella legislazione dai quali avrebbe tratto profitto. Pensando a chi fa pressioni per loro e per cosa fa pressioni, la mia preoccupazione è che ciò possa intaccare il fatto che loro siano pienamente e strettamente responsabili del disastro facendo finire il tutto come un misero gioco delle tre carte, lasciando i contribuenti cornuti e mazziati.

Se l'idea di azione del governo è di punire gli innocenti, salvando i colpevoli, ed incrementando i prezzi alla pompa per tutti, è meglio pretendere che loro facciano di meno e non di più. Recenti sondaggi mostrano chiaramente un consenso calante per le perforazioni in mare aperto. Si ha ancora bisogno di petrolio e tanti buoni lavori dipendono dalla produzione dello stesso. E' cruciale per la nostra economia. Ma se gli incidenti continuano ad essere affrontati in questo modo, diviene facile capire come in molti vedano maggiori costi che benefici nelle perforazioni in mare aperto e ciò è una tragedia.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/